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Il Tesoro futuro di Salvini

Valerio Valentini

Oltre il commissario c’è di più. Nomi, storie e personaggi da seguire per capire chi può imprimere una svolta non estremista alla squadra economica della Lega

La stanza resta quasi sempre vuota. Essenziale, per nulla pretenziosa, al muro una riproduzione a colori di Piazza del Popolo vecchia di chissà quanti anni, una scrivania sgombra rischiarata neanche troppo bene dai neon che non riscattano granché l’ombra perenne che ingurgita via dell’Impresa e che separa la finestra dalle mura esterne di Montecitorio. Un mobile senza libri e senza cartelline. Tutto sta lì a denunciare un uso assai saltuario di quello studio, dove in effetti Geminello Alvi, affezionato com’è alle sue campagne marchigiane, trascorre non più di uno, al massimo due giorni a settimana, passando però quasi mai inosservato, coi suoi modi da gentiluomo old fashioned un po’ affettati, col suo vistoso papillon al collo, sul corridoio al primo piano di Palazzo Chigi che conduce al sancta sanctorum di Giancarlo Giorgetti, il vicesegretario della Lega che proprio all’economista anconetano aveva pensato come ministro dell’Economia. Era suo, il nome che il consigliori di Matteo Salvini aveva tenuto al riparo del tritacarne mediatico, finché era stato possibile, nel gioco al massacro che portò poi all’individuazione di Paolo Savona prima, e di Giovanni Tria infine, come responsabile del Tesoro. Non passò molto, però, perché Giorgetti desse seguito, seppure in forma surrogata, a quella sua volontà, nominando Alvi, nel luglio del 2018, esperto del nucleo tecnico al Dipartimento per la programmazione economica del governo (lo stesso che, parecchi mesi dopo, sarebbe finito al centro delle polemiche per un contratto di consulenza firmato da Federico Arata, figlio di quel Paolo che infiniti guai addusse a Armando Siri). E c’ha messo poco, Alvi, per capire che in effetti sì, era giusta la sua intuizione giovanile: di quando, cioè, dopo la laurea in Economia e commercio all’Università di Ancona, aveva subito abbandonato un corso di specializzazione per esperti contabili perché “per i mie gusti i commercialisti lavorano troppo”. “Solo che io qui starei a fare il sottosegretario”, se la rideva il commercialista Giorgetti sulle prime, nel tempo non ancora infausto in cui accollarsi le rogne del governo gialloverde, compresa la parte grillina, doveva sembrargli eccitante.

 

Cominciava insomma una parentesi nuova, nell’esistenza paciosamente tumultuosa dell’“eccentrico” Alvi. “Ho avuto molte vite”, ama dire, lui, di sé. E a quella di Palazzo ci è arrivato tardi, quasi malgré soi e in posizioni apparentemente defilate, di quelle che si riservano ai pensatori poco spendibili nella scellerata trafila delle cose di governo, solo a metà degli anni Duemila: quando, regnante il Cav, fu nominato dapprima membro del Consiglio degli esperti del Mef guidato dall’amico Giulio Tremonti, poi membro del delendo Cnel, e nel mentre vedeva spalancarsi davanti a sé le porte dell’Aspen Institute e della “Fondazione Eni Enrico Mattei”; e poi, ma solo nel 2017, anche quelle di Intesa San Paolo.

 

Troppo affezionato alla sua libertà di pensatore anticonformista, Alvi non è quel tipo d’intellettuale che pretende da sé una perfetta coerenza. Ama piuttosto ricredersi, smentirsi. Non ha problemi, nel 2011, a mettere in guardia i giovani indignados dai troppo facili entusiasmi sul default del debito (“Sarebbe il fallimento delle banche italiane. E del resto il capitale è un principio di responsabilità: quando uno stato fa un debito deve onorarlo”), e a esaltare le letture più radicali di von Hayek (“Nel suo liberismo c’è l’idea del free banking, la fine del debito pubblico e della possibilità di sostenere la crescita da parte dello stato”), a ricorrere all’antroposofia di Rudolf Steiner anche per spiegare la spiritualità dell’economia, a mescolare Adriano Olivetti e Gianfranco Miglio, saltando a seconda della convenienza del discorso dal comunitarismo al federalismo. E’ così che s’avvicina al mondo del Carroccio, partecipando già in tempi non sospetti, quando Bossi era Bossi, ai convegni organizzati da Andrea Mascetti col circolo “Terra Insubre”. Seguono dibattiti e convegni, anche in epoca salviniana, dove Alvi recita sempre – da par suo – la parte dell’intellettuale controcorrente. Viene invitato a Parma, al “Cantiere” che il leader della nuova Lega allestisce nel giugno del 2016, per parlare – appunto – di “Comunità e federalismo”. E poi, di nuovo, a Forlì, nel febbraio 2017, quando Alvi discute con Giorgetti del futuro dell’euro e dell’Europa. Una chiacchierata di cui si conserva il resoconto che Gianluca Pini, notabile della Lega emiliana, elabora a beneficio dei suoi militanti: “Finalmente un ragionamento fatto seriamente sulla storia folle della nascita della moneta unica e sulle reali prospettive del crollo dell’euro e dell’Europa dei burocrati. Prospettive, come è emerso durante la serata, che potrebbero portare a un’Europa fatta di confederazioni di aree geo-economiche omogenee tali da mantenere il Nord, la Padania, nell’area di una moneta forte legata alla Mitteleruopa liberando le energie del sud – quelle poche rimaste – tramite una moneta diversa, svalutabile. La sintesi della serata – conclude Pini – è stata chiara: o si va verso una stato federale con due velocità diverse o il declino e il sottosviluppo saranno le sole prospettive per il nostro futuro”. Del resto già qualche anno prima, nel 2012, su Panorama Alvi indicava la via da seguire: “E’ chiaro a ogni persona sensata che il ritorno alla lira avrebbe una qualche sensatezza. Anzi direi che, essendoci costretti, forse più consigliabile sarebbe persino tornare a due lire diverse, un per il sud Italia e un’altra per il resto della nazione”.

 

Prima di questo, però, Alvi era stato molto altro, compreso assistente di Paolo Baffi alla Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, dove l’economista di Broni si era rifugiato, quasi in esilio volontario, dopo le ingiuste accuse che lo travolsero nel 1979, quando era governatore della Banca d’Italia. Da Baffi, al cui fianco lavorò tra il maggio del 1987 e il giugno del 1989, Alvi dice di avere appreso la diffidenza, tramutatasi negli anni in ostilità, per “quel sistema completamente fasullo che è l’euro”, nonché il rimpianto malcelato per quelle “provvidenziali svalutazioni” che, prima che i vincoli di Bruxelles arrivassero a impedirle, erano a suo giudizio la via migliore, se non obbligata, per rilanciare la crescita e la produttività. Dopo la Svizzera, toccò alla Russia: Mosca e San Pietroburgo (“Mai in hotel”), dove Alvi andò a lavorare per conto del Mediocredito Centrale, la banca voluta nel 1952 dalla Dc insieme alla Cassa del Mezzogiorno come strumento di (non sempre commendevole) politica industriale. Ed è allora, a metà anni Novanta, che comincia a diffondersi il mito del “Geminello filorusso”, con tutte le derive complottiste del caso. Lui sembra perfino compiacersene, quando ad esempio afferma che in Italia tutti sbagliano: “Qui si crede che l’America sia il futuro, il progresso. Semmai è la Russia più adatta a questo ruolo”, dice a Repubblica nel 1995. Arriva perfino a diventare “pomosh instruktora”, cioè primo aiutante, del generale Mikhail Riabko, ineffabile sommo maestro del “Systema”, l’arte marziale russa a cui questi sarebbe stato iniziato dalle guardie del corpo di Stalin.

 

Poi tutto si sgonfia, Alvi torna stabilmente in Italia e quasi vent’anni dopo nulla, se non un’eco distorta, è rimasta di quelle voci sul “Geminello uomo del Cremlino”, ora che del resto il filosofo marchigiano sembra avere, a Palazzo Chigi, una funzione semmai opposta: e cioè quella di raddrizzare la barra del governo gialloverde verso le obbligate rotte filoatlantiche. E’ Alvi, infatti, a cesellare i dettagli del discorso che Giorgetti pronuncia nel salone del Palazzo del Vicariato Vecchio, davanti ai vertici della Cei, il 13 marzo scorso, nei giorni di più pericoloso sbandamento italiano sulla Via della Seta: una invettiva che trascende l’attualità per riaffermare la necessità – non solo politica, ma storica e forse perfino filosofica – dell’ancoraggio di Roma all’alleanza con Washington e alla sintonia con la Santa Sede.

