(foto LaPresse)

E' ora di regolarizzarli

Teresa Bellanova

I 600 mila clandestini da regolarizzare per far ripartire l’economia sono un tema serio e il governo può intervenire

Sono d’accordo: basta ipocrisia. E testa sotto la sabbia. E’ la mia risposta alla domanda di Carlo Stagnaro e Luciano Capone nella riflessione su quei “600 mila clandestini da regolarizzare per far ripartire l’economia italiana”. Gli autori parlano di “invisibili”, parola ormai entrata nel gergo comune. Piuttosto direi “invisibili ai più” e soprattutto a quelli cui l’invisibilità ha fatto e continua a fare gioco.

 

Nessun insediamento informale, nessun lavoratore in nero, sono mai completamente invisibili. Lo diventano perché ci si ostina a non volerli vedere per ricordarsene solo quando l’irreparabile costringe a prenderne atto. E’ anche per questo che dico: o siamo noi, la politica, chi governa, a farci carico fino in fondo delle contraddizioni che il reale ci impone sotto gli occhi, o se ne farà carico qualcun altro: la criminalità. Le infinite zone grigie che alimentano la lunga serie di malfunzionamenti in questo paese nascono da qui. Alimentarle è gioco perverso a cui mettere fine. Ed è esattamente questo che una politica riformista ha il compito di fare. Affrontare la complessità per governarla invece che subirla, dare risposte al presente per mettere a dimora il futuro, quello prossimo e quello che inauguriamo.

 

Sappiamo come fare. E’ accaduto quando abbiamo sconfitto con la riforma del Lavoro la vergognosa pratica delle dimissioni in bianco che aveva costretto per anni migliaia di lavoratrici a mettere il proprio destino di donne nelle mani dei loro datori di lavoro. O quando nel 2016 abbiamo approvato la legge contro il caporalato considerata esemplare dovunque e indicando, tra le altre, nella rete del lavoro agricolo di qualità una risposta alle criticità del settore. Dunque, possiamo farlo. Evitando, mi auguro, di banalizzare termini forti e necessari come umanità, giustizia sociale, economia sana e legale, lavoro regolare, riducendoli a buonismo. Oggi abbiamo da rispondere, scrivono gli autori, a due urgenze.

 

Prevenire l’emergenza umanitaria che può determinarsi negli insediamenti informali affollati di persone che in questo momento non lavorano o lo fanno nella più totale invisibilità, sono a rischio fame, abbandonati a se stessi e in balìa della minaccia da virus. Fronteggiare l’urgenza, determinata dall’assenza di manodopera, che sta investendo in modo pesantissimo l’agricoltura del nostro paese e che mette a repentaglio prodotti, lavoro, investimenti, cibo. Che rischia di mandare in enorme sofferenza le nostre aziende agricole e che nelle prossime settimane, quando saranno arrivati a maturazione molti raccolti, può determinare l’irreparabile. Mentre la filiera alimentare è impegnata con enormi sforzi a garantire cibo al paese, non si può, allo stesso tempo, lasciare marcire i prodotti nei campi e fare i conti con l’emergenza alimentare che sta investendo parti sempre più ampie della popolazione. Se una contraddizione è possibile, tre sono insopportabili. La via maestra l’abbiamo già tracciata e stiamo lavorando per metterla in atto: incrociare, in modo legale e trasparente, domanda e offerta di manodopera agricola. Vale per tutti, lavoratori italiani e stranieri.

 

Sia ben chiaro. Non esistono filiere sporche. E nessuno, tantomeno la sottoscritta, pensa di escludere la manodopera italiana. Sono stata la prima a dire che gli stagionali del turismo o della ristorazione, i tanti che purtroppo non lavoreranno come negli anni passati, potranno, mi auguro vorranno, guardare all’agricoltura come a un’opportunità. Eppure, i numeri parlano chiaro: in Italia, la manodopera straniera regolare in agricoltura conta circa 400 mila unità; da dieci anni gli italiani calano e gli stranieri aumentano; moltissimi proprio a causa dell’emergenza sono tornati nei paesi di origine; oggi siamo alle prese con un vuoto che si aggira intorno alle 350 mila unità e con la necessità di competenze.

 

La qualità delle risposte lega fortemente presente e futuro. L’agricoltura e la filiera alimentare costituiscono due straordinari driver di sviluppo per il sistema-paese, caratterizzati da potenzialità che dobbiamo saper mettere a valore. Questo chiama a scelte chiare. A chi mi accusa di dare troppa attenzione ai lavoratori nei ghetti e all’emersione del lavoro nero, rispondo: se non è lo Stato a garantire incrocio regolare tra domanda, offerta di lavoro, rete integrata dei servizi necessari, è la criminalità. A questo era ed è chiamata Anpal, i cui ritardi sono evidenti e così l’incapacità di fornire risposte adeguate a un tema così complesso. Un fallimento di cui prendere atto, a cui porre rimedio, e che conferma esattamente l’assunto di questa riflessione: o l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è garantito dallo stato o si apre lo spazio dell’informale e dell’illegale. Il caporalato non è un modo alternativo di erogare servizi necessari, è mafia. Che anche attraverso la fornitura di manodopera a condizioni inumane tenta di entrare nel controllo delle aziende ricattandole, a maggior ragione se sono meno solide e se la risposta pubblica non è chiara e veloce. Senza soluzioni legali si espongono le imprese al ricatto di chi fornisce braccia e servizi. Mettere fine ai ghetti, alla clandestinità, all’illegalità, alla concorrenza sleale che incrina la nostra reputazione nello scenario internazionale, significa attestarsi su una risposta di civiltà e su soluzioni strutturali, quelle necessarie al paese e alla sua economia. Il primato della politica è il nostro compito.

 

Teresa Bellanova è ministro dell’Agricoltura