Carlo Calenda (foto LaPresse)

Processo agli immoderati

Luciano Capone

La diseguaglianza c’entra davvero con la globalizzazione? Liberali divisi di fronte al manifesto di Calenda per un nuovo baricentro della politica. Girotondo fogliante

Di Carlo Calenda si possono dire tante cose, ma non che non sia tra i pochi che stanno tentando – in modo più o meno creativo – di costruire un’alternativa politica alla maggioranza gialloverde. E rispetto agli altri, Calenda è probabilmente l’unico – o quantomeno uno dei pochissimi – che ritiene che questa alternativa non possa appoggiarsi all’uno o all’altro partito della maggioranza di governo. Ma lo fa, paradossalmente, partendo da un’analisi storica e politica non così distante rispetto a una chiave di lettura offerta anche da Lega e M5s: la crisi di oggi è la conseguenza del dominio trentennale dell’ideologia liberista e della globalizzazione (a cui vanno aggiunti effetti dell’innovazione tecnologica e dell’immigrazione), che a loro volta hanno prodotto la nascita di nuovi monopoli e l’aumento della disuguaglianza.

  

Nel suo manifesto pubblicato sul Foglio, Calenda propone di rifondare il liberalismo (“ha bisogno di una sua Bad Godesberg” altrimenti si avvierà a una sorte simile a quella del comunismo alla fine del XX secolo”, è la sua profezia) e di fonderlo con altre due culture politiche in crisi – quella popolare e quella socialdemocratica – per creare un “pensiero politico nuovo, adatto ai tempi, che recuperi (in parte) e rinnovi quello delle tre grandi famiglie politiche democratiche europee: popolari, liberaldemocratici, socialdemocratici. Un pensiero fondato sul recupero del valore dell’identità (non statica ma in continua evoluzione) e di un patriottismo inclusivo, su un’economica sociale e di mercato, sull’attenzione al progresso della società come obiettivo superiore rispetto a quello della crescita economica”.

 

Secondo Calenda, il liberalismo ha bisogno di una “Bad Godesberg” altrimenti si avvierà a una sorte simile a quella del comunismo

  

“Penso che Calenda abbia fatto un percorso importante, sui temi del commercio internazionale – dice Leonardo Becchetti, economista a Tor Vergata e punto di riferimento della riflessione nel mondo cattolico. “Ha colto la questione fondamentale. C’è stata una prima fase della globalizzazione in cui è stato conveniente includere le economie povere ed emergenti, adesso però è necessario preoccuparsi del dumping sociale e delle conseguenze della globalizzazione che impattano su di noi. Mi sembra un atteggiamento realista”. Ma la novità rilevante è che nell’articolo di Calenda non c’è solo la riflessione economica, “ma anche un riferimento alla domanda di senso. Noi non abbiamo solo un problema di crescita economica e sostenibilità sociale, ma di sostenibilità umana. Bisogna creare società generative dove c'è ricchezza di senso e di vita, dove c'è generatività per gli anziani, che non devono finire emarginati, e per i giovani che non devono finire nella trappola dei Neet (né studio, né lavoro, ndr). E strategicamente c’è la possibilità di creare qualcosa di nuovo unendo quattro culture: liberale, a la Calenda, cattolica, ambientalista, queste due trovano già una sintesi nella Laudato si’ di Papa Francesco, e le reti civiche degli amministratori locali”. Sul lato delle proposte? “La più interessante di Calenda è l’importanza che da all'educazione e all'istruzione. E’ il problema più grave del paese, perché la scarsa educazione porta degrado culturale e quindi anche civile e democratico, visto che è il terreno ideale per la diffusione delle fake news. A questo si aggiunge il lato economico, perché investire sull'istruzione e la formazione è ciò che permette al paese di competere meglio sul mercato internazionale creando valore aggiunte non sul ribasso dei salari. Vedo che su questo Calenda insiste molto”.

 

“Mi pare che il manifesto sia un po’ la sintesi del suo libro, una specie di Di Battista di centro”, commenta Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, una delle poche realtà in Italia che rivendica la definizione di “liberista”. Il giudizio sembra un po’ severo, i due personaggi sono agli antipodi. “Calenda è molto più intelligente, ha esperienza nel pubblico e nel privato e ha fatto cose importanti. Ma se uno adotta tutte le assunzioni di quelli che dovrebbero essere i suoi nemici, alla fine finisce per dire cose simili. Con l’unica differenza della collocazione internazionale, quella occidentale, cosa che però in questo momento sta facendo anche Salvini”. Insomma Mingardi, autore del libro “La verità, vi prego, sul neoliberismo”, non condivide le critiche al trentennio di dominio liberista. “Quella dei trent’anni di egemonia è una favola, ma più in generale non c’è bisogno di dire che sei liberale se non lo sei. Definisciti socialdemocratico, è una cosa rispettabilissima. Anche il riferimento a Bad Godesberg, appartiene esattamente a quella tradizione”. Non c’è però un’ortodossia liberale, ma varie possibili declinazioni. “In qualsiasi versione lo si prenda se il liberalismo ha un senso – dice Mingardi – ed è quello di perseguire e realizzare la tutela di istituzioni che siano il più possibile neutrali rispetto alle scelte dei cittadini, una libertà che poi i cittadini possono usare più o meno bene. La nota di Calenda sulle tasse e sulla disuguaglianze denota una visione legittima, probabilmente giusta, ma che poco ha a che vedere con una visione liberale. La libertà in quel discorso non la vedo”. In che senso? “Uno può anche dire ‘oggi della libertà non me ne faccio niente, perché la gente non la vuole’, ma devi avere in testa chi sono i tuoi elettori. E questo non l’ho capito. Chi è convinto da quella narrazione ha già l’offerta politica fatta per lui, che sa esprimere meglio quel disagio e quella rabbia. Certo, si esprime in un italiano peggiore di Calenda, ma forse è anche un vantaggio elettorale”.

Non è un problema teorico, sulla natura del liberalismo, ma quindi anche pratico? “Dal punto di vista meramente politico, se uno ha un progetto deve avere in mente le persone alle quali sottoporlo. Non si capisce quali persona abbia in mente Calenda. Se sono alcuni dei ceti che in qualche maniera hanno interiorizzato la narrazione che fa sua, abbiamo detto che hanno già trovato una rappresentanza che da più soddisfazione urlando. Se sono altri pezzi della società, che magari ora si astiene, non capisco perché dovrebbe essere persuaso da quegli argomenti e da quel messaggio”.

 

Chi invece apprezza la piattaforma del nuovo europarlamentare del Pd è Pietro Ichino, professore di Diritto del lavoro alla Statale di Milano e storica voce del riformismo italiano. “Sui contenuti del manifesto di Carlo Calenda complessivamente concordo, a parte un suo errore di valutazione sul ‘braccialetto di Amazon’ – dice Ichino al Foglio – Soprattutto concordo sul suo assunto fondamentale: quello, cioè, secondo cui lo spartiacque fondamentale della politica oggi, in Italia e in Europa, è quello che separa chi considera indispensabile e urgente il processo di integrazione europea e chi invece si propone di frenarlo e impoverirlo. Occorre dunque realizzare in Italia una coalizione analoga a quella che si accinge a governare l’Unione europea, proponendosi di accelerare la costruzione di una struttura capace di esercitare la sovranità al livello continentale almeno sulle materie della sicurezza, della politica estera, della politica monetaria, dell’economia e finanza, dell’ecologia, del governo dei flussi migratori”. Ma in che modo? “Il problema è la scelta dello strumento migliore per promuovere questa alleanza in Italia: la scelta, cioè, tra farlo dall’interno del Pd, ovvero del partito oggi di gran lunga più forte nell’area liberal-democratica ed europeista, o tentare la strada della creazione di un nuovo partito geneticamente alleato del Pd ma capace di aggregare quella parte di liberal-democratici che non voteranno mai per il Pd, come non voteranno mai per una Forza Italia attratta nell’orbita della Lega, quindi sostanzialmente collocata ormai dall’altra parte dello spartiacque fondamentale. Probabilmente sono necessarie entrambe le cose. C’è molto da fare, su questo versante dello spartiacque fondamentale, sia dentro il Pd sia fuori. Dunque, un cordialissimo augurio di successo a Carlo Calenda”.

 

Pietro Ichino: “Giusta la distinzione del mondo”.
Alberto Mingardi: “Non c’è bisogno di dire che sei liberale se non lo sei”

    

Diametralmente opposta l’analisi di Michele Boldrin, economista amerikano alla Washington University in St. Louis, che nelle scorse settimane ha organizzato una giornata di convegni sulle cause del declino italiano dal titolo “Liberi, oltre le illusioni”, cercando di far parlare i dati. “A Calenda non piace la globalizzazione e vuole farci credere che la ripulsa della globalizzazione sia un fenomeno mondiale usando quella cosa ridicola chiamata Brexit e le chiacchiere di Trump come esempio. I fatti in realtà dimostrano il contrario, basta guardare alle ultime elezioni europee, al ridicolo collasso di Brexit e alle politiche commerciali realizzate da Trump (non quelle enunciate). Inoltre l’uscita dalla povertà di miliardi di persone non è stata pagata da nessuno e men che meno dalle ‘classi medie e basse dell’occidente’ il cui reddito ha continuato ad aumentare decennio dopo decennio. Se il buon Calenda ha in mente una diffusa interpretazione marxistoide del cosiddetto elephant graph temo debba provare a fare i conti con i dati che ama invocare ma mai riporta e sui quali non si confronta”. Il problema, secondo Boldrin, è quindi tutto italiano. “Se si parla dell’ascesa di Salvini, allora vorrei ricordare alcuni fatti: nel 2013 la Lega aveva poco più del 4 per cento e nel 2014 superava di poco il 6 per cento. Tutto il resto se lo è conquistato dopo quella data. Orbene, se accettiamo la tesi calendiana secondo cui il supporto ‘popolare’ al progetto salviniano è conseguenza di una reazione negativa al ‘liberismo’ come praticato in Italia i dati, maledetti, ci forzano a una semplice conclusione: la causa della vittoria di Salvini sono Calenda, Gentiloni, Renzi e chi, governando dal 2013 al 2019, ha portato Salvini dal 4 per cento al 34 per cento”.

 

Calise: “Occorre pensare all’organizzazione di un nuovo soggetto politico
e capire in fretta come muoversi di fronte alla Cina”

   

Mauro Calise, politologo all’Università di Napoli, che ha scritto e riflettuto negli ultimi anni sul partito personale e sul ruolo del leader politico, apprezza il documento scritto da Calenda: “E’ un manifesto programmatico pieno di contenuti, che sembra scritto da un intellettuale più che da un politico. E’ forse la cifra che Calenda preferisce. Dal punto di vista dello sforzo intellettuale quello che manca è il perché sia successo tutto questo. C’è un’analisi in serie dei limiti di tutti i governi e partiti che si sono succeduti, in Italia e sulla scenda internazionale, ma quindi dov’è la ragione politica di questo fallimento? Non aver capito che la globalizzazione va governata? L’unica che ha funzionato è quella cinese e non credo che rientri negli obiettivi di Calenda”. E sul piano della proposta politica? “Nell’analisi, largamente condivisibile, manca l’idea di come far nascere un attore politico non minoritario. Il problema è l’organizzazione. Quali sono le due organizzazioni vincenti? La Cina da una parte e quei partiti che hanno cavalcato populismo, attraverso un spregiudicato della macchina da guerra mediatica, dal M5s alla Lega in Italia, e Trump e la Brexit all’estero. Il documento di Calenda è pieno di buoni propositi, difficili da non condividere. Il problema vero è che di fronte a questi legittime denunce, non c’è un’analisi del fatto politico, cioè di chi, come e perché è in grado di controllare questi processi alternativi. Bisogna pensare all’organizzazione di un nuovo soggetto nell’epoca della rete, che ha stravolto tutti i meccanismi di costruzione del consenso. Anzi bisognava pensarci 15 anni fa, se la sinistra ci avesse pensato non avremmo avuto il M5s”.

 

Baldassarri: “Serve il coraggio di affermare che negli 850 miliardi di spesa pubblica ci sono più di 50 miliardi di malversazioni e ruberie”

 

Mario Baldassarri, economista alla Sapienza ed ex viceministro dell’Economia, rappresenta un po’ l’unione delle tre cultura politiche (liberali, popolari e socialisti) che Carlo Calenda vuole fondere in un nuovo progetto politico. “Da sempre mi definisco liberale non liberista, popolare non populista e sociale non statalista. E’ questo il perimetro che vorrei configurare per una formazione politica che corrisponda alle mie preferenze”. Allora il Manifesto di Calenda è perfetto, parla proprio di questo progetto. “Ci sono due cose che non tornano nel manifesto di Calenda. La prima è la confusione tra liberismo e liberalismo che, senza dubbio, ha pervaso il mondo in questi ultimi anni e decenni in cui si è contrabbandato il ‘senza regole’ con liberalismo. Lo stato liberale non è laissez-faire ma è per lo stato di diritto, lo stato che fa le regole e le fa rispettare, che garantisce concorrenza pulita e trasparente sul mercato. Il dominio delle concentrazioni di potere hanno a che vedere con il liberismo, è quello che ci ha insegnato la radicale teoria economica di Paolo Sylos Labini negli anni 50, il mercato è dominato dalle concentrazioni oligopolistiche. E’ la stessa obiezione che va fatta a Putin, che fa lo stesso errore di attribuire danni al liberismo chiamandolo liberalismo”.

Ma al di là dell’obiezione lessicale, mi pare che in fondo questa sia la stessa analisi di Calenda, che propone un maggior intervento statale per combattere i colossi digitali, ridurre le disuguaglianze, arginare gli effetti della globalizzazione. “Sì, l’analisi è quella, ma nella sua agenda si evita di parlare della madre di tutte le riforme. Non si può continuare a sperperare e rubare 150 miliardi di euro, 100 di evasione e 50 di sprechi e ruberie nella spesa pubblica corrente, tagliando gli investimenti. E’ quella la madre di tutte le riforme che ti dà le risorse. Senza questa capacità di incidere sulle risorse restano solo proposte, forse condivisibili, ma che sono vuote e vaghe”.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali