Maurizio Landini, segretario generale della Fiom e animatore della Coalizione sociale (foto LaPresse)

Il reddito della cuccagna

Luciano Capone
Negli ultimi mesi è diventato centrale nel dibattito politico il “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 stelle. Riformare il welfare è necessario. Meglio però le idee di Friedman che quelle di Grillo e Landini.

Negli ultimi mesi è diventato centrale nel dibattito politico il “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 stelle. La proposta piace a Sel, alla sinistra del Pd e a Pippo Civati. I consensi si sono estesi a pezzi della maggioranza Pd e del centrodestra, lo hanno proposto anche i presidenti di Puglia e Lombardia Michele Emiliano (Pd) e Roberto Maroni (Lega). Pure il leader della Fiom-Cgil, Maurizio Landini, durante il lancio della sua Coalizione sociale, ha sposato la proposta dicendo che “il reddito minimo non deve essere pagato con il contributo di altre persone ma dev’essere a carico delle imprese o della fiscalità generale”. L’uscita la dice lunga sulla confusione e sulla fattibilità del reddito di cittadinanza: da un lato si considera chi lavora nelle imprese delle “non-persone”, dei cyborg, o magari si pensa di far pagare le tasse a robot e macchinari, dall’altro si propone di prelevare i soldi necessari dal bancomat della “fiscalità generale”. Le obiezioni del governo sono al massimo di tipo contabile, l’idea è bella ma non ci sono soldi.

 

In realtà quella dei grillini è proprio una pessima idea, è concepita male e non può che essere realizzata peggio. C’è innanzitutto un problema di coperture: alcune sono incostituzionali come la Robin tax, altre sono dannose come l’ennesima patrimoniale o improponibili come il taglio del 20 per cento del budget della Difesa. C’è poi un problema di costi: i 17 miliardi preventivati sono una fotografia statica dell’attuale quadro, ma visto che si tratta di un sussidio che produce conseguenze nei comportamenti degli attori economici andrebbero valutati gli effetti dinamici. Questo perché, e arriviamo al terzo punto, il “reddito di cittadinanza” grillino funziona come un incentivo alla disoccupazione e una tassa sull’occupazione. L’idea di fondo è che chiunque ha diritto a un reddito minimo di 780 euro al mese: se una persona è a reddito zero riceve l’assegno integrale, se invece guadagna meno riceve un’integrazione fino a raggiungere la soglia di 780 euro. Ma un meccanismo del genere produce effetti perversi. A chiunque guadagna fino 780 euro lavorando, conviene perdere il lavoro e ricevere il “reddito di cittadinanza” senza fare nulla, o magari integrandolo con un lavoro in nero. Non avrà alcun incentivo a lavorare, dato che per ogni euro guadagnato subirà un taglio del sussidio di pari importo. Di fatto chi si azzarda a lavorare viene punito con un’aliquota marginale del 100 per cento. In questo modo diventerebbero convenienti solo i lavori pagati notevolmente più di 780 euro, visto che anche con uno stipendio da 1.000 euro si guadagnano soli 220 euro in più rispetto a non fare nulla. L’effetto è quello di mettere fuori mercato tutti i lavori part time, o comunque renderli convenienti solo se in nero. Come ha saggiamente sottolineato la Conferenza episcopale, è una misura assistenzialista che rischia di lasciare le persone in una trappola della povertà.

 

I grillini obiettano che nella loro sistema lo stato si fa carico di trovare un lavoro attraverso i centri per l’impiego, vincolando le persone a non rifiutare più di tre volte le offerte trovate, pena la perdita del “reddito di cittadinanza”. L’impalcatura poggia su una fede sconfinata nelle capacità del pubblico di trovare lavoro, purtroppo non supportata dalle performance dei centri per l’impiego. Ma la faccenda è ancora più complicata, perché nella proposta del M5s i centri per l’impiego non devono trovare un lavoro qualsiasi, ma uno che rispetti alcune condizioni: deve essere attinente alle propensioni e alle competenze del beneficiario, prevedere una retribuzione non inferiore all’80 per cento dell’ultimo stipendio percepito e infine non deve essere distante più di 50 chilometri da casa. Se mai il centro dovesse riuscire a trovare un lavoro del genere, il percettore del sussidio lo può rifiutare per ben tre volte senza perdere il sussidio. In pratica è più probabile trovare per terra una schedina vincente del Superenalotto già giocata che perdere il “reddito di cittadinanza”.

 

Un sistema che incentiva comportamenti parassitari è molto dannoso, specialmente per un paese come l’Italia caratterizzato da una bassa partecipazione alla forza lavoro in particolare femminile. In questo modo intere fasce sociali e aree geografiche, soprattutto nel meridione, verrebbero trasformate in semplici percettori di trasferimenti. Ciò che non funziona è la teoria della “fine del lavoro” alla base del “reddito di cittadinanza”, secondo cui il progresso tecnologico distrugge l’occupazione e nella società moderna a una larga parte della popolazione spetta esclusivamente il ruolo di “consumatore”: spendere soldi prelevati da chi produce ricchezza per comprare cose che quegli stessi settori produttivi mettono sul mercato. Si tratta di un castello di carte che non genera crescita economica e che rischia di crollare alla prima folata di vento.

 

Ciò non vuol dire che si possa ignorare il problema della povertà, che in questi anni di crisi è aumentata e colpisce, secondo i dati del presidente dell’Inps Tito Boeri, 15 milioni di persone. C’è bisogno di un paracadute universale che permetta a tutti di vivere dignitosamente e contemporaneamente incentivi chi è disoccupato a non restare fuori dal mondo del lavoro. Ovviamente non si può intervenire con spese (e quindi tasse) aggiuntive come propone il M5s, ma razionalizzando le uscite ed eliminando gli altri sussidi poco efficienti. L’Italia ha una distribuzione del reddito anglosassone (dove ci sono tasse basse) e una pressione fiscale scandinava (dove c’è la disuguaglianza è inferiore), ha contemporaneamente diseguaglianza elevata e tasse alte e entrambe in crescita. E’ evidente che lo stato gestisca già molte più risorse di quante servano a ridurre l’indigenza ed eliminare la miseria. Se ciò non accade vuol dire che la spesa pubblica va a chi non ne ha bisogno. Insomma, c’è bisogno di ridurre la povertà e ci sono gli spazi per farlo senza nuova spesa e tasse. Ma quale strumento utilizzare al posto del reddito di cittadinanza?

 

[**Video_box_2**]Un esempio può essere l’Earned income tax credit (Eitc) statunitense, un credito d’imposta che aiuta chi lavora e guadagna poco. Al di sotto di una certa soglia di reddito si riceve un sussidio per ogni euro guadagnato lavorando. Il sussidio diminuisce al crescere del reddito fino a sparire al raggiungimento della soglia prefissata, senza mai disincentivare il lavoro: a ogni euro guadagnato in più corrisponde sempre un aumento del reddito. In questo modo non ci sono le distorsioni del reddito di cittadinanza: le persone disoccupate o a basso reddito per prendere il sussidio sono incentivate a trovarsi un lavoro senza aspettare che piova dai centri per l’impiego e sono incentivate a non trovarlo in nero (altrimenti non percepirebbero il bonus), facendo così aumentare il numero di ore lavorate e la partecipazione al lavoro soprattutto delle categorie svantaggiate, a cui vengono spesso offerti lavori sottopagati. L’Eitc avvicina le persone al mondo del lavoro, disincentiva comportamenti parassitari, premia chi s’impegna e migliora le proprie competenze: paga chi lavora e non chi non fa nulla.

 

Negli Stati Uniti è il più grande programma di sussidi, aiuta decine di milioni di famiglie a uscire dalla povertà e a diventare autosufficienti. L’Eitc nasce dall’idea esposta negli anni 60 dal premio Nobel Milton Friedman di sostituire gli inefficaci programmi di welfare dell’epoca con un’imposta negativa sul reddito (Negative income tax), ma viene introdotta negli anni 70 da un senatore democratico. Nei decenni ha conquistato sia i democratici sia i repubblicani, è stato esteso prima da Ronald Reagan e poi da Bill Clinton, e forse è l’unica cosa che riesce a mettere d’accordo un falco repubblicano come Paul Ryan e l’Amministrazione democratica guidata dal presidente liberal Barack Obama. E questo essenzialmente perché è efficace, riduce la povertà e aumenta l’occupazione.

 

Gli incentivi economici funzionano così: se sussidi qualcosa ne avrai di più, se la tassi ne avrai di meno. Il reddito di cittadinanza sussidia la disoccupazione e tassa il lavoro, il credito d’imposta sui redditi bassi (Eitc) fa il contrario. Su quale sia lo strumento di cui ha bisogno l’Italia non dovrebbero esserci molti dubbi.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali