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La stabilità rosso-gialla passa dalle debolezze parallele di Zingaretti e Di Maio

Valerio Valentini

Incontri fino a tarda sera. Il Pd cede su Conte, Giggino rinuncia ai fedelissimi. Ai dem il vicepremier unico. E iniziano le consultazioni. Salvini: “Non chiamerò la piazza”

Roma. Alla fine la mano se la sono tesa davvero: ché rimasti, come erano, impantanati a metà del guado, il rischio di restare travolti dalla corrente era grosso per entrambi. “La conferma di Giuseppe Conte è l’unica soluzione per rendere digeribile l’intesa a tutto il Movimento”, ha spiegato Luigi Di Maio a Nicola Zingaretti. Il quale, grosso modo con queste parole, ha ribattuto: “Ma allora non puoi conservare tutti i tuoi fedelissimi nelle stesse posizioni di governo”. E Zingaretti non voleva un Conte bis, ma lo accetterà. E Di Maio aveva garantito ai componenti del suo “gigio magico” una certa stabilità di poltrone nel trapasso da un esecutivo all’altro, e invece dovrà convincerne più d’uno a fare un passo indietro. Non piace insomma né a l’uno né all’altro, questo accordo. E però, quando si ritrovano faccia a faccia a Palazzo Chigi, poco dopo le 18, sia il segretario del Pd sia il capo politico del M5s sanno che non possono fare altro che siglare un’intesa di dubbia consistenza, ma che pure è quel tanto che basta per consentire a Sergio Mattarella di tenere a battesimo il nuovo governo.

 

Del resto, Di Maio sapeva bene che far abortire l’intesa col Pd avrebbe innescato la rivolta dei suoi gruppi parlamentari. E non a caso quando incontra il gotha del partito, il vicepremier uscente usa il tono di chi non ammette fughe nella vaghezza. “Perché fare un accordo col Pd – è il senso del discorso di Di Maio – non entusiasma nessuno, lo so. Ma ditemi voi se ci sono alternative migliori, sul tavolo”. E pare che nessuno, tra i presenti, abbia avuto granché da proporre. E allora ecco che il vertice ristretto, convocato in presunto gran segreto nell’appartamento che è un po’ la sede romana della Casaleggio – vista sublime su Castel Sant’Angelo: ah, “la Kasta!!!” – finisce col concentrarsi su un quesito solo apparentemente marginale: e, cioè, cosa sottoporre al voto di Rousseau. “Fare esprimere i nostri attivisti su un nuovo governo ‘Conte’ semplificherebbe molto le cose”, è stato il responso unanime. E per questo si è trattato per tutta la giornata coi pontieri del Pd: “Offriteci questa scappatoia”. E Zingaretti, che sul punto sembrava tetragono, certificava il suo arretramento di fronte alle pressioni di tutto il Pd dando il suo benestare al “Bisconte” (seppure in cambio, pare, di un incarico da sottosegretario alla Presidenza assegnato a un fedelissimo della Ditta come Andrea Orlando, papabile anche come Guardasigilli, e di un commissario europeo pd, che potrebbe essere Roberto Gualtieri, se non gli fosse riservata la guida del Mef). Acconsentendo perfino alla permanenza di Di Maio nel governo, seppure con un ruolo ridimensionato (un solo ministero, pare quello del Lavoro, o il Viminale che lui continua a sognare, e la rinuncia alla carica di vicepremier).

 

“Se vogliamo che il governo duri – va ripetendo da giorni Dario Franceschini – c’è bisogno che ci siano personalità politiche di spessore”. E infatti, alla fine, potrebbe entrarne a far parte – forse proprio con l’incarico di unico vice di Conte – anche Zingaretti, che di portare la sua regione Lazio alle elezioni anticipate lo aveva del resto messo in conto già mesi fa, quando aveva garantito a Matteo Salvini la certezza di un rapido ritorno alle urne in caso di crisi. Di Maio sospira, allora, ma non di sola serenità: perché sa bene che un simile schema lo eclisserà dietro la figura di un premier che di fatto viene “elevato” a rango di leader del M5s. Con l’ombra lunga di Matteo Renzi e dei “suoi” parlamentari, poi, che incombe su tutti.