 

E più o meno nelle stesse vesti di ambasciatore dell’atlantismo ritrovato, è tornato ad avvicinarsi a Giorgetti, e dunque alla Lega, anche Domenico Siniscalco. La prima volta, accanto al sottosegretario alla Presidenza del consiglio, lo si è visto durante la trasferta di quest’ultimo negli Usa. Già managing director e vicedirettore di Morgan Stanley, arrivato appena nell’ottobre scorso a presiedere il Consiglio per le relazioni tra Italia e Usa, l’ex ministro dell’Economia aveva moderato un incontro con imprenditori e notabili vari convenuti nella Harold Pratt House, sulla sessantottesima strada di Manhattan. “Più che un tour, un tour de force”, racconta chi ha contribuito all’organizzazione di quegli incontri tra Washington e New York: finalizzati, sostanzialmente, a piazzare un po’ di titoli di stato italiani (oltreché a rassicurare l’amministrazione Trump rispetto alla svolta filocinese che il governo del cambiamento stava inaugurando, in quei giorni di grandi convenevoli con “Mr Ping”).

 

E certo per quel tipo di attività non poteva che tornare utile qualche suggerimento di Siniscalco, che da direttore generale del Tesoro, tra il 2001 e il 2005 ha avuto, come dice lui, “il privilegio di gestire il debito pubblico per cinque anni stando tutti i giorni sui mercati, seguendo le oscillazioni quotidiane, andando ogni settimana a Londra, parlando costantemente con le agenzie di rating”. E insomma “non è così sorprendente”, si schermiscono i contabili leghisti, “che Giancarlo lo ascolti, come ascolta anche altri”. Non sorprende, certo, a patto però di sorvolare su una diversità di modi, di intenti, e di metodi, che non è di poco conto. “Chissà che cosa dovrà aver pensato Siniscalco – se la ride un suo amico, sintetizzando il paradosso in una icastica coincidenza – nel vedere la faccia di Enrico Mattei stampata sui mini-bot, lui che la fondazione Mattei, quella vera, l’ha diretta a fine anni Ottanta”. L’insofferenza dei turbosovranisti euroscettici del Carroccio verso Siniscalco è d’altronde agli atti: la si è toccata con mano poco più di un anno fa. E cioè quando Giulio Sapelli, economista ascoltato – si dice – più da Matteo Salvini che non da Giorgetti, nella sua fuggevole ebbrezza da premier in pectore per un notte indicò preventivamente in Siniscalco – che già era stato in lizza come possibile membro del governo Monti, tempo addietro – il suo prescelto ministro dell’Economia. Ed ecco che allora su “Scenarieconomici”, il sito di riferimento dei seguaci di Savona, comparvero furiose invettive contro il dirigente di Morgan Stanley, “la banca più filo-massonica della finanza anglosassone”, per un processo farsa sui “derivati del Tesoro” (risoltosi poi in un nulla di fatto) in cui, oltre a Siniscalco, era coinvolto anche l’altro ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, e Maria Cannata, storica dirigente del Mef che con Siniscalco aveva condiviso gli anni memorabili di quello che i diretti interessati chiamano “lo squadrone”: era l’inizio dei Duemila, e Siniscalco, ereditando la Direzione generale del Tesoro da Mario Draghi, lavorava insieme a Dario Scannapieco e Lorenzo Bini Smaghi. Tutta gente non proprio amata dai Borghi e dai Bagnai. “Ma tutta gente, Draghi in primis, con cui Giancarlo parla parecchio”, gongolano i leghisti di fede giorgettiana. Pure Bini Smaghi? “Pure con lui si sentono spesso, anche se non si prendono molto”.

 

Di certo, c’è che Siniscalco condivide con Giorgetti l’idea che le volontà popolari, anche le più sgangherate, le si possa al massimo “gestire in modo accorto”, ma non anestetizzare. “E dunque oggi sarebbe sbagliato dal punto di vista democratico, non finanziario, fare una politica di violenta austerity”, ha spiegato Siniscalco a metà maggio, in un convegno organizzato dall’Osservatorio dei conti pubblici di Cottarelli a Torino. Prima di lanciarsi in una previsione un po’ fosca: “La ristrutturazione del debito italiano è ormai richiesta da tutti gli investitori nel mondo. Il problema non è se farla, ma quando”. Il motivo? “Probabilmente siamo oltre il punto di non ritorno nel rapporto tra debito e pil”, per cui qualsiasi “manovra di aggiustamento deprime il pil e così il debito ritorna a crescere”. Insomma, “una spirale perversa” che potrebbe innescarsi, dice Siniscalco in sintonia con gli economisti leghisti, proprio seguendo le ricette di rigore chieste dall’Ue.

 

Ma se l’uno l’ha vista sfumare, la sua possibilità di diventare ministro del governo del cambiamento, l’altro “Reviglio boy” la sta invece vivendo in questi giorni, l’ansia per una possibile promozione. Sì, perché Giulio Tremonti, pure lui arrivato al piano nobile di Via XX Settembre con Franco Reviglio a fine anni Settanta e poi diventato l’homo oeconomicus per eccellenza del berlusconismo, sembra crederci in un ritorno in prima linea sull’agone politico. Per un posto da commissario europeo? Forse, sempre che alla fine non sia Giorgetti – come sembra – a voler scegliere la fuga a Bruxelles. O magari come ministro per gli Affari europei. “Perfino al posto di Tria”, lo vedrebbero bene alcuni nel Carroccio di oggi. Un’ipotesi di fronte alla quale Roberto Castelli, che con la Lega al governo ci andò anni fa, quasi sobbalza: “Se Salvini cerca un ministro dell’Economia malleabile, Tremonti è l’ultima persona che gli consiglio”. Il diretto interessato si schermisce: “Non commento”, ripete. “Al massimo ragiono su scenari futuri, non commento l’attualità”. Che è comunque un’attualità che vede il suo studio di presidente dell’Aspen Institute, a Piazza Navona, assai frequentato anche da alti notabili leghisti: come avvenne del resto nelle ore convulse di fine maggio 2018, quando bisognò individuare, su suggerimento dello stesso Savona, un ministro dell’Economia che non risultasse troppo sgradito a nessuno.

 

Non è escluso, insomma, che superata la sbornia per i mini-bot, nell’eterna sfida all’euroburocrazia si torni a parlare di eurobond: il cavallo di battaglia con cui, all’epoca, proprio Tremonti condusse la sua crociata contro Bruxelles. Una proposta, non a caso, condivisa anche da Alberto Quadrio Curzio, economista storicamente vicina al prodismo che si è guadagnato sempre più la stima di Giorgetti (parabola non molto diversa a quella del banchiere Massimo Ponzellini, peraltro cugino alla lontana dell’attuale sottosegretario alla Presidenza). Anche a Quadrio Curzio, di cui condivide molto l’idea di conciliare “liberalismo sociale” e “federalismo solidale”, Giorgetti ha riservato una carica a Palazzo Chigi: membro del comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale. Poca roba, quel po’ di prestigio istituzionalizzato a cui un accademico che è stato già presidente dei Lincei potrebbe anche fare a meno, ma che dice comunque di una certa vicinanza di Quadrio Curzio all’orbita leghista – come la dimostrava del resto già l’inserimento di un famigliare dell’economista valtellinese, quel Saverio imperatore dei centri benessere di lusso, nella lista di Bobo Maroni per le regionali lombarde del 2013.

 

Già inquadrato a pieno regime nelle file leghiste, invece, è Marcello Sala, vicepresidente del consiglio di gestione di Banca Intesa, a lungo considerato come il candidato ideale a sindaco della sua Monza, nel 2017, e poi per il vertice di Cdp, sempre in quota Lega. Amico personale di Giorgetti, ma stimato anche da Giuseppe Guzzetti. Sempre all’ombra della prestigiosa scuola di Intesa, ma su sponde opposte, più sinistrorse, è cresciuto Franco Dalla Sega, scalpitante professore di Economia aziendale alla Cattolica di Milano ascoltato dai leghisti. Trentino di nascita ma milanese di adozione, classe ‘60, ottiene la sua piccola apoteosi nella primavera del 2014, quando viene nominato come consulente speciale di Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, cassaforte del patrimonio finanziario del Vaticano, dove la Lega smania di accreditarsi. “E’ un delfino di Giovanni Bazoli”, dicono Oltretevere di Dalla Sega. “E’ il miglior prodotto del bazolismo”, aggiungono. Che era, ai tempi del celodurismo padano, ciò che più d’ogni altra cosa la Lega aborriva. Ma vista da Palazzo Chigi, si sa, la realtà assume connotati diversi.

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