I vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio con il presidente russo Vladimir Putin, il 4 luglio scorso a Villa Madama (Foto LaPresse)

I neoilliberisti

Luciano Capone e Alberto Mingardi

L’equivoco a sinistra sulle radici economiche del populismo. Ciò che unisce Salvini e Putin non è la flat tax, bensì il culto dello Stato: non conta creare la ricchezza, ma redistribuirla

Quali sono le idee, i valori, il progetto politico che legano Matteo Salvini e Vladimir Putin – ammesso che esistano? Il presentarsi sincronicamente di movimenti antisistema, in vari angoli del globo porta inevitabilmente a cercare un minimo comune denominatore. Fra di loro esiste solo una convergenza d’interessi, o anche una simmetria programmatica?

 

Contro il neoliberismo, ovunque sia

 

La sinistra intellettuale tende a pensare che la questione sia tutta ed esclusivamente economica. Da una parte, si è sin qui imposta una narrazione del populismo tutta fondata sul lato della domanda: partiti e gruppi “populisti” sarebbero sorti in risposta a problemi di tipo economico (l’aumento delle diseguaglianze). Dall’altra, sta prendendo piede una narrazione che guarda invece al lato dell’offerta, ma per giungere alla medesima conclusione.

  

Per uno storico quale Emanuele Felice, Putin e Salvini sono gli alfieri di un “capitalismo sfrenato che non ha più bisogno dei diritti” 

In un caso o nell’altro, il colpevole è il cosiddetto “neoliberismo”. Per i primi era il “neoliberismo in atto” a costituire il nerbo delle forze antisistema, per i secondi il guaio starebbe nel “neoliberismo in potenza” che coinciderebbe con le proposte economiche di quegli stessi partiti. Il neoliberismo, insomma, come causa e conseguenza di se stesso. Per uno storico attento quale Emanuele Felice a caratterizzare il populismo contemporaneo sarebbe una “idea della società che considera i diritti dell’uomo come un ostacolo verso l’unico obiettivo che realmente conta: la crescita economica”. Starebbe emergendo un “capitalismo sfrenato che non ha più bisogno dei diritti”, ha scritto Felice su Repubblica (“Putin e un progresso senza diritti”, 8 luglio), un “liberismo che recide il cordone ombelicale con la democrazia liberale”. Guardacaso Vladimir Putin “dichiara che il liberalismo (non il liberismo!) è obsoleto”: “Il capitalismo neoliberale non ha più bisogno della democrazia”. Di queste posizioni, secondo Felice, “Salvini è oggi il più pericoloso alfiere in Europa”. Insomma, Salvini e Putin autocrati neoliberisti. Una veloce ricerca su Google, del resto, ci consegna più o meno autorevoli epigrammi come “il populismo è il figlio mostruoso del neoliberismo”, “Lega-Cinque stelle, governo più neoliberista che populista”, “La svolta suprematista del neoliberismo”, “L’acqua dev’essere pubblica, il neoliberista Salvini se ne faccia una ragione”.

  

 

Uno di noi ha avuto uno scambio su Facebook con Felice. Richiesto di qualche ragguaglio sul dove e il come le politiche neoliberiste unirebbero Putin e Salvini, Felice non ha avuto dubbi: i due sono uniti dalla “flat tax”. Il riferimento alla tassa piatta dovrebbe evocare la rinuncia all’uso della politica fiscale per la riduzione delle diseguaglianze. L’errore di questa prospettiva ci sembra risiedere nella totale sottovalutazione dei simboli e di tutto ciò che va sotto l’etichetta, per forza di cose ambigua, di “cultura”. In qualche modo, si sopravvaluta la razionalità del populismo (e forse della politica tout court), sottovalutandone la componente simbolica quando non istintuale.

