Matteo Salvini (foto LaPresse)

Bacioni ai barbari europei

Pietrangelo Buttafuoco

Matteo Salvini piace alla gente che non piace a nessuno. Tocca la vena di taverna, bastone e piazza degli italiani. S’è fatto intermediario tra la minoranza egemone e la maggioranza silenziosa che può urlare con lui. Buttafuoco racconta il leader leghista visto da vicino e spiega come cambia la storia dopo le europee

Sulla scia dei rivoluzionari – Giuseppe Garibaldi, Benito Mussolini e Bettino Craxi – l’inatteso inquilino nell’immaginario degli arcitaliani, venuto dopo il pop di Silvio Berlusconi, è dunque Matteo Salvini? E’ lui quel tal signore che ci siede accanto sul bus, in metropolitana, in sosta all’autogrill – a Teano, a Predappio, ad Hammamet – al punto di essere diventato il nuovo capo, il Capitano, finché dura l’avventura? La felpa, dunque, è come il poncho in viaggio da Quarto al Volturno. Il modo più italiano di forgiare la politica. Come il torso nudo alla battaglia del grano, allora. Così nell’after sex dell’ipnotico selfie di Elisa Isoardi che fa sapere: “Salvini non piange mai”. E così il touch nello smartphone: #bacioni. Come il garofano rosso in pugno. E il VinciSalvini, infine, come il Meno-male-che-Silvio-c’è.

 

E’ così?

 

Può dunque il capo della Lega prendersi in carico il carisma arroventato della specialissima identità proletaria che salda mangiapreti a timorati, femminari a family-man, teste calde a zucche vuote, strapaesani della provincia a inurbati delle periferie metropolitane?

 

E’ così?

 

E’ lui alla testa di operai delle acciaierie, tutti marxianamente strutturati e dei millennial precari, e dei giovani soprattutto, uniti ad altri ancora più teenager – gli adolescenti digitali – sempre pronti a sradicare la malapianta della coerenza?

 

E’ così?

 

La felpa, dunque, è come il poncho in viaggio da Quarto al Volturno. Come il torso nudo alla battaglia del grano

Gli interrogativi troveranno risposta, forse, sul consumarsi di queste ventiquattromila battute nel frattempo che al banco scommesse gli allibratori di Londra – a prescindere del risultato di stamattina, e di quel che sarà della regione Piemonte – danno per conclusa a ottobre prossimo la sfolgorante carriera dell’ex “comunista padano”.

 

Molti nemici, molto onore – manco a dirlo – giusto in autunno comincia il battage pubblicitario del nuovo film di Checco Zalone inciampato, povero lui, nel benignismo: a discapito dell’originalità, il comico d’Italia, ha fabbricato una sceneggiatura tutta contro Salvini. Ha fatto quello che già fanno tutti, Zalone – perfino i corsivisti di Avvenire – e però non c’è figurina della vetrina ufficiale, quella dei beniamini di tutti, che non sia all’erta e irta contro il barbaro. E così, all’unione delle forze rivoluzionarie, non resta che aggiornare il programma: e in mancanza di re, con le budella dell’ultimo Papa, c’è da impiccare l’ultimo Soros.

 

Il Pontefice regnante, forte della teologia jovanottea – proprio quella: “Una grande Chiesa, che va da Che Guevara a Madre Teresa” – s’è messo alla testa di agguerriti eserciti di cardinali e beghine per levarlo di mezzo.

 

“Aprite i porti!”, gli dice il Santo Padre.

 

“Aprite i preti!” piuttosto, visto che padre Spadaro, temibile gesuita, chiama all’indignazione contro Salvini che fa kiss-kiss alle coroncine del Rosario.

 

Molti nemici, anche tra gli ex amici. E non solo tra i suoi mai-amici come Bobo Maroni, il leghista accettato in società, ma anche tra gli stessi russi che pure hanno pratica nella presa di ogni Palazzo d’Inverno, non gli hanno più concesso cosacchi, o hacker che siano. Non si sono visti i cavalli dell’Armata Rossa infatti ad abbeverarsi alle fontane del Vaticano. E neppure Nicolai Lilin – l’autore dell’Educazione siberiana – sembra più dare credito al leader padano che ancora nel 2013 indossava le t-shirt con stampato sopra il colonnello del Kgb Vladimir Putin.

 

A proposito di Cremlino c’è da dire che a Mosca sono irritati assai del voltafaccia sulle questioni internazionali. I russi non concedono più clic sui social, anzi, ormai lo descrivono come una specie di Boris Eltsin. “E non perché si prenda le ciucche”, spiegano, “ma per il suo sovranismo a favore dell’unica sovranità a lui cara, quella degli Stati Uniti”. Quando si dice la coerenza…

 

Le famosi sanzioni contro Mosca, da far cadere con urgenza, confermate nientemeno? Si farà mai il programmato viaggio di Salvini in Russia a luglio prossimo?

 

Ma gli allibratori di Londra danno per conclusa a ottobre prossimo la sfolgorante carriera dell’ex “comunista padano”

A Milano, al comizio di chiusura della campagna elettorale, Salvini bacia il Rosario e affida se stesso al Cuore Immacolato di Maria. Ma lo saprà che quello, ancora più che per il Vaticano, “è proprio il santissimo riferimento di Santa Madre Russia su cui la Nato ordisce trame e veleni?”. Così si domandano, ancora domenica scorsa, i fedeli all’uscita della Santa Messa in Santa Caterina Martire, a Roma. E’, questa di Santa Caterina, la parrocchia del patriarcato ortodosso ai piedi di Villa Abamelek, nei pressi della residenza russa in Italia. Fuori piove e un raro raggio accende lo sguardo di Nicola II la cui icona – con l’intera Famiglia imperiale – troneggia al centro dell’altare mentre i fedeli, chiacchieroni, si chiedono se Sergej Polunin, il danzatore virile accusato di sessismo dagli Lgbt, potrà andare in scena a Verona, doverosamente protetto da Tersicore e dal governo sovran-populista ancora fino a stamattina in carica: “Potrà fare il suo lavoro senza incorrere negli anatemi dell’Occidente imbelle?”.

 

I troll, in ogni modo, non vanno in soccorso del Capitano che giusto una settimana fa – al culmine della battaglia elettorale, incandescente quanto quella del 1948 – vive i giorni attesi da chi vuole liquidarlo con l’alleato di governo, il M5s, che si scopre sensibile al richiamo della rispettabilità per ricacciare negli inferi i demoni di Salvini, quasi fossero le SA se non proprio le SS. Come si diceva? “A Monaco di Baviera, mutande di lamiera!”. 

 

 

Ma l’unica sfumatura nibelungica in Lega è appunto estetica, gay-friendly perfino. Alla “Luchino Visconti”, per intendersi: una sorta di recinto chiuso, fidatissimo, maschissimo, alla sorveglianza del quale si incarica Giulia Martinelli, l’ex moglie del leader leghista – attualmente in forza alla segreteria di Attilio Fontana in Regione Lombardia – cui spetta la decisione e l’ultima parola per certificare la fedeltà degli uomini verso il Capitano.

 

Quello stesso Capitano che da quando se l’è presa la Lega, innalzandola dai miseri resti di un tre per cento di consensi – cui l’aveva ridotta il suo fondatore, Umberto Bossi, fatto ostaggio da una ghenga familista – prendendosi il partito, ha subito espulso il partito. I demoni di Salvini, figurarsi.

 

E a proposito di Soros, ecco, e del famoso complotto demoplut evocato dalle anime belle per condurre Salvini alla reductio ad hitlerum, una cosa da dire c’è. Tutto potrà dirsi del capo della Lega – tutto, anche di non volerne più sapere del centrodestra, al punto che è stato lui, e non la sinistra, a spegnere l’astro di Silvio Berlusconi – ma la sgangherata demonizzazione su cui si adopera il farlocco marketing di Repubblica per farne un antisemita, nonché protettore di nazionalsocialisti padani infiltratisi sotto la spada di Giussano, va a sfasciarsi su un fatto nudo e crudo: il faro – lo stato guida – di Matteo Salvini, ancor più che gli Usa, è Israele.

 

Tutto potrà dirsi del capo della Lega, ma la sgangherata demonizzazione su cui si adopera Repubblica per farne un antisemita, nonché protettore di nazionalsocialisti padani infiltratisi sotto la spada di Giussano, va a sfasciarsi su un fatto nudo e crudo: il faro di Salvini, ancor più che gli Usa, è Israele

La controprova è in quel che è stato concesso a lui: essere stato – e fino a stamattina lo è ancora –legittimamente al governo, vicepremier e responsabile dell’Interno. Un dato politicamente e storicamente incontrovertibile.

