Fausto Bertinotti (Foto LaPresse)

“No: era meglio il voto”

David Allegranti

Intervista a Bertinotti. “La sinistra poteva determinare la sua rinascita. Ma soltanto con le elezioni”

Roma. “Guardi, ho pochissime capacità previsionali, ma l’ambito dal quale muovo il mio punto d’analisi è che la politica non potesse dare altra prova che la sua morte”. Fausto Bertinotti dice al Foglio che il possibile accordo per formare un nuovo governo fra Pd e Cinque stelle rientra in questa generale analisi di sistema, fortemente negativa, che, aggiunge Bertinotti sorridendo, “lo ammetto, non è né brillante né movimentata”. Tuttavia, “quello che vediamo sono davvero gli spasmi della morte della politica. E quando dico politica intendo quella forma di democrazia costituzionale per come l’abbiamo conosciuta nel secondo dopoguerra”.

 

Una democrazia, dice Bertinotti, “secondo la quale la politica si guadagnava una relativa autonomia attraverso il suo rapporto con il conflitto sociale con la società e con il popolo. Era l’ordinamento costituzionale a dettare la vocazione della politica”. E la vocazione della politica era “perseguire l’eguaglianza, questo lo diceva persino Norberto Bobbio che pure aveva un’idea diversa dalla mia. La politica, così generata e rigenerata, aveva un suo statuto di autonomia. Non solo, quella politica conteneva un’idea di società alternativa legittimamente iscritta nella politica medesima”. Molto bene, dice Bertinotti con franchezza, “ora quella politica è morta. E’ stata uccisa nell’ultimo quarto di secolo”. Il possibile accordo Pd-Cinque stelle ne è la testimonianza? “Non solo. Provo a dirla così: la politica deprivata di autonomia si è racchiusa nel governismo, cioè nella possibilità di apparire sullo schermo in possesso di una vita apparente, cioè attraverso il governo. E il governo è a sua volta eterodiretto”. Negli ultimi 25 anni prima c’è stata la rottura nel “rapporto tra il parlamento e il paese, a partire dal suo rapporto con il conflitto sociale, poi il parlamento è stato a sua volta sequestrato dal governo. Non raccontiamocela: decretazione d’urgenza, voti di fiducia, un sistema maggioritario che ti chiede di scegliere il governo ma ti impedisce le politiche da fare. Il governo a sua volta viene cooptato in un sistema di governi. Mi viene da sorridere a dirlo, ma questa polemica contro l’Europa è ridicola. Il suo carattere oligarchico lo hanno costruito i governi nazionali, a partire da Maastricht”. In questa situazione, dice Bertinotti, “diventa sovrano chi stabilisce uno stato d’eccezione, per dirla con Carl Schmitt, quando l’eccezione non c’è. E’ così che si manifesta la costruzione oligarchica che determina le politiche economiche e sociali. Il mercato diventa il vero sovrano, che ha riscoperto la sua vocazione in questa forma di capitalismo finanziario globale”.

 

Per la politica non c’è dunque spazio, “è stata destrutturata ed è entrata in un percorso di eutanasia. Il conflitto tra destra e sinistra è stato sostituito da un altro: quello tra chi si candida a governare con queste regole, celebrato dai sacerdoti della governabilità o, per usare un’altra formula, della governamentalità, e chi fuori”.

 

Il primo ad adattarsi a questo schema, dice l’ex presidente della Camera, è stato il centrosinistra. “Nel periodo nascente della globalizzazione i paesi europei erano governati dal centrosinistra. Per primi loro sono stati i protagonisti di questo processo di destrutturazione della democrazia. Non sono io a parlare di post-democrazia, ma Colin Crouch, che appartiene a una scuola diversa dalla mia. I partiti di centrosinistra hanno per primi scelto tra la legittimazione popolare e la legittimazione della governabilità. Ora, lei ricorderà quella formula di Eliot di fronte alle chiese vuote: ‘E’ l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?’. Sostituisca la parola chiesa con il centrosinistra ed è lo stesso. Mi ricordo ancora lo stupore, tanti anni fa, di fronte a sindacalisti della Fiom con in tasca la tessera della Lega. Chi si stupiva e chi si stupisce oggi non ha mai incontrato una fabbrica in vita sua. Noi lo studiammo a Brescia con i primissimi successi della Lega di Bossi e Maroni. Il direttore dell’ufficio per la pastorale sociale del lavoro mi disse di essere sconvolto dal fatto che tanta parte dei suoi parrocchiani manifestasse una propensione così individualista ed egoistica”. Ecco, il “carattere grottesco, caricaturale e deforme di ciò che vediamo sulla scena della politica oggi in Italia è una manifestazione un po’ estrema di una tendenza più generale. Perché, intendiamoci, non è che da altre parti ci sono Togliatti, Nenni, De Gasperi ed Einaudi”.

 

In altre epoche le forze politiche non trattavano su Conte o perché l’Iva non dovesse subire modificazioni, in palio c’era altro. “Una volta Riccardo Lombardi ebbe un conflitto rilevante con l’uomo a lui più vicino, cioè Antonio Giolitti, quando rifiutò il dicastero di bilancio e programmazione. Dette un giudizio netto: le riforme che tu pensi e la programmazione che tu metti in campo, disse Lombardi a Giolitti, sono inaccettabili. E il tuo governo non è accettabile perché sta dentro l’ordine esistente e perché non compie il cambiamento del modello di sviluppo. Altro che Conte e Iva”.

 

Persino nella Silicon Valley ci si interroga sul capitalismo e il modello di sviluppo, “dieci giorni fa i manager delle principale imprese mondiali, molte delle quali appartenenti al settore della tecnologia, si sono incontrati per discutere del fatto che il capitalismo sta andando molto male e che non possiamo pensare solo al profitto, ma anche alle retribuzioni dei lavoratori, all’aumento delle possibilità del potere di acquisto e alla catastrofe ecologica. Resta naturalmente da chiedersi quanto di questo possa avere effetti pratici, ma dappertutto è diffusissima la percezione della crisi dell’attuale modello di sviluppo. Nell’accademia, nei movimenti. L’unica entità che non ne ha percezione è la politica, perché è morta”. Quindi anche i rivoluzionari a Cinque stelle hanno fallito? “I due populismi, uno sedicente trasversale – e in parte lo è davvero – dei Cinque stelle e l’altro reazionario, quello della Lega, si sono messi insieme e hanno tratto legittimazione solo perché dicevano di fare il contrario dei governi precedenti. Programmi diversi, fisionomia diversa, personale politico diverso. L’unica cosa in comune era l’intenzione di voler cambiare tutto. Tant’è vero che per mesi e mesi a ogni critica della loro politica disastrosa o comunque inefficace la risposta era dare la colpa a quelli di prima. Anche loro insomma, come i riformisti dell’ultimo quarto di secolo – e lo dico per segnare la differenza con i riformisti d’antan – vengono sussunti al governo. Questa situazione paradossale in cui tutti vogliono formare il governo è figlia di una certa idea del mondo: fuori dal governo non sei niente. Fuori dal governo non sai parlare, non sai articolare un discorso. Sei aggrappato a tutto ciò con cui credi di poter sopravvivere. I populisti, come i riformisti di oggi, di fronte al governo perdono la loro autonomia. La compatibilità è la loro Weltanschauung; la compatibilità delle nuove formazioni politiche deprivate di autonomia perché deprivate di ideologia e del rapporto con il conflitto di classe”. E’ la perfetta parabola di Calvino per la politica, dice Bertinotti: “Da Barone rampante a Visconte dimezzato a Cavaliere inesistente. Il Barone rampante è quello dei trent’anni gloriosi, dell’Europa da cambiare. Il Visconte dimezzato è il trapasso tra la prima e la seconda repubblica, con l’uccisione di Moro e, almeno dal punto di vista simbolico per me, con la morte di Berlinguer. Oggi siamo al Cavaliere inesistente, alle convulsioni sul vuoto”.

 

Per Bertinotti, dunque, meglio il voto. “Le elezioni sono il terreno attraverso cui puoi avere l’ambizione di determinare la tua rinascita. Se sei ininfluente, devi trovare le parole per costruire coscienza e popolo. C’è il tempo della semina, non puoi sottrarti a un confronto che metta in luce anche le tue debolezze e le tue precarietà”. L’argomento è: se andiamo al voto vince Salvini. “Sono sconcertato. Non faccio le elezioni perché perdo. Ma le pare un argomento questo? In un libro molto amato dalla mia generazione, ‘L’orologio’ di Carlo Levi, un testo molto bello, Levi scrive pressapoco così: ci sono momenti in cui le persone sentono tutta l’incertezza della vita e i popoli sentono incertezza del proprio destino. In questi momenti di grande incertezza di indeterminazione, ci sono dei politici che giocano a scacchi e non si accorgono che è arrivato il momento di cercare le parole che animino le forze per rovesciare il tavolo”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.