Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

La cicuta di Zingaretti

Salvatore Merlo

L’incastro che ha messo il leader nelle mani dei nemici. La chiave della legislatura ora è: “pro-por-zio-na-le”

Roma. E’ entrato e uscito dagli incontri con Luigi Di Maio con la faccia contratta, consapevole di aver personalmente trattato (e con successo per giunta) la sua personale sconfitta. “Nicola sta esercitando una forma di resistenza passiva, tipo Solidarnosh”, dicevano ieri sera persino i suoi uomini, quelli che gli vogliono bene e che hanno capito quanto Zingaretti sia in difficoltà per questo accordo con i Cinque stelle che è quasi chiuso, forse sigillato, chissà, ma che di certo realizza tutto il contrario di quello che il segretario del Pd aveva immaginato per sé, per il suo partito e per la sinistra tutta. “Voleva le elezioni, perché avrebbe realizzato una forma di bipolarismo con il suo Pd perno della sinistra contrapposto a noi e a Salvini”, sorride Giorgia Meloni mentre attraversa il Transatlantico deserto, una Montecitorio apparentemente vuota ma dalla quale invece spuntano a ogni angolo i leader della politica, i capigruppo dei maggiori partiti, tutti a lavoro, tutti con le orecchie tese. E d’altra parte Zingaretti prima aveva detto: “Governo no”. Poi: “Governo sì, ma senza Conte”. E di cedimento in cedimento, il segretario era arrivato a dire: “Va bene, governo con Conte ma assolutamente senza Di Maio”. Mentre alla fine, ieri notte, a quanto pare, Zingaretti si è risolto a bere fino all’ultima goccia di cicuta servitagli da Matteo Renzi, Dario Franceschini, Andrea Orlando, e da tutti gli altri amici e avversari del Pd. E a nulla sono serviti i giochi delle tre carte, le truffaldinerie e le piccole insipienti arroganze di Di Maio, che con una mano stringeva il Pd e con l’altra il cellulare con Matteo Salvini all’altro capo della linea. 

 

E infatti c’era Paolo Gentiloni dubbioso, Graziano Delrio che sbuffava con un sovraccarico di serietà (“rischiamo di farci trattare come ai tempi dello streaming”), mentre la disperazione superba di Luigi Di Maio toccava vertici sospesi tra il patetico e l’indisponente: i ministeri, i vicepremier, il Viminale… E poi la gragnuola di tweet, comunicati, dichiarazioni, ultimatum, penultimatum, veline e indiscrezioni insufflate. “Ma davvero credete che Di Maio sia un interlocutore affidabile? Ci vogliono umiliare spero non lo permetterete”, diceva Stefano Esposito, ex senatore del Pd. Ma già sabato scorso, al Nazareno, dopo una riunione carica di interrogativi, Dario Franceschini si era rivolto a Zingaretti con broncio appuntito, prendendolo seccamente per il nome, scandendo all’incirca queste parole: “Nicola, va bene. Andiamo anche a votare. Ma se poi le elezioni vanno male la responsabilità è tua”. E insomma: dopo la sconfitta dovrai dimetterti, e il partito lo perdi comunque. 

 

Così, in un lampo, Zingaretti deve aver realizzato, anzi deve aver avuto la certezza, di essere precipitato in un incastro maledetto. Infernale. La storia che sembrava fiduciosamente sospingerlo verso gioiose scadenze è invece piombata su di lui con un pezzo di carbone in mano, pronta a cancellarlo con un frego. E tutto adesso prende le sembianze ingombranti di Matteo Renzi, che di questo nascituro ed eterogeneo governo, di questa creatura instabile ed elettrica è il fusibile, il salvavita: se lui stacca, cade tutto. Se il Pd dovesse trasformarsi nella sesta stella del partito vaffanculista, Renzi – non Zingaretti – ha i senatori necessari a chiudere la legislatura. E allora tutt’intorno al segretario che già s’immaginava una sinistra larga, vecchia maniera, in un contesto bipolare opposto al Salvini strapotente ed estremista, ecco che si apparecchiano nuovi progetti e scenari, un campo da gioco nuovo eppure vecchissimo. “Volete sapere cosa faranno per prima cosa?”, dice Riccardo Molinari, il capogruppo della Lega che si muove per i corridoi della Camera come un’anima in pena: “Faranno subito la riforma elettorale”. E scandisce: “Una riforma pro-por-zio-na-le. Per metterci fuori gioco”. S’intuisce così che vasti e insospettabili orizzonti si spalancano, pur nel disordine di un’alleanza impossibile tra Pd e M5s. Il proporzionale piace a Silvio Berlusconi, ovviamente, e allo stesso tempo, pensa Renzi, creerebbe uno spazio di resistenza per le posizioni riformiste e liberali oggi in declino. Non piace a Salvini, che non governerebbe nemmeno con quel sonoro 33 per cento che aveva raccolto alle elezioni Europee. Dovrebbe allearsi, allargare, fare compromessi, forse persino moderarsi ammesso gli sia possibile. “Se si fa il taglio dei parlamentari”, aveva spiegato appena pochi giorni fa Sabino Cassese, “occorre rimodificare il sistema elettorale. Ci vorrebbe un proporzionale puro”. Eccolo. La legge è scritta, i voti ci sono, e sono più di quelli del Pd e dei 5 Stelle. E’ questo, d’altra parte, ormai è chiaro il vero scopo del governo. Altro che Iva e manovra. E’ l’obiettivo di Renzi. Forse non di Zingaretti. Ma il segretario ormai si è rassegnato a subire.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.