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La fabbrica del nero è il governo

Claudio Cerasa

Quota cento, decreto dignità, condono, reddito di cittadinanza. Le birbate della Di Maio Associati sono nulla rispetto al modo in cui il governo sta giocando con il nero. L’ambiguità della Cgil e l’urgenza di manifestare contro i nemici del lavoro

Le inchieste giornalistiche e forse quelle giudiziarie ci diranno presto se è vero oppure no che l’azienda della famiglia Di Maio ha giocato in modo birichino con il lavoro nero anche negli anni in cui socio al cinquanta per cento della società oggi sotto accusa era proprio l’attuale ministro del Lavoro, ovvero Luigi Di Maio.

 

La storia delle marachelle della Di Maio Associati offre naturalmente molti spunti di riflessione, ma ciò che forse dovrebbe far riflettere rispetto al rapporto tra il lavoro nero e la famiglia Di Maio riguarda un tema ben più importante del futuro dell’azienda di famiglia, un rischio concreto che si lega in modo indissolubile con la parabola del vicepremier: la possibilità che la sua azione di governo possa creare le condizioni perfette per far incrementare a dismisura il lavoro nero non nell’azienda del padre, ma nell’azienda dell’Italia. Ci si può girare attorno quanto si vuole ma non c’è un solo elemento all’interno della traiettoria del governo capace di confermare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini stiano facendo di tutto per combattere e non per alimentare il lavoro nero. Vale quando si parla di reddito di cittadinanza. Vale quando si parla di pensioni. Vale quando si parla di decreto dignità. Azienda di famiglia a parte, il governo del cambiamento non perde occasione per dimostrare di essere nemico del lavoro, e le politiche sul welfare elaborate dal sovranismo gialloverde hanno già prodotto due problemi simmetrici nel mercato del lavoro. Il primo è quello relativo ai posti di lavoro creati.

 

A luglio, il presidente dell’Inps Tito Boeri aveva detto che le stime sui famosi 8.000 posti di lavoro che potrebbero andare perduti con l’approvazione del decreto dignità possono apparire addirittura ottimistiche e i dati oggi gli stanno dando ragione.

 

Ad agosto, il totale delle nuove assunzioni ha fatto segnare un risultato negativo (359.943 contro le 401.557 del 2017). A settembre, il mercato del lavoro ha segnato un peggioramento caratterizzato da una diminuzione degli occupati (-0,1 per cento rispetto al mese precedente, pari a -34 mila unità).

 

A ottobre l’Inps ha certificato che nel solo mese di settembre il decreto dignità ha prodotto meno 50 mila attivazioni a termine e meno 33 mila attivazioni in somministrazione rispetto al 2017. Costruire un mercato del lavoro più rigido – e anche non abbassare la pressione fiscale e dunque il cuneo fiscale rende il lavoro più rigido – non è però solo un modo per disincentivare l’occupazione ma è anche un modo perfetto per incentivare la creazione di un numero sempre maggiore di lavoratori in nero.

 

Settimane fa, l’Assosomm, ovvero l’Associazione nazionale delle agenzie per il lavoro, ha spiegato che, rispetto al decreto dignità, “misure come il divieto di prorogare il contratto a termine oltre i ventiquattro mesi o l’imposizione di pause temporali tra i contratti rischiano da un lato di favorire il lavoro nero e dall’altro una condizione di precarietà, per un numero sempre maggiore di lavoratori”. Ma ciò che fa del governo del cambiamento, e in particolare di Luigi Di Maio, un potenziale anche se involontario alleato del lavoro nero – anche il condono fiscale approvato ieri al Senato in fondo è un regalo a chi ha fatto nero in passato ed è stato beccato – non ha a che fare solo con il decreto dignità ma ha a che fare anche con altre riforme. Secondo Bankitalia, “il reddito di cittadinanza può avere un effetto distorsivo sul mondo del lavoro” . E la ragione di tutto questo è molto semplice ed è quella spiegata da Unimpresa: con il reddito di cittadinanza chi ha un reddito mensile inferiore a 1.000 euro potrebbe accettare il licenziamento da parte del datore di lavoro e continuare a lavorare con un salario in nero e più contenuto rispetto a quello regolare.

 

Lo stesso ragionamento, se ci si riflette un istante, vale quando si parla di pensioni e di quota cento. Al momento, la controriforma delle pensioni immaginata dal governo prevede con quota cento il blocco del cumulo dei redditi, cioè il divieto di chi va in pensione con quota cento di continuare a lavorare se non in nero, e come ha detto Tito Boeri proprio a questo giornale “è davvero paradossale aumentare la spesa per pensioni e contemporaneamente aumentare le risorse per controllare che quelle stesse persone non lavorino e non paghino contributi: in un paese con problemi di occupazione, spendere risorse per non far lavorare la gente è assurdo”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ieri ha invitato il ministro del Lavoro, per “dovere istituzionale”, a mandare gli ispettori nell’azienda di famiglia “a verificare la situazione perché solo su quella base potranno essere dati giudizi”. In un paese normale chi difende i lavoratori forse più che perdere tempo con delle storielle da quattro soldi di una piccola azienda di provincia avrebbe il dovere in realtà di fare qualcosa di più importante: scendere in piazza contro un governo che distrugge il lavoro invece che crearlo e che il lavoro nero piuttosto che combatterlo lo sta semplicemente alimentando. Ma di fronte a un governo che fatto propria l’agenda della Cgil, la Cgil potrà mai scendere in piazza?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.