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Il vittimismo sta trasformando la favola rabbiosa dei populisti

Paola Peduzzi

Il regime sovranista si colora di una sfumatura in più: siamo vittime, tutti ce l’hanno con noi

Ce l’hanno con noi, ci hanno resi più poveri, più indifesi, più fragili, vogliono fare entrare gli immigrati che ci rubano il lavoro e non ci fanno camminare tranquilli per le strade – per le nostre strade – e continuano a farsi scudo con la grande finanza, i grandi capitali, il mercato, mentre il nostro tenore di vita annichilisce e ci resta soltanto un gilet giallo con cui avvolgerci, per difenderci. Eccoci, siamo qui, siamo noi, la classe delle vittime e degli arrabbiati, e non ci spostiamo da qui, non vi daremo tregua, lanciamo ruspe contro i ministeri, “non ci date risposte, non cambia nulla, non ha senso rientrare a casa”, ha detto un ragazzo a una televisione francese, ci avete tolto tutto, lasciateci il nostro vittimismo. 

 

David French, veterano di Iraqi Freedom e commentatore della rivista conservatrice National Review, ha elaborato in un articolo di questi giorni la teoria del “populismo vittimista”, individuando un tratto ulteriore rispetto alla rabbia anti sistema che accomuna la retorica populista e mette insieme teorie del complotto, manipolazioni storiche, nostalgia di un passato più florido ormai svanito per sempre e insofferenza assoluta: “Non dobbiamo creare una classe vittimista di cittadini arrabbiati – ha tuittato French – Non dobbiamo dirle falsità sul potere dello stato o delle banche e delle élite rispetto al destino personale. Non dobbiamo far sentire le persone indifese quando non sono indifese”. French parte dal monologo che Tucker Carlson, anchorman di Fox News, ha tenuto all’inizio dell’anno durante la sua trasmissione. Carlson è uno dei volti più conosciuti dell’emittente di casa Murdoch: in due anni, da quando ha conquistato il primetime con la sua trasmissione che va in onda tutti i giorni tranne il fine settimana, ha superato buona parte della concorrenza. Carlson è anche molto seguito da Donald Trump, pure se da ultimo è diventato molto critico, perché il presidente degli Stati Uniti non sta mantenendo le sue promesse elettorali, in particolare sul muro al confine sud e sul contenimento dell’immigrazione, che per Carlson rende il paese “più sporco”, “più povero”, “più diviso” (per queste dichiarazioni alcune aziende hanno sospeso i loro investimenti pubblicitari a Fox News). Carlson, nel suo recente monologo, ha raccontato la sofferenza dell’America, mostrando solidarietà agli “americani normali” contro le élite e il capitalismo che tradiscono le aspettative delle persone. Ce l’hanno con noi, dice Carlson, tutti quanti, dai politici ai banchieri agli economisti, e ci stanno portando via la nostra anima, la nostra dignità, la nostra felicità, che è il fondamento della nostra nazione.

  

David French, e con lui molti altri commentatori conservatori, hanno fatto un preciso debunking di quello che Carlson ha detto a sostegno della propria teoria vittimista, partendo dal fatto che i ricchi si preoccupano più di combattere “la malaria in Congo” che “alzare i salari a Detroit” fino alla legalizzazione della marijuana. Ma non sono soltanto le falsità il problema – anche se contrastarle colpo su colpo serve: basta guardare il confronto tv tra la portavoce di Trump e il giornalista Chris Wallace sui quattromila migranti illegali in arrivo in America non dal famigerato confine sud come sostiene la Casa Bianca ma negli aeroporti. French va oltre i fatti e arriva al cuore dell’operazione populista: “Carlson porta avanti un populismo vittimista che prende alcuni cambiamenti culturali tettonici, come i diritti civili, i diritti delle donne, la rivoluzione tecnologica, il crollo di massa nella fede religiosa, la rivoluzione sessuale, e trasforma gli aspetti negativi o onerosi di queste trasformazioni in una favola rabbiosa su quel che stanno facendo a te”. Ce l’hanno con noi, tutti quanti. Questa favola rabbiosa rappresenta gli americani normali come delle vittime di una élite senza cuore e non racconta la storia (vera, dice French) di una società “imperfetta che però continua a garantire ai suoi cittadini l’accesso a opportunità straordinarie”. La classe media si sta restringendo perché molti americani stanno diventando più ricchi e non più poveri, scrive French, che non vuole passare per quello ingenuo e ottimista, sa bene che ci sono molte debolezze nella società americana e che anzi in questo momento queste debolezze rischiano di diventare fratture sempre più difficili da curare, ma che ricorda: “Questa è ancora una terra in cui puoi determinare il tuo successo più di quanto possa fare qualsiasi partito politico o gruppo o élite efferata”. Non c’è risposta peggiore alle sfide – che ci sono, non siamo più nel 2016 quando non ci eravamo accorti di nulla – di un popolo rabbioso e vittimista, animato da una classe politica che non si prende le proprie responsabilità e che va a caccia di colpevoli, di manine, di errori di chi c’era prima di lui. Se incontri oggi un ragazzo giovane cosa gli dici quando ti chiede che cosa avrà più impatto sul suo futuro? Il governo, le banche, le élite? Non c’è bisogno di numeri o di grafici o di monologhi: più decisivo di te non c’è nessuno.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi