I gilet gialli continuano le proteste contro il governo Macron (foto LaPresse)

La lucida follia dei gilet gialloverdi

Claudio Cerasa

Lega e M5s si schierano con gilet gialli e ruspe anti Macron dimostrando che i balconari della chiusura hanno capito i nuovi confini del mondo meglio dei teorici dell’apertura. Contro gli hooligan della politica: W Edouard Philippe

Balconaro e Cialtronaro. Due giorni dopo le violente scene di Parigi – e due giorni dopo le immagini dei gilet gialli pronti a sfondare con una scavatrice la porta del ministero dei Rapporti con il Parlamento mettendo in fuga il portavoce del governo francese e alcuni suoi collaboratori – Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno scelto di inviare un doppio messaggio di solidarietà utile a rendere esplicita la vicinanza del governo italiano non alle istituzioni ferite della Francia ma al popolo in lotta contro le istituzioni francesi. Matteo Salvini, che per un giorno avrà forse tenuto la sua ruspa nel parcheggio del Viminale, lo ha fatto “condannando ogni episodio di violenza” ma dando assoluto “sostegno ai cittadini che protestano contro un presidente che governa contro il suo popolo”. Luigi Di Maio lo ha invece fatto senza condannare alcun episodio di violenza, invitando anzi i gilet gialli “a non mollare”, promettendo da parte del M5s pieno “sostegno” e ricordando che lo spirito che anima i ribelli è “lo stesso spirito che ha animato il Movimento 5 stelle fin dal 4 ottobre del 2009”.

 

Il sostegno esplicito del governo della settima potenza industriale del pianeta a un movimento che nel giro di pochi mesi, prima di provare a buttare giù con una ruspa la porta di un ministero, ha tentato di incendiare un locale della Banque de France, ha provato a linciare alcuni poliziotti con pietre e oggetti contundenti, ha creato danni nella sola Parigi per quattro milioni di euro, ha lanciato sassi contro gli agenti antisommossa, ha costretto le forze dell’ordine ad arrestare 117 manifestanti la prima settimana, 101 la seconda, 412 la terza, 1.723 la quarta, 220 la sesta settimana, non ci dice molto solo rispetto alla natura profonda e pericolosa dei gilet gialloverdi italiani, alla facciazza bella di chi ogni giorno tenta di dimostrare che Di Maio e Salvini galoppano veloci verso la normalizzazione e la moderazione. Ci dice qualcosa di più profondo, di più importante rispetto ai mesi che ci separano dalle elezioni europee di fine maggio. Qualcosa che non riguarda solo la Francia, ma tutti i paesi che ogni giorno tentano di capire in modo più o meno sincero di cosa sono fatti quei movimenti che hanno trasformato le proprie battaglie antisistema nella nuova frontiera della difesa del popolo.

 

Ci si potrebbe limitare a dire che chi delegittima le istituzioni e chi attenta alla loro sopravvivenza meriterebbe di essere condannato, non appoggiato, e ci si potrebbe limitare a dire che di fronte a un ministero preso a colpi di ruspa un governo con la testa sulle spalle avrebbe il dovere di incoraggiare il capo di un’altra nazione ad agire con fermezza per arginare ogni forma di violenza. Ma i gilet gialli, con le loro rivolte, con le loro rivendicazioni, con la loro violenza, con il loro complottismo, con la loro capacità di rielaborare il machiavellismo facendo diventare il mezzo brutale non una giustificazione del fine ma il fine stesso della propria battaglia politica, sono lì a testimoniare un fenomeno gigantesco di fusione a freddo tra culture solo apparentemente distanti l’una dall’altra, che come dimostra il caso italiano hanno fatto della rivendicazione della chiusura e della lotta contro l’europeismo l’essenza della propria identità politica. Lo scontro tra Macron e il movimento dei gilet gialli non è dunque solo uno scontro tra un presidente indebolito e un movimento rumoroso, ma è uno scontro che, come ha giustamente notato lunedì il direttore di Libération Laurent Joffrin, disegna in modo chiaro i nuovi confini della politica e porta tutti quanti noi a scegliere – tappandoci più o meno il naso – da che parte del mondo desideriamo stare. I più furbi, e i più furbetti, provando a sfruttare il calo di popolarità di Macron, tendono a ridurre l’entità dello scontro a una battaglia tra un popolo indignato e un presidente non amato.

 

Ma la verità la si può intuire in modo più trasparente allargando la nostra inquadratura e rendendoci conto che non è un caso se il movimento dei gilet gialli è riuscito a mettere insieme non soltanto la Lega, il Movimento 5 stelle, CasaPound, la sinistra corbyniana, i Teletubbies del putinismo europeo ma anche il meglio o il peggio dello stesso extrémisme politique, da Jean-Luc Mélenchon a Marine Le Pen, che nel 2017 provò a evitare l’affermazione in Francia di un presidente desideroso di riformare il suo paese in nome della produttività, della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, della difesa dell’Europa. Lo scontro tra Macron e i gilet gialli disegna i confini della politica sovranista europea e ci mostra in modo chiaro chi, in nome di un distruttivo ideale sfascista, accetta di abbracciare simbolicamente una grande contro-rupture rivolta non tanto alla figura di Macron ma a tutti gli ideali rappresentati dal presidente francese. E’ un assaggio delle elezioni europee perché, al netto dei gruppi parlamentari, delle alleanze politiche, delle candidature alla presidenza della Commissione la dialettica tra chi sostiene l’apertura e chi sostiene la chiusura sarà al centro della composizione del prossimo Parlamento europeo e anche della prossima campagna elettorale europea.

 

Chi si trova dalla parte della chiusura, compresi il nostro Balconaro a cinque stelle e il nostro Cialtronaro in felpa, ha perfettamente capito i termini della sfida e non perde occasione per soffiare sul vento della protesta antisistema. Chi si trova invece dalla parte dell’apertura non ha ancora capito i termini della sfida, continua a spaccare in quattro il capello, continua a ragionare con schemi del passato, continua a cercare di difendere la propria identità attaccando i vecchi amici più che i nuovi nemici. Lo scontro tra i gilet jaunes e Macron è certamente uno scontro traumatico, ma ha il merito di ricordarci una verità semplice: nell’Europa del futuro non si può non scegliere da che parte stare. E scegliere da che parte stare significa anche scegliere se stare o no dalla parte di un primo ministro francese come Edouard Philippe, che finalmente lunedì sera, in diretta al tg delle 20, ha promesso una linea dura contro la violenza dei gilet gialli. “Coloro che minacciano le istituzioni, che saccheggiano, che bruciano, non avranno l’ultima parola. Faremo come qualche anno fa ci si comportò con gli hooligan negli stadi: furono identificati e fu loro vietato di partecipare a quelle manifestazioni, le partite”. E scegliere di stare dalla parte dell’Europa mai come oggi significa scegliere di non stare dalla parte degli hooligan e non essere complici delle ruspe che hanno scelto di trasformare l’Europa in un sogno da abbattere come il muro di un ministero francese.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.