 

Anche il politologo britannico Colin Crouch inserisce Salvini tra i “nazionalisti neoliberali”, perché “la Lega condivide l’idea di flat tax”

Al contrario, a noi pare che se l’uomo è ciò che mangia, l’uomo politico è ciò che legge. Proprio per questo il confronto con le tesi populiste dovrebbe essere serrato, non limitarsi a liquidarle per ragioni, per così dire, di stile. Il guaio, per buona parte della sinistra, è quel che si può apprendere in questo confronto, e cioè che in realtà i populisti, per esempio sul “liberismo”, o sul welfare, o sulla globalizzazione, la pensano letteralmente come i più autorevoli esponenti della sinistra mainstream. Meglio evitarsi l’imbarazzo.

  

La flat tax

 

Anche il politologo britannico Colin Crouch (“L’Europa oltre il neoliberismo”, il Mulino 1/19) inserisce Salvini nel gruppo dei “nazionalisti neoliberali”. Dello stesso girone farebbe parte Margaret Thatcher, mentre Marine Le Pen starebbe fra i “nazionalisti che si oppongono al neoliberismo”. Evidentemente conta nulla la forte sintonia fra Le Pen e Salvini, che proprio sul calco della destra francese ha rimodellato il suo partito. Anche per Crouch, “la Lega condivide molte politiche neoliberali, come ad esempio l’idea di flat tax”.

  

Matteo Salvini discute la flat tax con Giuseppe Basini e Giancarlo Morandi in un incontro del Partito liberale italiano (Foto LaPresse)


 

Non serve essere particolarmente attenti alle cose italiane per accorgersi che, a quattro anni dai primi annunci in merito, per Matteo Salvini la flat tax non è che uno slogan, accettato passivamente dai media e volentieri dai suoi avversari. Nella realtà non c’è allo studio alcuna proposta di riforma fiscale con un’aliquota unica, ma solo alcune modifiche all’interno dell’attuale Irpef: non a caso si è parlato, con sprezzo della logica, di “flat tax a due aliquote”. Che poi sono diventate tre. Oramai c’è una “flat tax” per ogni scaglione, o poco ci manca.

  

Ma la Russia non è affatto liberista e la politica economica della Lega rientra in uno schema keynesiano: spesa sociale, deficit e moltiplicatore 

La parola “neoliberismo” (uno di noi ci ha scritto un libro) è quantomai plastica e flessibile. Se essa ha un senso, non c’è dubbio che la “flat tax” rientra nella santabarbara di alcuni dei suoi più autorevoli interpreti, uno su tutti Milton Friedman. Ma il “neoliberismo realizzato”, ammesso fosse tale, di Reagan e Thatcher non passava per l’aliquota unica. Mentre in contesti tutto fuorché “neoliberisti”, in Russia ad esempio, il passaggio alla tassa piatta è stato in larga misura possibile in ragione delle inefficienze dell’amministrazione, che a un certo punto hanno richiesto semplificazioni nette.

 

È in fondo la ragione per cui, anche in Italia, si può apprezzare la flat tax senza essere liberisti. In un regime come quello italiano una flat tax sarebbe, come ha ben dimostrato Nicola Rossi, a conti fatti più progressiva dell’attuale vestito d’Arlecchino, nel quale pari redditi possono essere assoggettati ad aliquote totalmente diverse. È questo l’obiettivo di Salvini? Non ci pare: una revisione complessiva del sistema fiscale italiano è fuori, purtroppo, dai suoi obiettivi.

 

Non c’è dubbio che uno degli argomenti politicamente più apprezzati per tagliare le tasse sia l’effetto sulla crescita. Ma tanto basta per dire che Salvini e Putin incarnano figure e sistemi di idee che danno priorità assoluta alla crescita economica? Sbaglieremo, ma a noi sembra che l’attuale governo abbia un interesse ridottissimo a qualsiasi politica per la crescita e lo sviluppo economico: tant’è che parole d’ordine che in molti confiderebbero “neoliberiste” (liberalizzazioni, riforma del welfare, privatizzazioni) sono semplicemente scomparse dall’agenda. Anzi, le uniche proposte attuate o in fase di realizzazione vanno in direzione opposta: regolamentazioni, controriforme del welfare e nazionalizzazioni. La coalizione gialloverde ha un rapporto acrobatico con la verità dei fatti, ma se c’è una cosa sulla quale Lega e Cinque stelle sono da sempre di cristallina chiarezza è che ciò che interessa loro è come vengono fatte le fette della torta, non che la torta cresca. Se guardiamo all’unica legge di Bilancio sinora approvata, l’atto supremo di politica economica di un governo, è facile notare che è basata sull’aumento in deficit della spesa sociale assistenziale (reddito di cittadinanza e pensioni), secondo uno schema puramente keynesiano e “domandista”: lo stato prende a debito dei soldi, li mette in tasca ai cittadini e si attende che il moltiplicatore keynesiano faccia il miracolo.

