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Ministro uno e Tria

Luciano Capone

Keynesiano, pro crescita ma non pro debito. Ritratto intellettuale di un economista al bivio: uscire dall’euro o rinunciare al Contratto?

Dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che gli italiani hanno iniziato a conoscere in seguito alle prime uscite pubbliche e al dibattito parlamentare durante il voto di fiducia, il ministro dell’Economia Giovanni Tria è l’altro soggetto misterioso del nuovo governo. Non per i lettori del Foglio, dove il professor Tria ha a lungo curato il “Diario di due economisti” con Ernesto Felli, ma per il grande pubblico sì. E visto che, dopo quella di Palazzo Chigi, quella di via XX Settembre è la poltrona più importante dell’esecutivo, per capire le linee di politica economica del governo diventa fondamentale cercare di conoscere le idee e le caratteristiche personali del ministro dell’Economia, attualmente stretto tra due vasi di acciaio come Luigi Di Maio e Matteo Salvini e compresso dalla personalità di piombo di Paolo Savona. La prima buona notizia è che Tria non è un vaso di coccio. Chi lo conosce lo descrive come una persona moderata, pragmatica, disponibile al dialogo, ma non arrendevole e con convinzioni salde. Sono tutte caratteristiche che torneranno utili nella trasformazione delle promesse elettorali in riforme e atti concreti di governo, soprattutto per quanto riguarda un aspetto poco considerato da M5s e Lega come la compatibilità con i margini di bilancio a disposizione. “E in genere la realtà delle cifre ridimensiona spesso la visione”, ha scritto recentemente Tria su Formiche, prima della sua nomina, a proposito del “contratto di governo” tra Salvini e Di Maio. Altre cose importanti da sapere riguardano la sua formazione: è un economista keynesiano a lungo impegnato intellettualmente, insieme a tanti post socialisti, nel centrodestra italiano (soprattutto con il suo amico, e già collega all’Università Tor Vergata di Roma, Renato Brunetta, con cui ha lavorato al programma di Forza Italia alle ultime elezioni); è stato presidente della Scuola superiore per la Pubblica amministrazione, esperienza che sicuramente gli tornerà utile per la gestione e l’interlocuzione con la macchina burocratica; circa un anno fa era stato eletto preside della facoltà di Economia di Tor Vergata.

 

E’ in mezzo ai vasi di ferro Di Maio e Salvini, e compresso dalla personalità di piombo di Savona. Ma Tria non è un vaso di coccio

E’ un allievo e amico del Nobel per l’Economia Edmund Phelps, che su reddito di cittadinanza e innovazione ha idee opposte a quelle di Di Maio

Ma al di là dei dati biografici, che comunque contano, ciò che è più interessante è vedere quali sono le idee del ministro Tria per capire quale indirizzo tenterà di imprimere rispetto al lungo elenco di desideri contenuto nel contratto di governo. Il punto da cui partire, che è poi il grande interrogativo che aleggia sulle intenzioni della maggioranza gialloverde e sul futuro del paese, è sicuramente l’euro. Anche perché la posizione di netta ostilità alla moneta unica di Paolo Savona, con annesso “Piano B” golpista di uscita, è il motivo per cui, dopo il veto del presidente Mattarella, al Mef è arrivato Tria. Il capo del Mef è stato scelto su indicazione di Savona, con cui i primi contatto risalgono al 2007, quando l’attuale ministro degli Affari europei assegnò a Tria e Felli il “Premio giornalistico internazionale Santa Margherita Ligure per l’Economia” per un articolo scritto sul Foglio su una riforma fiscale che prevedeva, tra le altre cose, una riduzione delle tasse dirette in cambio di un incremento delle tasse indirette (un tema che si ripresenterà con la flat tax e il possibile aumento dell’Iva, che però Di Maio ha già bloccato).

 

Ma Tria è per l’Italexit o no? “E’ una domanda fuorviante, perché è sbagliato rispondere sì, ma credo che non basti rispondere no”, ha detto in un recente convegno. Insomma, sarebbe dannoso uscire unilateralmente dall’euro, ma in assenza di riforme la moneta unica rischia comunque di implodere. Senza paragoni con il nazismo come Savona, anche Tria è critico nei confronti della Germania e del suo ruolo in Europa ma, a differenza dei tanti no-euro nella sua maggioranza che hanno scritto il programma e che Tria rischia di ritrovarsi come sottosegretari, è molto chiaro sui costi di un’uscita dall’euro: “Tutti i casi storici insegnano che ci sarà necessariamente una riduzione dei salari reali e della quota dei redditi sul pil, quindi un peggioramento della distribuzione del reddito”. In pratica Tria ricorda che le svalutazioni funzionano solo se c’è deflazione interna e un temporaneo impoverimento del paese, a cui seguirà un “periodo lungo e doloroso per le condizioni di vita dei lavoratori, prima eventualmente di tornare a crescere, con risvolti sociali e politici tali da spaventare a qualunque governo”. Questa consapevolezza dovrebbe indicare che il ministro non cercherà un’uscita deliberata e dovrebbe evitare anche “incidenti”, come ad esempio la “minaccia” di un Piano B, che porterebbero a tensioni sui mercati fino a precipitare in un’uscita involontaria. Resta da capire se nel Consiglio dei ministri si imporrà la sua linea riformista o quella dello scontro frontale di Savona.

 

Tra le idee di riforma dell’Eurozona, nei giorni scorsi la rivista Formiche ha pubblicato un articolo del professor Tria rilanciato da tanti altri media come una proposta per “un vasto programma di investimenti pubblici finanziato in deficit e senza creare un problema per il debito pubblico”. Il deficit spending che, attraverso un miracoloso “moltiplicatore”, fa crescere il pil e ridurre il debito sembrerebbe proprio coincidere con la linea della maggioranza di governo. Se però si va a leggere bene cosa scrive Tria, si scopre che è l’esatto opposto. La proposta completa in realtà è già stata pubblicata un anno fa nel “Rapporto del Gruppo dei 20” (Eurilink), il gruppo animato da Luigi Paganetto, fondatore della facoltà di Economia di Tor Vergata e mentore del ministro, in un articolo dal titolo “Superare il tabù della monetizzazione del deficit per salvare l’euro”. Come si evince dal titolo, l’idea di Tria non è quella di fare maggior deficit emettendo debito, ma stampando moneta. “Ciò che si propone è la monetizzazione di una parte del deficit pubblico, destinato a finanziare, senza creazione di debito aggiuntivo, un ampio e generalizzato programma di investimenti pubblici, con il vincolo del mantenimento di un avanzo primario strutturale ottenuto attraverso il controllo della spesa corrente”. Detto in termini brutali, si tratta di un piano di investimenti pubblici europeo pagato dalle stampanti della Bce. Non è il caso di scendere nei dettagli, valutare se e in quali condizioni una misura del genere sia efficace (recessione, temporaneità, qualità degli investimenti, etc.) soprattutto perché a monte c’è un problema insormontabile: è illegale. Non si può fare. Secondo l’articolo 123 dei Trattati europei e lo statuto della Bce è vietata qualsiasi forma di finanziamento o di monetizzazione dei deficit pubblici. E non si tratta di un aspetto marginale, facile da modificare come lo spostamento in alto o in basso di un parametro, ma di uno dei pilastri della costruzione dell’Unione europea e della Bce che in Europa nessuno è disposto a cambiare. Bisognerebbe abbattere e ricostruire le istituzioni europee per un provvedimento temporaneo. E nessuno in Europa è, a torto o a ragione, disposto a farlo.

 

La proposta del professor Tria, accademicamente interessante ma politicamente irrealizzabile, è però più interessante per i suoi presupposti. Perché il ministro avanza una soluzione del genere, sapendo che non si può fare? Non sarebbe più semplice, come propone il programma del governo, secondo il refrain della campagna elettorale, “battere i pugni a Bruxelles” e “sfondare il tetto del 3 per cento”? No, dice Tria. Non si può fare. E non perché a Bruxelles siano inflessibili e anti italiani, ormai l’Ue ha da tempo accettato sostanzialmente il “non rispetto delle regole e la loro flessibilità”. “Il vero limite all’ampliamento dei deficit sovrani non sono le regole europee – fa notare Tria nello stesso articolo – ma la crescita ulteriore che ne deriverebbe del debito. E’ quindi la crisi potenziale dei debiti sovrani che pesa sulle possibilità di manovra dei governi, in particolare di quelli dei paesi più indebitati”, come l’Italia, che proprio in queste settimane di innalzamento dello spread sta testando sulla propria pelle quanto questa affermazione sia vera.

 

Davanti al ministro dell’Economia c’è quindi un bivio, che è quello da cui siamo partiti all’inizio: uscita dall’euro e monetizzazione del deficit (con svalutazione, inflazione, taglio dei salari e impoverimento) oppure permanenza nella moneta unica senza la possibilità di fare deficit spending (rinunciando quindi a gran parte delle promesse elettorali senza coperture)? Su questo la maggioranza di governo non è ancora chiara, perché se a parole il premier Conte ha confermato l’intenzione di restare nell’Eurozona, nei fatti il “contratto di governo” è incompatibile con la permanenza. E i mercati, a modo loro, lo stanno facendo notare.

 

Oltre che sugli obiettivi di finanza pubblica, il ministro Tria dovrà dire la sua anche su singole proposte dei due partiti. Mentre è in sostanziale accordo con la flat tax, anche se prevedendo una discesa delle aliquote lenta e compatibile con le risorse (magari lasciando salire l’Iva), Tria potrebbe dire qualcosa sulla contro-riforma delle pensioni. Salvini vorrebbe cancellare integralmente la “riforma Fornero”, ma Tria era uno degli economisti che ne invocava la realizzazione per ridurre il debito e aumentare il tasso di crescita dell’economia. Nel 2011, prima dell’arrivo del governo Monti, incalzava il centrodestra perché, proprio per l’opposizione della Lega nord, non era abbastanza riformista: “L’eliminazione delle pensioni di anzianità e il posticipo di quelle di vecchiaia – scriveva sul Foglio – servono non solo a ridurre la spesa pensionistica, ma a superare l’anomalia per cui la quota di persone che lavorano tra la popolazione di età superiore a 56 anni è tra le più basse d’Europa, soprattutto tra le donne”.

 

E’ stato indicato da Savona, che lo ha conosciuto nel 2007, quando premiò il titolare del Mef per un articolo con Felli uscito sul Foglio

“Il vero limite all’ampliamento dei deficit sovrani non sono le regole europee ma la crescita ulteriore che ne deriverebbe del debito pubblico”

Ma probabilmente, più che con Salvini, Tria avrà un confronto intellettuale più intenso con il superministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio. Perché sulle linee strategiche di politica industriale e di riforma del mercato del lavoro i due sembrano su fronti contrapposti. Per farsi andare bene il neocorporativismo di Di Maio, che ha unito lavoro e sviluppo economico, Tria dovrebbe dimenticare gli insegnamenti del premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps, che conosce da quando nel 1984 ha perfezionato i suoi studi (davvero) alla Columbia University (tra l’altro Phelps è atteso il 26 giugno a Tor Vergata per una lecture, introdotta da Tria, per il trentennale della facoltà di Economia).

 

Prendiamo il “reddito di cittadinanza”, la riforma principale del M5s per combattere la povertà e rilanciare l’occupazione. Si tratta di un generoso sussidio di disoccupazione, che rischia di distruggere lavoro a basso costo e alimentare il lavoro nero. Phelps, in un celebre saggio pubblicato anni fa anche in Italia (“Premiare il lavoro”, Laterza), si muoveva in un una direzione diametralmente opposta. Siccome l’obiettivo dovrebbe essere l’inserimento nel mercato del lavoro e non la semplice redistribuzione di reddito, Phelps non proponeva un sussidio di disoccupazione ma un sussidio all’occupazione: un credito d’imposta alle imprese che diano lavoro continuativo alle persone a basso salario. Non un sostegno statale che passa per i centri per l’impiego, ma una market-based solution che “mira a risultati di sinistra con mezzi di destra”.

 

Anche sui temi di politica industriale la distanza non può essere più ampia, visto che il programma del M5s è tutto basato sull’idea di “stato imprenditore” di Marianna Mazzucato (si parte con l’idea di creare la Apple italiana e si finisce col nazionalizzare l’Alitalia). Ecco, se c’è qualcuno più distante da quell’idea di innovazione è proprio il “maestro” di Tria. Nel suo libro del 2013 “Mass flourishing” (non ancora tradotto in italiano), il Nobel spiega proprio come l’innovazione sia qualcosa di endogeno alla società, che “fiorisce” dal basso, legato all’apertura del mercato ma soprattutto a valori come l’individualismo, il vitalismo e il dinamismo. Tutti valori del capitalismo moderno che secondo Phelps l’occidente e in particolare l’Europa stanno perdendo per un ritorno ai valori pre-moderni delle società corporative (familismo, solidarismo, protezionismo). Oltre a euro sì o euro no, Tria si troverà a dover scegliere anche tra le idee di Edmund Phelps e quelle di Luigi Di Maio. La scelta del professor Tria sarebbe ovvia, ma quale sarà quella del ministro Tria?

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali