Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Nebbia fitta sul reddito di cittadinanza

Lorenzo Borga

Un provvedimento che mobilita fino a 9 miliardi di euro. Eppure si discute su chi stamperà le tessere. Chi riceverà il sussidio? A quanto ammonterà? E servirà poi? Tutte le bufale che inquinano il confronto

Sul reddito di cittadinanza la realtà ha superato la fantasia. Su un provvedimento che mobilita, in totale, fino a 9 miliardi di euro e che rappresenta la principale proposta politica del movimento vincitore delle ultime elezioni, si discute di chi stamperà le tessere. Un dettaglio irrilevante. Non è la prima volta che il dibattito è così schizofrenico: alcuni mesi fa si era discusso per giorni se con il futuro sussidio si sarebbero potuti fare acquisti “all’Unieuro”, o altri tipi di spese da alcuni considerate in modo arbitrario immorali. La responsabilità di un dibattito marginale e distante dalle priorità non può che ricadere sul governo: in entrambi i casi sono stati esponenti del Movimento 5 stelle, Luigi Di Maio e Laura Castelli, a rilasciare le dichiarazioni che hanno infiammato le polemiche.

 

 

  

Ma le domande da porsi, sul reddito di cittadinanza, sono altre. Chi riceverà il sussidio? A quanto ammonterà? Come i 7.934 operatori dei centri per l’impiego potranno fronteggiare la richiesta di servizi di formazione e ricerca di lavoro da parte dei “5-6 milioni di beneficiari”? Ed è sulle questioni fondamentali come queste che nelle scorse settimane sono state diffuse analisi imprecise – fino a vere e proprie bufale – sia dai proponenti che dai critici, che inquinano il dibattito e danneggiano chi desidera informarsi in modo laico e corretto.

 

Cosa è il reddito di cittadinanza?

La proposta per ora ufficiale è quella formalizzata nel disegno di legge presentato al Senato dalla senatrice Catalfo all’inizio della scorsa legislatura. Una proposta probabilmente anacronistica rispetto alla nuova versione che proporrà il governo Conte e che Il Sole 24 Ore ha anticipato venerdì scorso. Ma è ciò di più preciso disponibile al momento. Si tratta di un reddito minimo di contrasto alla povertà relativa indirizzato alle famiglie, che si concretizza in un’integrazione per colmare il poverty gap tra il proprio reddito (calcolato secondo la scala di equivalenza internazionale) e la soglia di povertà relativa, che varia a seconda del tipo di famiglia. Questo è previsto perché la presenza o meno di un coniuge o il numero di figli (e la loro età) influenzano la capacità di spesa di una famiglia. Un meccanismo simile a quello previsto dal Rei, il sussidio introdotto dal Pd nella precedente legislatura, che varia da importi mensili di 188 euro per un single a 540 per nuclei con 6 o più componenti.

 

Quanto costa?

Sul costo per l’introduzione del reddito di cittadinanza si sono spese molte parole. E moltissimi numeri diversi fra loro, tanti da causare un gran mal di testa. Un terno al lotto: 6, 10, 15, 17, 30, 36, 64, 85, fino a 100 miliardi; sono le stime che sono state pubblicate dalle forze politiche di maggioranza e opposizione e da istituti indipendenti e giornali. La più precisa prima della nascita del governo Conte era quella di Istat, che aveva quantificato circa 15 miliardi di spesa aggiuntiva. Il Partito democratico in quell’occasione aveva riportato numeri diversi: da 100 miliardi (tenendo conto che tutti avrebbero ricevuto 780 euro netti, ma così non è) fino a 70 (Yoram Gutgeld, ex commissario alla spending review), cifre sbagliate. Ora, secondo la relazione tecnica della legge di bilancio, il governo intende spendere 9 miliardi di euro, di cui uno destinato alla riforma dei centri per l’impiego. Una cifra modesta per la platea che dovrebbe avvicinarsi ai 6 milioni di beneficiari, per un importo medio di 500 euro (secondo le anticipazioni di stampa) a famiglia. Un importo che, a seconda delle interpretazioni, può risultare più o meno credibile. Infatti la media calcolata dividendo la spesa prevista per il numero dei beneficiari dichiarati supera di poco i 111 euro al mese. Anche se è un calcolo impreciso, perché il reddito andrà al nucleo famigliare e dipenderà in parte dal patrimonio e dal reddito pre-sussidio.

 

Chi lo ha in Europa?

La maggioranza ripete incessantemente che il reddito di cittadinanza è uno strumento presente in tutta Europa, fuorché in Italia. Ma così non è. Lo scorso 3 ottobre alla plenaria del Parlamento europeo una discussione sul reddito minimo si è trasformata in una comica. L’eurodeputata a 5 Stelle Laura Agea ha affermato che una misura simile esiste solo in “26 paesi europei su 28, ma non in Italia”. A stretto giro la commissaria europea per gli Affari sociali l’ha però smentita: “Con l’introduzione di schemi di reddito minimo in Grecia e in Italia negli ultimi due anni, ora tutti i paesi membri prevedono una forma di reddito anti povertà”. Infatti dal primo gennaio 2018 in Italia è in vigore il Reddito di Inclusione (Rei), “la prima misura strutturale di reddito minimo” per la Caritas. Uno strumento che secondo l’Inps nei primi nove mesi di applicazione è arrivato a 379 mila famiglie, in particolare al Sud, con un importo mensile medio di 305 euro. Un sussidio anti povertà in Italia esiste già: il Movimento 5 stelle ha solo deciso di abolirlo per aggiungere più finanziamenti, cambiarne il nome e alcune regole.

 

Farà restare sul divano i beneficiari?

Una delle critiche più feroci alla proposta del reddito di cittadinanza, in particolare durante la campagna elettorale, è stata che il nuovo sussidio garantirebbe un assegno mensile senza richiedere nulla in cambio ai beneficiari. Paradossalmente una critica rilanciata spesso dal Partito Democratico, che invece – a rigor di logica – non dovrebbe avversare di per sé politiche di assistenza contro la povertà, con toni moralistici sui poveri.

 

E’ vero da una parte che molte critiche alla proposta 5 stelle si concentrano sulla cosiddetta “trappola della povertà”, per cui il meccanismo del sussidio spingerebbe i poveri a rimanere tali senza incentivarli a lavorare. Ma non si può d’altra parte affermare che non preveda obblighi per i partecipanti e che li lasci “sul divano”. Il disegno di legge della scorsa legislatura prevedeva ad esempio la necessità di intraprendere un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo, colloqui individuali e corsi di formazione. Inoltre si dovrà offrire la propria disponibilità a lavorare per progetti comunali di utilità pubblica, per almeno otto ore settimanali. Tutti requisiti che se mancanti portano alla decadenza dal programma di reinserimento. Chi riceverà il reddito di cittadinanza non potrà rimanere sul divano. Questo almeno dovrebbe essere scritto nella futura legge.

 

Abolirà la povertà?

La maggiore novità del reddito di cittadinanza è la centralità del reinserimento lavorativo. Il governo vuole infatti legare l’assistenza ai più poveri al mercato del lavoro, anche per dribblare le critiche del suo partner di governo. Tanto che di poveri nelle parole di Di Maio e Castelli si sente ormai parlare poco: si parla invece di disoccupati. Categorie che talvolta si equivalgono, talvolta no: esistono lavoratori poveri e disoccupati non poveri. L’obiettivo dei 5 stelle è quello di far uscire milioni di persone dalla povertà, che verrebbe “abolita”, trovando loro un lavoro. Anche se non si comprende come questa logica si potrebbe applicare per esempio ai working poors, cioè coloro che un’occupazione la hanno già anche se a basso reddito. A loro non si potrebbe applicare il criterio delle tre offerte rifiutate, e sarebbero fortemente incentivati a lavorare meno o a lavorare in nero, mantenendo lo stesso livello di reddito.

 

A dimostrazione delle difficoltà di abolire la povertà per decreto, le politiche contro la povertà negli altri paesi europei hanno condotto solo il 25 per cento dei beneficiari a un’occupazione stabile. In Francia addirittura solo il 3 per cento di chi ha beneficiato del Rsa (il reddito minimo francese) ha trovato un lavoro ogni mese, prevalentemente part-time o temporaneo. Secondo l’economista Stefano Toso “la quota di beneficiari che trova lavoro non è elevata, perché tra i beneficiari del reddito minimo rimangono persone spesso caratterizzate da scarse capacità di lavoro”, come bassa istruzione, salute scadente, compiti di cura famigliare. Il reddito di cittadinanza non abolirà la povertà da un giorno all’altro, né in un arco di tempo più lungo. Non basta la ricerca di un’occupazione per riuscirvi: la povertà è un fenomeno sociale molto più complesso di quanto il governo crede.

 

Perché le bufale sono pericolose

Il reddito di cittadinanza è stato il provvedimento più chiacchierato dell’anno e ancora non esiste una parola del disegno di legge che lo introdurrà. Il costo, gli strumenti pre-esistenti, gli obblighi e le offerte di lavoro: le informazioni sbagliate e le narrazioni infondate sono tante e influenti nel dibattito pubblico. Non coinvolgono solo gli addetti ai lavori, ma spopolano sui social network e in televisione. Lo scarso livello delle informazioni, sia in termini di quantità che di qualità, può tuttavia provocare degli effetti indesiderati sull’esito del sussidio stesso. Infatti, uno dei problemi principali di misure simili – negli altri paesi europei – è il tasso di richiesta di partecipare al programma anti povertà. In gran parte dei paesi europei infatti il tasso si aggira attorno a poco più della metà dei possibili aventi diritto. In Germania tra il 30 e il 40 per cento non ne chiede l’accesso, in Gran Bretagna circa un terzo. Un problema fondamentale se si vuole “abolire la povertà”. La mancata partecipazione potrebbe essere causata da criteri troppo complicati per ottenere il sussidio, oppure dallo stigma sociale che porta gli individui a non presentare la domanda per non essere riconosciuti come poveri. Proprio su questo potrebbe avere un impatto negativo il dibattito pubblico caratterizzato da informazioni imprecise e polemiche così emotive e talvolta moralistiche sui poveri. In queste condizioni sono proprio le persone più in difficoltà, che spesso sono quelle con più scarso accesso all’informazione di qualità, che ci rimettono.