 

Un traguardo, il suo, che nei fatti è impossibile per altri soggetti politici considerati a lui affini tipo AfD in Germania o alleati come Marine Le Pen – l’esempio su tutti – su cui grava una pregiudiziale che nessuna vittoria elettorale a Parigi, figurarsi un qualunque sondaggio, potrà mai cancellare. A costo di mettere tra parentesi il suffragio universale. O di ricorrere ai brogli (come accadde in Italia quando, per obblighi di status quo, dovette essere cancellata la monarchia di Casa Savoia).

 

Diocenescampi quante stupidaggini vanno a scappargli di bocca, a Salvini, quando parla di vicende inerenti il Grande Gioco – dal Golfo Persico alla Grande Muraglia – ma la sua pastura è di sintesi, non di analitica. E’ certo che non sappia distinguere tra sciiti e sunniti, altrimenti saprebbe quanto padani e occidentali siano i persiani di Allah, impegnati a combattere contro i terroristi islamisti, e quanto zotici e buzzurri invece siano – per quanto pieni di petrodollari e di protettorati Usa – i sauditi che coccolano gli assassini fondamentalisti sciamati in Siria dopo avere incendiato di morte l’Europa, il Maghreb e ovunque nel mondo.

 

Non lo sanno, questo delicatissimo fatto, e non vogliono saperlo fior di analisti laureati, figurarsi se vi si concentra lui che deve prendersi tutta la schiuma di rabbia e di spavento portando l’emergenza all’incasso del consenso; dopo aver fatto scrivere il ghiotto dossier sulla Cina al professor Michele Geraci, sottosegretario al Mise, tra i massimi esperti del più sontuoso approdo commerciale – la Via della Seta – ne ha fatto carta straccia, ha dismesso la prospettiva di un innalzamento del pil, pur di non urtare l’amministrazione americana. E sempre dimenticando, sorvolando o, peggio, sconoscendo un dettaglio: e cioè che non fa più testo, proprio sullo specifico di Pechino, il mondo del dopo Yalta. Il separare la scacchiera del mondo sulla base della Seconda guerra mondiale – e che ancora per molto tempo avrà, ahinoi, valore nella ripartizione dei patti e dei commerci – non vale per Pechino.

  

Padrone della scena, Salvini non cessa di essere se stesso passando da un’idea all’altra. Si adatta all’Italia ma ancora non si sa se l’Italia si sta adattando a lui 

  

Non è solo la storia ad aver cambiato pagina, anche la geografia è andata avanti, tutte le difficoltà diplomatiche riferite a Mosca – dove, pur con la caduta dell’Urss, sempre viva è la Guerra fredda cui l’Italia è costretta ad accodarsi – con la comunistissima Repubblica popolare di Cina, non hanno ragione di esistere. E sempre dimenticando, sorvolando o, peggio, sconoscendo un dettaglio: e cioè che miracolosamente, l’Italia, per i cinesi – che sono naturaliter razzisti – non è come il resto del mondo, una landa su cui esercitare il disprezzo, ma una sorta di patria gemella.

 

Non scava in profondità i problemi complessi, Salvini, ma – un professionista della politica qual è lui, non ha altro orizzonte mentale che la politica – lo sa benissimo di dover fare il sovranista in assenza di sovranità. E anche in assenza di strategia. Salvini diventato Salvini è quello che fa della tattica tutta una virtù di segni, parole, balconi & barconi in un virtuosismo figlio del leninismo più che del federalismo padano. Eccolo, fa l’inchino del maragià alla gente intorno a lui, s’incendia di un’eloquenza tutta di frasi brevi, e si conferma figlio del suo tempo, del suo preciso momento e del suo stesso paesaggio: tutto quello che gli deriva dal marciapiede in cui si trova a passare e dove lui giunge sempre al momento opportuno.

 

Nel 2009 – sarà stato ottobre, a Milano – quando Salvini non era ancora Salvini, a una signora anziana che s’informava col segretario della sezione della Lega come fare per avvisare chi di dovere per un danno all’illuminazione della strada costretta al buio, ridotta a un bivacco, le veniva presentato Salvini che non era ancora Salvini ma soltanto un consigliere comunale. Nel 2010, già dopo un anno, tornando lì, incrociando la signora – col segretario terrorizzato all’idea di essere preso a ombrellate in testa dalla combattiva vecchina – non solo aveva fatto quello che doveva fare, ma se ne ricordava la vicenda, il nome della donna e la rava e la fava dell’infinitesimale dettaglio chiamato “territorio”.

 

Non è solo la storia ad aver cambiato pagina, anche la geografia è andata avanti: tutte le difficoltà diplomatiche riferite a Mosca – dove, pur caduta l’Urss, sempre viva è la Guerra fredda cui l’Italia è costretta ad accodarsi – con la comunistissima Repubblica popolare di Cina non hanno ragione di esistere

Non cessa di essere se stesso, Salvini, passando da un luogo all’altro: “Prima la Padania”, vabbè, è diventato “Prima gli italiani”. La presa territoriale estesa anche a “Prima Bitonto”, “Prima Cuneo” o “Prima Castellammare” – oppure “Prima i Sanniti” – segue la frettolosa applicazione del metodo ma svela nel lapsus anche tutto il retro pensiero, sanamente sospettoso, affinché il risolversi e l’assestarsi di una conquista politica non abbia ad aver danni rimorchiando tutta la feccia clientelare. Al sud, infatti – dove si è orfani di un partito di sistema – Salvini ha comunque collocato commissari-sentinella dei territori meridionali. E sono tutti quanti rigorosamente “padani”. In Sicilia, per esempio, c’è un Viceré di Busto Arsizio – Stefano Candiani – e davvero sembra uno di quegli ufficiali dell’Esercito dei Mille con cui poi fa amicizia Tancredi, nel Gattopardo.

E se pure il metodo garibaldese dilaga nella reiterazione – per non parlare di tutte le singole specialità gastronomiche che Salvini deve ingurgitare, dalla pizza napoletana per arrivare agli stigghiola di Ballarò – ogni “prima” ha sempre un altro “prima”. E non c’è verso di farne una scalata nella Lega, un’opa politica – tanto meno l’infiltrazione dei “nazisti dell’Illinois” su cui s’imbarca Repubblica – perché tanto, nella cerchia vera di Salvini, nessuno entra.

 

Lui si prende i voti degli altri – quelli dei suoi alleati di coalizione soprattutto – ma non se ne carica nemmeno uno dei loro collettori elettorali, li tiene tutti alla porta; sente l’acqua correre al proprio mulino, afferra l’osso tutto per sé e non cede un solo lacerto a chi gli si offre nel branco, anzi, amministra lo scontento di chi non ha ottenuto ricompense perché la verità della politica sta nella sua realizzazione in solitudine.

 

Il se stesso di Salvini è nell’Italia che sempre di impeti trabocca. E non cessa di essere se stesso passando, altresì, da un’idea all’altra. E’ il padrone della scena – anche i magazine internazionali gli dedicano le cover – ma come spiega G.W.F. Hegel, ogni padrone fa quello che gli impone il suo stesso servitore, in questo caso l’italiano medio, o arcitaliano che sia. E si adatta all’Italia, Salvini – questo fa – ma ancora in questo bel mezzo non si sa se l’Italia si sta adattando a lui che ha i modi richiesti da chi assapora l’impeto, l’aroma delle sagre.

 

Non “dice” Salvini, si lascia “dire” piuttosto. E’ il tramite di altro, Salvini, ma non di uno Steve Bannon (di cui può dirsi essere una sorta di Alan Friedman, la speculare caricatura di “Un americano a Roma”). Il Capitano alla testa dei barbari è piuttosto l’intermediario tra la maggioranza silenziosa che può ben urlare con lui, anche l’indicibile, e la minoranza egemone che lo indica tra i reietti. E’ la buona società, il ceto riflessivo – l’élite per dirla col linguaggio corrente – che ancora una volta trova una giustificazione ragionata dei propri pregiudizi con tutti i guasconi in grado di mettere in moto le masse.

  

L’intermediazione del Capitano alla testa dei barbari e la pratica narcisistica, tutta di compiacimento, degli ottimati. Il Salvini prima di Salvini, che parlava una lingua più diretta di Forza Italia e An. Il Salvini diventato Salvini, che piace a quelli che non sanno parlare, che lavorano, sputano, sperano

  

Quella degli ottimati è pratica narcisistica tutta di compiacimento. Privati del primato – fosse pure quello di tribune un tempo potenti, i giornali su tutti – le donne e gli uomini dell’establishment hanno dovuto ripiegare nella consolazione ego-riferita, ovvero nella comparazione: lo sfogo tipico di coloro i quali disprezzandolo sentono in lui un uomo, ma uomo di un altro tipo. Ovviamente inferiore, neppure diverso, ma proprio deficitario di cultura, di studi, di modi e di “umanità” infine se lo slogan di chi gli dichiara inimicizia per obbligo di ruolo – da Jorge Mario Bergoglio a Laura Boldrini – o per censo, come i residenti nelle Ztl, è #restiamoumani. Ma è il modo più italiano – anzi, tipicamente milanese – di forgiare la politica, è quello del Capitone, così descritto nell’accezione caricaturale.

 

Fortunatamente il dissenso nei suoi confronti è scivolato – ancora per tutta la settimana scorsa – invece che nel ferro e fuoco nel tormentone dei lenzuoli, nelle parodie del VinciSalvini e nella conta su quanti fossero al comizio di piazza Duomo per far tirare un sospiro di sollievo a chi ne temeva l’ascesa irresistibile.

 

Oggi, proprio oggi, a conta conclusa, per lui comincia una nuova vita – un’altra pagina – obbligata al bivio: se agevolare nel suolo patrio l’invasione dei barbari oppure, ma sarebbe una disgrazia, quella dei civili.

 

La sua stagione politica non è destra, non sa che farsene del tornarsene indietro di trent’anni. Neanche la società italiana stessa – quella che i giornali manco riescono a immaginare che esista – quella fatta di precari e marginali ormai politicamente organizzati, può trovare esito negli ismi

Il Salvini prima di Salvini è quello che nel 2013 incontro a un dibattito sull’Islam organizzato dall’associazione culturale “Il Talebano”, a Milano, a Palazzo Marino. L’elaborazione intellettuale dei barbari – al netto dell’antica pratica leghista, predicare male, razzolare bene – viene da lontano, già dai tempi della prima Lega Nord, con Umberto Bossi che guarda in cagnesco l’attivissimo circolo di “Terra Insubre”, a Varese, dove gli interlocutori chiamati ai seminari organizzati da Andrea Mascetti sono personalità complesse quali Geminello Alvi, Franco Cardini, Massimo Fini e Quirino Principe, scusate se poco, con l’attuale assessore alla Cultura in Lombardia, ovvero lo storico Stefano Bruno Galli o il compianto Gilberto Oneto, in diretta filiazione con Gianfranco Miglio (scusate se poco).

 

Il Salvini prima di Salvini conosce tutto questo mondo, da lì attinge urti, pesantezze, dolcezze, grattacapi e grandi sudate; non riesco a ricordare se fosse anche lui quindici anni fa, a Varese, c’era però Giancarlo Giorgetti, al pranzo dei convitati di Terra Insubre. Tutti gli ospiti sono a pranzo, per il pomeriggio è prevista una lettura di Sarah Maestri di un testo inedito di Claudio Magris ed ecco che, oplà, a tavola parte la rissa – separandosi in due fazioni, come i galli del villaggio di Asterix – per risolvere il dilemma su lambáno, da cui l’aoristo elábon.

 

Faccio tanto d’occhi davanti a quella scena con la fretta di tornare a Roma, qui al Foglio, per raccontare l’episodio a Giuliano Ferrara – “se a Capalbio vengono a sapere che i leghisti, invece che far gara a rutti, si scannano in punto di latino e greco difficilmente si riprendono…” – e proprio in questo giornale, ma nell’altra sede, e molti anni dopo, tocca a me che ho in sorte le cattive frequentazioni di dare conto e ragione di siffatta Lega rispondendo alle domande di Alessandro Giuli, nel suo ruolo di vicedirettore.

 

Era apparso, sebbene fosse ancora il Salvini prima di Salvini, il Capitano. Erano i mesi dell’apogeo renziano, la primavera del Royal Baby a Palazzo Chigi, il punto di massimo potere e popolarità del Matteo fiorentino di cui il Foglio volle essere al contempo un diario intimo e una nursery per altre future, promettenti covate renziane. Com’è e come non è, mentre sulla terrazza direttoriale Ferrara almanaccava sulle magnifiche e progressive sorti di Matteo Renzi, il figlio perfetto di Berlusconi, nelle retrovie, io e Giuli – che ne faceva un video – ci interrogavamo già sull’altro Matteo, ovvero Salvini: “Sarà gloria vera o un’altra recita a soggetto?”.

 

Che l’altro Matteo diventasse quello che avrebbe spazzato via con Berlusconi, anche Renzi, allora non si sapeva, nella pagina preparata per il sito veniva fuori soltanto il lavorio di Salvini intorno a ciò che fosse destra: “Parla una lingua molto più diretta di quanto facciano Forza Italia e Alleanza Nazionale”, questo ci dicevamo.

 

Nel frattempo veniva meno anche la dicotomia della geografia politica ma quel pomeriggio, le cose erano ancora tutte da venire – non tiravamo a indovinare – e in politica, come in guerra, fa testo solo la vittoria. Renzi, di suo, sfasciava la sinistra come neppure Berlusconi era riuscito a fare e la stessa avanzata di Salvini, nella coalizione del centrodestra, nel sorpassare il Cav. andava a chiudere la stagione dei recinti ideologici: avveniva l’avvento delle masse con il Movimento 5 stelle e il Capitano, baciato dall’occasione, faceva marameo allo schema della Seconda Repubblica per giungere così al suo squisito momento opportuno.

 

La sua stagione politica, infatti, non è destra, non sa che farsene del tornarsene indietro di trent’anni. Neanche la società italiana stessa – quella che i giornali manco riescono a immaginare che esista – quella fatta di precari e marginali ormai politicamente organizzati, può trovare esito negli ismi.

 

Con Salvini non ancora diventato Salvini ci vediamo da Marco Mazzoni, alla trattoria del Sostegno, a Roma, una mattina che Giovanni Minoli, a Radio24, ha appena intervistato Giuseppe Guarino, uno dei padri fondatori della Ue. Anni 94, lucidissimo, Guarino – già ministro delle Finanze, gran capo democristiano “esterno” – è il maestro di Paolo Savona. E’ il nemico giurato del patto di stabilità, vissuto da lui in prima persona e raccontato adesso come un vero e proprio golpe tedesco. Nell’intervista che rilascia a Minoli sciorina numeri e fatti pronti a diventare programma politico. E’ l’argomento su cui ragioniamo, siamo in tre, c’è Salvatore Sottile con noi – già capo ufficio stampa di An, un vero mago della sintesi – che così sillaba: “No-Eu-ro”. Guarino non è un ba-bau qualunque, nell’intervista di Radio24 già parlava dei sovranisti e dei populisti come di una speranza della politica ma la pochezza del personale e la loro sconvolgente ignoranza ne hanno fatto – e così è successo per l’allievo Savona – l’occasione persa.

  

Nessun Alcide De Gasperi, neppure un Luigi Einaudi ha mai toccato la vena tutta viva di taverna, bastone e piazza degli italiani al modo dei Garibaldi o, indietro nel tempo, dei Cola di Rienzo. Sono pur tutti autorevoli ma non abitano l’elettricità eroica, comica e tragica di chi tiene l’arena col fiato sospeso

Ancora una volta è la modernità – il volano del carisma – proprio di tutti i manicomi che vanno a vestire la speciale natura delle rivoluzioni italiane dove pure prevale sempre l’ideale di un impiego parassitario: succede ai clientes dietro la porta del M5s, figurarsi al seguito della Lega, comunque il primo partito nella realtà più industrialmente avanzata d’Italia.

  

Il Salvini diventato Salvini è la star indiscussa negli esclusivi dinner organizzati da Annalisa Chirico capacissima di chirichizzare anche il Papa se solo ne avesse vaghezza e punto di volerlo fare (è riuscita a catturare nel suo selfie anche Giorgetti!).

  

Il Salvini diventato Salvini entra ed esce da tutte le icone come in un’applicazione digitale di Andy Warhol. Quando arriva negli studi televisivi, fosse pure in talk dichiaratamente a lui ostili, non c’è verso che i tecnici si trattengano e così, pur sotto lo sguardo di rimprovero dei giornalisti più titolati ecco che quelli – cameramen, elettricisti, generici di varia fatica – richiedono l’immancabile fotografia. Dopo di che ne fanno un post. Virale va da sé.

