Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Il M5s sta cambiando?

David Allegranti

Il ruolo di Conte, i voti in Europa, la distanza con Salvini, le partite in comune in Rai. Viaggio spericolato in un Pd che si interroga sulla svolta europea del grillismo

Vecchia storia, quella del dialogo, dell’interlocuzione o dell’alleanza fra Pd e Cinque stelle. Ciclicamente si ripropone, come la peperonata. Però stavolta c’è qualcosa di nuovo che si muove: l’insolita frenesia di Giuseppe Conte (in Europa e non solo), che ha attirato l’interesse del Pd. A partire da Enrico Letta, che dice: “Ursula von der Leyen eletta con soli 8 voti di margine. Il M5s che l’ha votata è stato quindi decisivo. Delle due l’una, o dicono che han sbagliato oppure tirano le conseguenze e cambiano di 180 gradi la strategia. La terza (continuare come se niente fosse) non ha senso logico”. Ma procediamo con ordine.

 

Base Riformista guarda con interesse alla “grinta di Conte”, l’unico che potrebbe avere spazio politico per un avvicinamento

Su molti temi – dall’elezione condivisa di Ursula von der Leyen alla necessità che Matteo Salvini risponda, in una qualche sede istituzionale, delle vicende russo-lombarde – ci sono in effetti convergenze fra il partito di Zingaretti e quello (in teoria) di Di Maio, anche se il dubbio che resta è che tutto proceda per entropia anziché sotto precisa strategia politico-militare. Educare Salvini per colpire il governo felpastellato potrebbe dunque essere solo una circostanza fortuita e non un attacco coordinato e preciso al cuore del salvinismo; al massimo un modo per spaventare il leader della Lega (anche se forse già basterebbe). L’idea, come noto, piace molto a Dario Franceschini, che per settimane ha fatto leva sulla paura del voto anticipato, avvicinando parlamentari e spiegando loro che lui ha informazioni privilegiate, mica cotiche, che lui può vantare rapporti diretti con il Quirinale (ma nel Pd c’è chi osserva che quello che ha una certa consuetudine con il Colle è Letta, amico di Simone Guerrini, pisano come lui e consigliere di Sergio Mattarella). Aveva segnato pure una data sul calendario, Franceschini: il 29 settembre. Il voto autunnale non pare essere all’orizzonte, ma all’ex segretario del Pd intanto potrebbe bastare questo: ritagliarsi uno spazio in un partito nel quale, osserva un autorevole parlamentare del Pd della minoranza, “lui è schiacciato dentro il nuovo assetto, quindi prova a intestarsi uno spazio”.

 

Tuttavia sarebbe riduttivo ricondurre tutto a Franceschini e ai suoi giovanili desideri. Mettiamoci quindi in sintonia con lo scenario testé proposto: la possibilità di un esecutivo Pd-Cinque stelle per sopraggiunta impraticabilità del campo. Come dice un altro autorevole parlamentare vicino a Renzi, che colloca l’ipotesi in un contesto quirinalizio, “abbandoniamo un attimo i nostri dover essere, le nostre valutazioni. Mettiamo che ci sia una rottura sul rapporto con la Ue e che l’asse Mattarella-Moavero-Conte trascini con sé il M5s contro la Lega e che siamo in sessione di bilancio, rischiando l’esercizio provvisorio”. Mettiamo pure che “magari Mattarella proponga un Conte bis, un governo con Draghi. Come finisce?”.

 

Il segretario Zingaretti smentisce l’ipotesi ma dice: “Noi abbiamo le nostre idee, se gli altri convergono ci fa piacere”

Finisce che rigore è quando arbitro fischia, e in questo caso l’arbitro Mattarella ha un potere contrattuale non secondario. Resta da chiedersi come sia possibile che il Pd si butti tra le braccia della Casaleggio Associati. Il Quirinale ha appunto una sua forza, ma basterebbe? “Se Mattarella dicesse che il Pd deve votare un Conte bis–Draghi per evitare l’esercizio provvisorio, allora non sarebbe così semplice per Zingaretti dire no”, osserva ancora il parlamentare del Pd interpellato dal Foglio, ipotizzando uno scenario spericolato. C’è comunque un fatto nuovo: per la prima volta, nei ragionamenti del Pd non si parla della “pista Fico”, che poco conta nei veri equilibri di potere. C’è anzi una “pista Conte”. Come spiegano da Base Riformista, la componente del Pd che ha il maggior numero di parlamentari, Conte è l’unico che ha lo spazio politico per assumere una simile iniziativa. Non Di Maio, ma il capo del governo sì. Insomma, secondo questo ragionamento il M5s a guida Conte sarebbe diverso da un M5s a guida Di Maio. Oppure sarebbe lo stesso ma con almeno una certa autorevolezza in Parlamento, cosa che Di Maio potrebbe non più avere, a differenza del presidente del Consiglio. Dalle parti del Pd è dunque stata notata la recente “grinta di Conte”, che fa sospettare due cose: uno, la possibilità che possa esistere questo “governo del presidente”, di cui Conte potrebbe essere a capo e per il quale Conte avrebbe avuto via libera direttamente dal Quirinale; due, la consapevolezza che altro stia per uscire su Salvini e il suo giro russofilo – un po’ alla volta o tutto insieme – come dimostrano i toni molto aggressivi dei Cinque stelle nei confronti del ministro dell’Interno.

