Virginia Raggi (foto LaPresse)

La Capitale del marcio moralista. Ecco l'ultimo stadio del populismo

Salvatore Merlo

Storia di Raggi, Di Maio e l’avvocato Lanzalone. Evanescenza e cialtroneria causa della corruzione

Roma. Poiché volevano evitare una “colata di cemento”, i grillini al governo di Roma avevano segato dei modernissimi grattacieli, che sono l’ambizione e l’orgoglio di Londra e di Milano, e modificando il progetto per la costruzione del nuovo stadio di calcio, quello della Roma, avevano sostituito le torri svettanti con una sfilza di edifici bassi e meschini, che sono invece il povero arredo urbano di Mogadiscio e di Kabul, ma anche della periferia più anonima della capitale. E così, di fronte agli occhi increduli dei costruttori, di quel Luca Parnasi finito ieri in carcere con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione, evidentemente felice di poter risparmiare, avevano cancellato anche il prolungamento della metropolitana, la riqualificazione della stazione di Magliana, lo svincolo dell’autostrada Roma-Fiumicino, quello dell’autostrada A91, il viadotto, il potenziamento della ferrovia Roma-Lido, il ponte carrabile sul Tevere… Nel frattempo però la procura indagava e la polizia giudiziaria intercettava.

    

Così, il 24 febbraio del 2017, due tecnici della ditta costruttrice parlano tra loro, ridono, “ma mi raccomando tienitelo per te”, e ammettono in sostanza che lo stadio è bellissimo, ma venute meno tutte le opere di pubblica utilità previste dal progetto originario approvato dalla giunta di Ignazio Marino, una volta costruito, quel gigante sarebbe diventato difficile da raggiungere per qualsiasi tifoso romano “perché levando il ponte sul Tevere quello che si viene a creare è che sulla via del Mare… Eee si crea caos”. E allora si capisce bene come la vicenda giudiziaria che ieri ha coinvolto una parte della politica romana, accusata di essersi fatta corrompere per favorire la costruzione dello stadio della As Roma, è solo metà di una vicenda che non riguarda esclusivamente le presunte mazzette, i favori, le assunzioni, i contributi alle campagne elettorali che raccontiamo nell’inserto III del Foglio, ma riguarda anche l’ideologismo, la cialtroneria e la debolezza della politica ai tempi di Virginia Raggi e Luigi Di Maio al governo di Roma e del paese.

     

Al centro di tutto c’è un uomo: l’avvocato Luca Lanzalone, figura paradigmatica delle esperienze di governo a 5 stelle, un po’ come Raffaele Marra, l’ex braccio destro della sindaca Raggi, il funzionario che conosceva e spiegava la macchina burocratica del Campidoglio agli spaesati del M5s, finito anche lui nei guai con la giustizia. Lanzalone è un tecnico, un uomo di relazioni che, proprio come Marra, vede aumentare enormemente il suo potere ai piedi del trono grillino e lo vede aumentare in misura direttamente proporzionale all’evanescenza dei politici ai quali invece dovrebbe rispondere. Ed è Lanzalone, poi premiato dalla giunta grillina con l’incarico di presidente di Acea, la grande azienda dell’acqua e dell’energia, a gestire per conto del Movimento, nel momento più delicato, tra mille tensioni e spinte contrastanti, tutto il dossier sullo stadio. E’ infatti attorno al lui, adesso agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione, che matura la misteriosa svolta del M5s, prima contrario e poi bruscamente favorevole alla gigantesca infrastruttura sportiva che in una città in cui il settore edilizio è in crisi rappresentava (e ancora rappresenta) probabilmente il più grande affare del decennio, in termini di investimenti, posti di lavoro, ricavi, tra le attese emotive dei tifosi e i legittimi interessi di guadagno degli imprenditori e anche del presidente della Roma James Pallotta: circa un miliardo di euro. I racconti offerti in queste ore ai giornalisti sono pieni di favole torbide, strette di mano a Londra, passaggi di valigette, scelte prese in centri decisionali lontanissimi dalle sedi istituzionali, al di sopra e alle spalle persino della sindaca Raggi. La quale ha semmai la colpa ontologica di trovarsi in una posizione dalla quale non le è concesso di avere reale autonomia, come per lo stadio da un miliardo così per le Olimpiadi. E d’altra parte Lanzalone le era stato imposto dai capi del Movimento.

  

E l’avvocato Lanzalone non è infatti un uomo di Virginia Raggi, ma la sua presenza a Roma viene subita dalla sindaca, dopo le dimissioni a catena del settembre 2016, quando andarono via uno dopo l’altro l’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, il capo di gabinetto, Carla Raineri, il ragioniere generale e i vertici della municipalizzata dei trasporti, poco prima dell’arresto di Marra, quando insomma il tentativo della sindaca di rendersi autonoma dai capi della Casaleggio Associati naufraga vistosamente, e lei rimane impigliata nei lacci del contratto che la impegna all’obbedienza, accettando di fatto d’essere commissariata con l’arrivo in Campidoglio di Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede in qualità di tutori, gli amici più fedeli di Luigi Di Maio, oggi rispettivamente ministro per i Rapporti con il Parlamento e ministro della Giustizia. Ed è Bonafede, che l’aveva conosciuto a Livorno, dove avevano collaborato nel salvataggio dell’Aamps, la municipalizzata della nettezza urbana della città amministrata dal grillino Filippo Nogarin, a portare Lanzalone, genovese come Beppe Grillo e per prossimità cittadina arrivato in contatto con il M5s, fin dentro le stanze del Campidoglio.

   

Da quel momento l’ascesa dell’avvocato è stata inarrestabile, e non c’è imprenditore o uomo di potere romano che in questi ultimi due anni non abbia ricevuto richieste d’incontro (e non solo) da parte di Lanzalone. Adesso è accusato di essersi fatto corrompere dai costruttori con una consulenza da circa 100 mila euro. Si vedrà. La sindaca Raggi e Di Maio prendono le distanze, coltivando la speranza che non ci siano conseguenze politiche. Ma Lanzalone è più collegato a Di Maio che a Raggi, e questa è una piccola arma in mano alla sindaca che tuttavia – ieri è rimasta chiusa per ore in riunione in Campidoglio – sa di essere il proverbiale vaso di coccio. Il Movimento è adesso al governo. E quella sacrificabile è lei. Colpevole ontologica, in una città visibilmente male amministrata.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.