 

Il Salvini diventato Salvini è come uno che non vuole crescere, ha certamente molte responsabilità – s’incasina ancora di più, come nel suo romanzo sentimentale – ma è l’unico che sa parlare al vicino di casa di tutti. Giusto quello sfigato, cafone e aggressivo che nessuno, tantomeno il Santo Padre, vuole riconoscere quale prossimo. Sia esso il tuo, il suo e il nostro.

 

Chiacchiera amabilmente con David Parenzo, giusto quello che dai microfoni de “La zanzara” ne addita i crimini xenofobi, razzisti, fascisti e neonazisti ma come Berlusconi che non aveva ansie intellettuali verso Umberto Eco – perché il Cav. teneva di conto piuttosto un Mike Bongiorno – così il Salvini diventato Salvini non piatisce la falsariga di qualunque Corriere della Sera, di qualsiasi autorevolezza paludata, ma punta dritto a Dagospia, il primo vero organo d’informazione d’Italia. Piace alla gente che non piace a nessuno, Salvini, alla gran folla del codice a barre.

 

Gli interrogativi di cui sopra, all’avvio di questo pezzo, trovano risposta con Ettore Petrolini: “E’ lei quel tal signore che sedeva accanto a me sul tramvai?”. E’ lui, proprio lui – l’italiano degli arcitaliani – finché dura l’avventura.

 

Se li prende lui i pendolari della classe media impoverita dalla globalizzazione. Lui è quello che piace a quelli che non sanno parlare, a quelli che hanno paura, a quelli che alzano le saracinesche al mattino presto, lavorano, sputano, bestemmiano, sperano, a volte sparano e non dicono mai la verità ai sondaggisti quando li interrogano perché la demonizzazione di Salvini è una demonizzazione che riguarda soprattutto loro, spaventati dall’esorcismo del Papa fin dentro al segreto dell’urna. “Non c’è potenza più temibile in Italia che il Vaticano” diceva un Benito Mussolini in incognito a un Filippo Tomaso Marinetti, con lui, immersi nella folla della domenica, all’Angelus.

 

Il Vaticano è Roma, ma il Risorgimento comincia da Milano, così i Fasci di combattimento, e così la Milano da bere, il Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta, e così, infine, dal Liceo Manzoni – ottima scuola – sbuca Salvini chiamato alla prova se mai riuscirà a cavarsela ora che in tante procure della Repubblica stanno fabbricando il sacco per rinchiuderlo e finirla lì. Anche già oggi. In vista di una pesante finanziaria, di elezioni a primavera – di tante e ben chiassose manette – per scappottare così l’ipotesi e lo spavento che sia questa maggioranza a eleggere il prossimo capo dello stato.
Appunto, anche già da oggi.

 

Post scriptum

 

Tutti i giorni sono festivi se vendetta si farà e però nessun Alcide De Gasperi, neppure un Luigi Einaudi, e nemmeno un Ugo La Malfa – non un nome tra i funerei, professorali, burocratici “competenti” – ha mai toccato la vena tutta viva di taverna, bastone e piazza degli italiani al modo dei Garibaldi o, indietro nel tempo, dei Cola di Rienzo. Sono pur tutti autorevoli – tutti loro, gli statisti borghesi di cui sopra – ma sono solo dei ritratti ben spolverati nella galleria del Palazzo, non abitano l’elettricità eroica, comica e tragica di chi, come un toro stizzito, dal suo apparire fino al momento in cui trova il gancio su cui è legato – fosse a Caprera, a Piazzale Loreto, ad Hammamet – tiene l’arena col fiato sospeso.

 

I Giuseppe Saragat, gli Oscar Luigi Scalfaro e i Vittorio Emanule Orlando – per non dire dei Cagoia – restano. Sono la solidità del sistema. Ma sono solo un rigo nella pagina della storia, un busto marmoreo di cui nessuno indovina il nome ma di certo – tutti – stanno adesso all’ombra di un Beppe Grillo che col suo mouse ha costretto la politica a trovarsi una maniera più italiana; e a smetterla, quindi, con quello stile proprio del Palazzo, ovvero starsene in arretrato di almeno trent’anni con la sensibilità, con i gusti e con le competenze del proprio tempo.

 

Matteo Salvini, in tutto questo, ha fatto lo scavalco.

  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.