 

Zingaretti comunque, smentisce (che altro può fare?) e dice: “Sgomberiamo il campo da ogni equivoco: non c’è nessun governo Partito democratico – Movimento 5 stelle all’orizzonte, non è questo l’obiettivo. Noi abbiamo le nostre idee, se gli altri convergono ci fa piacere. Vorremmo solo che anche questa vicenda della Russia finisse, perché vorremmo parlare di altre questioni semplici: come riprendere a dare lavoro agli italiani e come aumentare la crescita, come riaprire un impegno per un piano casa straordinario per dare la casa a chi non ce l’ha”. Sicché, aggiunge il governatore-segretario, “chiamiamo il governo ad assumersi le proprie responsabilità. Vorremmo parlare di più dei problemi degli italiani e meno dei litigi interni di due partiti, che governano insieme da un anno e sembra che non siano più d’accordo su niente. Il prezzo lo paga l’Italia, e questo è inaccettabile”.

 

Se Mattarella si muovesse per un Conte bis, che cosa potrebbe rispondere Zingaretti a una chiamata del Colle?

La smentita preventiva del segretario potrebbe però cedere alla prova del Quirinale. Il che non significa che tutti siano pronti a cambiare idea di fronte a una richiesta mattarelliana. C’è infatti una parte del Pd che tiene l’ipotesi dell’alleanza con i Cinque stelle bene a distanza. “Pura fantasia, per ragioni sia politiche sia di agenda”, dice al Foglio Andrea Romano. “Politicamente noi e i Cinque Stelle restiamo agli antipodi, a partire dalla concezione della democrazia liberale. Di Maio e Casaleggio sono i principali collaborazionisti del disegno salviniano-putiniano di smantellamento della democrazia parlamentare e come tali devono essere combattuti”. Ma se guardiamo all’agenda dei prossimi mesi, dice Romano, “sono convinto che Salvini non mollerà facilmente la presa sul governo (anche per il ricatto che sta subendo da Mosca: la sua reazione scomposta allo scandalo del Metropol è la prova del suo timore di nuove rivelazioni). Così come credo che le elezioni non siano alle porte: e questo toglie dal tavolo qualsiasi ipotesi di scomposizione dell’attuale maggioranza gialloverde”.

 

Anche per Tommaso Nannicini, vicino a Maurizio Martina, si tratta di “fantascienza”, almeno in questa legislatura. “Se cade il governo Conte si deve andare al voto. Non si deve ripetere l’errore del 2017, quando dopo il referendum costituzionale la legislatura aveva chiaramente perso il suo significato e si doveva andare a votare. Quella era la legislatura delle riforme istituzionali, questa è la legislatura del Giano Bifronte populista. Sconfitta l’opzione politica che caratterizza una legislatura, la parola deve tornare agli elettori. L’opzione di un governo sostenuto da M5s e Pd in questa legislatura mi pare fantascienza. Poi per carità c’è sempre chi si appassiona alla fantascienza per ritagliarsi un ruolo, ma dubito che questi sforzi producano alcunché. E comunque il governo deve ancora cadere”.

 

Ieri in Vigilanza, Pd e 5 stelle stavano per bocciare una risoluzione presentata da Forza Italia (con Lega favorevole)

E’ vero però che da qualche giorno lo schema sembra essere cambiato, come si capiva anche dalle recenti parole del lottiano Antonello Giacomelli. “Non basta dire ‘senza di me’. Non basta dire di no alle alleanze”, ha detto al Foglio. “Non è sufficiente. Noi avanziamo una proposta concreta, di sistema”, cioè il ballottaggio nazionale per superare la fase del proporzionale. Insomma, diceva Giacomelli, il Pd deve superare la fase oltranzista del “senza di me”. Una frase che i suoi compagni di partito usano quando c’è in ballo il dialogo, anche solo accennato, fra il Pd e i Cinque stelle. “Dobbiamo renderci conto che non basta dire ‘senza di me’. Dobbiamo dire che c’è un problema e dare una risposta. Altrimenti ci condanniamo all’irrilevanza. Non possiamo dire di no e basta senza avanzare proposte politiche”. Dunque, al netto di ogni smentita zingarettiana, la corrispondenza d’amorosi sensi fra Pd e Cinque stelle sta proseguendo. Ieri in commissione di Vigilanza stavano per votare insieme contro una risoluzione presentata da Giorgio Mulè di Forza Italia che impegna il cda della Rai “a non procedere alle nomine previste dal Piano industriale 2019-2021”. Il voto poi all’ultimo momento è stato rinviato alla settimana prossima; la Lega avrebbe votato a favore – per fare gioco di sponda con Marcello Foa contro l’ad della Rai Fabrizio Salini – mentre Pd e Cinque stelle avrebbero bocciato la risoluzione. Più per una questione politica, per dare un altro segnale a Salvini, che di merito.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.