L'aula di Montecitorio (foto LaPresse)

Chi sceglie il governo?

Il leader della Lega Matteo Salvini ha sbagliato tutta la strategia, o per aver fatto i conti senza l’oste o per ignoranza

Salvini ha presentato l’8 agosto una mozione di sfiducia nei confronti del governo di cui faceva parte, dichiarando che occorreva andare subito ad elezioni, poi ha fatto una penosa marcia indietro, che non finisce. Il presidente del Consiglio dei ministri, in una lettera resa pubblica, indirizzata al ministro dell’Interno ha dichiarato di aver da lui saputo che voleva passare all’incasso del capitale di voti conquistato alle elezioni europee.

E’ così saltato subito alle conclusioni. Le consultazioni presidenziali costituiscono una prassi consolidata (solo Einaudi ne fece a meno, per la nomina di Pella, per quel che ricordo) perché la nomina del governo è frutto di una procedura attivata dal presidente della Repubblica e decisa dal Parlamento.

E il Parlamento può dar luogo ad alleanze diverse, dopo accordi, compromessi, negoziazioni. Salvini ha pensato di incassare subito l’appoggio popolare ottenuto ad elezioni diverse, quelle europee, per formare una diversa maggioranza nel parlamento nazionale, dopo aver – con la sua politica europea – sprecato il patrimonio di voti conquistato in sede europea. Ha sbagliato, o per aver fatto i conti senza l’oste, o per ignoranza della procedura.

 

Eppure lui stesso aveva cercato in Parlamento, nel 2018, per tre mesi, di costituire una maggioranza, riuscendoci. Come può ora voler impedire che una analoga ricerca si svolga?

Perché traspone un ordine concettuale diverso in un modello costituzionale parlamentare, si potrebbe dire, dando un eccesso di nobiltà alla incoerente condotta del leader della Lega. Egli parte dall’idea che debba essere il popolo direttamente a scegliere il governo, mentre, invece, la Costituzione prevede che il popolo scelga il Parlamento, e, poi, il Parlamento, in un secondo momento, decida a quale governo dare la fiducia. Insomma, la democrazia parlamentare è articolata in due fasi, in due stadi. Se non fosse così, non solo non vi sarebbe bisogno di consultazioni presidenziali, ma sarebbe superflua anche la nomina presidenziale del presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri.

 

Una tensione di questo tipo non è ignota. Era già emersa con Berlusconi, quando quest’ultimo, avuto un deciso consenso popolare, mostrò segni di insofferenza nei confronti della procedura di consultazione, ritenuta superflua, perché il popolo si era pronunciato.

Infatti, in quel caso, il presidente della Repubblica allora in carica abbreviò le consultazioni. In questo caso, però, la situazione era diversa. Consultazioni popolari nazionali si erano svolte da poco più di un anno. Le consultazioni successive erano per l’elezione del parlamento europeo. La partecipazione al voto è stata di ben 20 punti inferiore a quella solita che si realizza nelle votazioni politiche nazionali.

 

Non è l’unica novità, l’unico tratto inedito della crisi del 2019. Un ministro e vicepresidente del Consiglio sfiducia se stesso e il governo di cui fa parte, salvo non insistere per la calendarizzazione della mozione di sfiducia, poi fa vaghe marce indietro, promettendo il ritiro della mozione presentata. Il presidente del Consiglio dei ministri sfiducia il suo ministro e si dimette a nome suo, del ministro e dell’intero governo. Questo cade non sotto l’assalto delle opposizioni, ma per propria debolezza interna, nonostante i tre giri di consultazioni e i due mandati esplorativi, nonché il contratto per il governo del cambiamento del 2018. Salvini si è rivelato mediocre giocatore di scacchi, non avendo previsto le mosse delle altre forze in Parlamento, oltre a fare l’errore concettuale, che ha messo in luce. Il presidente della Repubblica ha preso atto delle dimissioni del governo (noti che il governo non si era riunito per decidere le dimissioni – il 68° e ultimo consiglio dei ministri si era tenuto il 6 agosto –, nonostante che il comunicato del Quirinale reciti: “ha rassegnato le dimissioni del governo da lui presieduto”). Altra peculiarità: il presidente del Consiglio, annunciando le dimissioni in parlamento, ha fatto un discorso molto critico di addio, ma ha anche enunciato un programma di governo, come se dovesse continuare.

Senza perderci nelle sottigliezze delle procedure costituzionali e parlamentari, diciamo che nella questione si sono affrontate sia due forze politiche (quelle che avevano collaborato tra mille difficoltà interne per 15 mesi), sia due diverse concezioni della democrazia, una parlamentaristica, una populistica. Infatti, Salvini, nella discussione parlamentare, ha parlato in Parlamento, ma non per il Parlamento: si è invece indirizzato all’elettorato. Ha fatto affermazioni, dichiarazioni, non ha svolto argomentazioni, controbattendo quanto gli era stato detto e imputato. Ha parlato alle emozioni non alla ragione. Parlando il 18 agosto a Marina di Pietrasanta, era stato ancora più esplicito, mettendo in discussione Parlamento e giudici. Ha detto che se un governo M5s-Pd si fosse costituito si sarebbe dovuto accertare se “risponde al volere del popolo” e “se ci sarà da scendere in piazza per salvare l’Italia, la libertà e la democrazia”. Ha anche aggiunto che attendeva un’incriminazione per aver costretto a restare a bordo di “Open Arms” gli immigrati, dichiarando: in tal caso, “conto su di voi”. Insomma, due appelli al popolo, contro il parlamento e contro i giudici.

 

E ora?

Il presidente della Repubblica, gestore delle crisi, dovrà giungere alla nomina di un governo, o di legislatura, o per elezioni. I suoi poteri sono “a fisarmonica”. Comprendono la funzione necessaria di levatrice, un compito maieutico, perché figli li fanno i genitori e la nascita dipende dai figli stessi, la levatrici dovendo solo agevolare ed assistere. Non bisogna dimenticare due aspetti, che riguardano quelli che per ora sono vinti e vincitori. I vinti (la Lega) avevano disegnato una strada completamente diversa per l’Italia, di rottura delle due alleanze storiche (atlantica ed europea) e di allineamento con i russi. I vincitori continuano ad esser malati di “short-termism”, cioè sono incapaci di guardare lontano, di fare programmi che indichino un futuro all’Italia. Sono, come tutte le forze politiche italiane attuali, orientati a sfruttare le funzioni redistributive dello stato, dimenticando gli altri importanti compiti dello stato, quello dello Stato come strumento del “people’s empowerment”, quello dello stato costruttore di un patrimonio collettivo, quello dello stato che riduce i divari territoriali. Ma di questo parleremo un’altra volta.