 

Neoliberismo decrescitista?

 

Questo “keynesismo straccione” è in realtà la declinazione economica della cultura dell’uno e dell’altro partito della coalizione. Una cultura che non si occupa di come creare la ricchezza: ma solo di come redistribuirla. Questo è il vero collante della “strana coalizione”, del populismo di destra e di quello di sinistra. È vero per chi chiede fette più grosse per i ceti penalizzati dalla globalizzazione, è vero per chi vuole mettere già oggi un cerotto sulle ferite ipotetiche dell’automazione, è vero per chi fa dell’immigrazione la madre di tutte le battaglie perché più persone significano fette più piccole della torta dello stato sociale. Dove starebbe il neoliberismo? E dove starebbe l’ossessione per la crescita economica?

 

Per carità, le parole sono di pongo: capita che vengano usate per dire tutto e il suo contrario. È il destino del lemma “neoliberismo”. La definizione corrente è: uno status quo che non ci piace. Questo vale al bar come nelle scienze sociali: anche studiosi importanti parlano di “neoliberismo”, ma il termine sfugge ogni definizione. Proprio la sua indeterminatezza consente di vederlo dappertutto.

  

L’uomo politico è ciò che legge: la Thatcher il liberale von Hayek, Salvini il keynesiano Bagnai, Putin il nazional-bolscevico Dugin

Prendiamo però sul serio, per un secondo, l’idea che questo neoliberismo effettivamente esista. Putin, a differenza di Salvini, non è al governo da pochi mesi. Se il neoliberismo fosse di casa nella Federazione russa, ci si aspetterebbe che ciò riverberasse in un elevato grado di libertà economica, il sacro graal dei liberisti neo e paleo. Nell’Economic Freedom of the World del Fraser Institute la Russia finisce nel terzo quartile della classifica, 97esima (nell’Index of Economic Freedom della Heritage Foundation è 98esima). A questo proposito è utile ricordare quali sono i parametri di giudizio. L’analisi del Fraser Institute si concentra su cinque dimensioni: dimensioni dello stato (più ampia è la spesa pubblica, minore sarà lo spazio per la decisione privata), sistema legale e rispetto dei diritti di proprietà, stabilità monetaria, libertà di scambio internazionale, regolamentazione. Un’economia di mercato non può prescindere da una società nella quale le proprietà siano rispettate, si senta come un dovere mantenere le promesse fatte, e quando questo non avviene ci sia un giudice al quale rivolgersi. Non ci sembra che questi siano valori particolarmente presenti, nell’azione e nella pedagogia politica di Vladimir Putin.

 

Lo stesso ci pare si possa dire sul governo italiano, che invece ostenta proprio per le regole del mercato, e per qualsiasi vincolo esterno, la più strafottente indignazione. Per descriverlo, Emanuele Felice utilizza anche un’altra etichetta, che ci pare più azzeccata: neoperonista. Ci sembra opportuno ricordare che Perón faceva i piani quinquennali. Come spiega Loris Zanatta, “i pilastri della politica peronista” furono “lo stato e l’industria”, in una cornice di pianificazione: “Compito dello stato fu innanzitutto quello di proteggere il mercato interno, di stimolare la crescita attraverso gli strumenti del credito e della spesa pubblica, di prendere possesso delle infrastrutture chiave, dai telefoni alle ferrovie, attraverso altrettante nazionalizzazioni”. E le pulsioni di questo esecutivo, a partire dalla volontà di emanciparsi dall’incubo dell’euro, cioè di una banca centrale lontana e quindi meno facilmente influenzabile – ricordiamo che l’indipendenza delle banche centrali è stata uno dei risultati più importanti raggiunti dalla “rivoluzione neoliberista”, dove e quando qualcosa di simile c’è stato – per arrivare alla passione per i deficit fiscali e all’avversione ai vincoli esterni, ricordano molto la definizione di “populismo macroeconomico” che Rudi Dornbusch e Sebastian Edwards avevano coniato per descrivere le insostenibili e disastrose politiche economiche dei paesi dell’America latina negli anni 70 e 80.

 

Populismo contro liberismo

 

Per motivi ben comprensibili, il populismo è sostituzione del rapporto diretto col leader a ogni tentativo di “regolamentazione” della politica. In questo, è profondamente illiberale, ma è anche la peggiore delle pedagogie economiche, perché l’economia di mercato è un ordine non pianificato, nel quale il momento della decisione è lasciato a una pluralità di attori che si coordinano attraverso il sistema dei prezzi: non perché obbediscono a un qualche Lui. Il mantra dei liberisti, non a caso, è che il benessere sociale dipende dall’interesse individuale ma in maniera indiretta, l’uno non è messo al servizio dell’altro. Il populismo è popolare proprio perché invece postula nessi casuali semplici: il Capo dice x, e x accade. Evita ogni discussione complessa sui complessi meccanismi della crescita.

  

Salvini alla presentazione di un libro di Claudio Borghi e Alberto Bagnai contro l'Euro (Foto LaPresse)


 

L’uomo politico è ciò che legge o che dice di leggere, dicevamo. La signora Thatcher, di fronte ai colleghi di partito incerti sulla linea politica, per spiegare come solo riforme profonde potevano ricostruire i meccanismi della crescita sventolava “The Constitution of Liberty” di Hayek: “This is what we believe!”. Salvini esibisce “Il tramonto dell’euro” di Alberto Bagnai, un economista keynesiano di sinistra, e ne diffonde una visione semplificata e bengodista: basta uscire dall’euro, poi il paradiso verrà. Quanto a Putin, non sappiamo se ha letto “La quarta teoria politica”, ma il suo autore Aleksandr Dugin – considerato l’intellettuale di riferimento del putinismo e non a caso apprezzato in Italia dal mondo leghista – è per autodefinizione un nazional-bolscevico (non esattamente un estimatore dell’economia di mercato e dello stato leggero).

 

Ma è ben diverso opporsi alla corrente del consenso, come faceva la “neoliberista” Margaret Thatcher, e solleticare il bisogno di narrazioni semplici per problemi complessi. È questa la ricetta dei populisti, i quali – esattamente come tutti gli avversari intellettuali del neoliberismo – hanno un discorso pubblico tutto imperniato sulle ingiustizie nella distribuzione delle risorse. Il populismo di oggi sostanzialmente promette di mantenere l’attuale livello di redistribuzione, e magari persino di accrescerlo, ma in una società più culturalmente omogenea. Il nemico sono élite apolidi, sradicate e globaliste, che regolano i propri affari con la freddezza del sistema dei prezzi e non con l’empatia dell’idem sentire di membri della medesima comunità.

 

Si capisce che gli intellettuali di sinistra facciano fatica a venire alla prese con la natura e le sorgenti ideologiche del populismo contemporaneo. E’ dura guardarsi allo specchio. Ma se non si capisce che il populismo contemporaneo è fieramente statalista e antiliberista, davvero non si ha idea di dove stiamo e perché ci stiamo andando.

  

Alberto Mingardi è autore del saggio "La verità, vi prego, sul neoliberismo" (Marsilio). "In un mondo in cui ogni giorno si alzano nuovi muri e lo scontro si fa sempre più acceso, un nemico comune unisce destra e sinistra, populisti e democratici, reazionari e progressisti: il neoliberismo"

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