I salari sono stati schiacciati dalla produttività stagnante e dalla recessione, ma c’è una via d’uscita: taglio delle tasse, contrattazione aziendale e legata alla produttività (foto LaPresse)

Sfidare i populisti sui salari

Stefano Cingolani

Cuneo, contratti, sindacati timidi, politici passivi. Come liberarsi dalla matrioska che imprigiona le retribuzioni

I salari in Italia sono in gabbia; anzi sono rinchiusi in tre gabbie, l’una dentro l’altra come le bamboline russe: il fisco, la contrattazione sindacale e la politica dei redditi così come è stata disegnata con l’accordo del luglio 1993 che superava del tutto la scala mobile. Secondo i dati Istat, la paga media lorda di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015, è ancora oggi sostanzialmente uguale a quella di dieci anni fa, cioè poco meno di 2.500 euro mensili. E’ colpa della lunga recessione, certamente, ma non solo. L’Eurostat ha calcolato che fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se nel frattempo il reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque, il salario non seguiva la dinamica del prodotto nemmeno quando la crisi non era all’orizzonte. La ripresa, per quanto ancora debole, non ha invertito la tendenza, al contrario di quel che è accaduto in altri paesi europei o negli Stati Uniti.

 

Secondo l’Istat la paga media è uguale a quella di dieci anni fa, cioè poco meno di 2.500 euro. E’ colpa della lunga recessione, ma non solo

La “moderazione” è stata una scelta consapevole: bisognava stroncare l’inflazione, per questo nel 1993 venne firmato l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil, la Confindustria e il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, con il quale le retribuzioni annue potevano crescere solo in linea con l’inflazione, non quella effettiva bensì l’aumento programmato dal governo. Eventuali discrepanze dovevano essere compensate con i contratti di lavoro dei due anni successivi. Erano condizioni dure che provocarono anche crisi profonde nei sindacati: Bruno Trentin, segretario della Cgil, firmò per senso del dovere, poi si dimise. Del resto, lui non era mai stato un sostenitore del controllo dall’alto, era contrario anche a un salario minimo fissato per legge, perché credeva nella contrattazione sul posto di lavoro. La flessibilità, per lui, che conosceva bene anche la teoria economica, era fondamentale, così come la regola aurea secondo la quale il salario non va legato all’aumento dei prezzi, bensì alla dinamica dei profitti. In Italia così non è stato e così non è ancor oggi.

 

“A spiegare perché dal 1996 a oggi i salari reali medi in Italia sono cresciuti solo del 6,3 per cento è, semplicemente, il fatto che la produttività del lavoro è cresciuta appena del 5,8 per cento”, secondo Luigi Marattin dell’Università di Bologna (e del Pd), che ha messo a confronto vent’anni di dinamiche retributive nei paesi dell’Ocse e colloca l’Italia in coda, anche dopo la Spagna. In testa si contendono il primato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dove la contrattazione è quasi esclusivamente aziendale. La Germania ha avuto un recupero molto forte nell’ultimo decennio quando anch’essa ha sviluppato la contrattazione aziendale, ma la produttività in qualche modo è scappata di mano con un aumento del 27 per cento mentre i salari sono cresciuti del 15 per cento. Secondo uno studio di quattro economisti, Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schönberg e Alexandra Spitz-Oener, il segreto del successo tedesco è proprio questo, e non la politica economica “mercantilistica” (tesi prevalente tra i giallo-verdi). Il boom delle esportazioni è frutto della qualità del “made in Germany” e di una efficienza sostenuta dal patto sociale tra imprenditori e lavoratori, stretto a livello aziendale.

 

I sindacati confederali restano attaccati al mito del contratto nazionale e la contrattazione decentrata rimane marginale

E qui si apre la seconda gabbia, quella delle relazioni industriali. Francesco D’Amuri e Raffaella Nizzi del dipartimento economico della Banca d’Italia hanno pubblicato nel dicembre scorso un paper che di fatto traduce in italiano il modello nordico: “Un maggior ruolo della contrattazione decentrata nella definizione dei salari e dell’organizzazione del lavoro consentirebbe di favorire un miglior allineamento tra la crescita dei salari e quella della produttività e di allentare alcune rigidità della contrattazione nazionale, soprattutto in termini di durata dei contratti e di meccanismi di indicizzazione automatici, che rischiano di rendere più persistente l’inflazione”.

 

In Italia, da un lato le confederazioni sindacali restano attaccate al mito del contratto nazionale, dall’altro la contrattazione decentrata rimane marginale (non più del 25 per cento) e in genere subordinata a quella nazionale. Non a caso viene chiamata di secondo livello, mentre dovrebbe essere esattamente il contrario. Gli incentivi introdotti dal 2016 hanno prodotto alcuni risultati: sono circa 20 mila i contratti aziendali o territoriali. Contemporaneamente, però, si assiste a una crescente frammentazione della rappresentanza che dà vita a quelli che Tiziano Treu chiama “accordi pirata”, come spiega al Foglio Giuliano Cazzola, docente di diritto del lavoro. Il Cnel ha censito 868 contratti, ma solo 300 sono considerati regolari. Gli esodati emersi all’improvviso con la riforma Fornero sono anch’essi il frutto di queste anomalie, accordi spesso personali tra padrone e dipendente, per uno scivolo pensionistico del quale poi si son dovuti fare carico tutti i contribuenti. Il protocollo prevedeva una sorta di divisione del lavoro: a livello nazionale si tutela il salario reale, a livello locale o aziendale si contrattano gli eventuali miglioramenti, restando tuttavia sempre all’interno della cornice generale. Sergio Marchionne ha imposto un vero e proprio strappo consentendo al patto aziendale di violare i limiti del contratto nazionale. “Basterebbe mettere a confronto l’ammontare dei miglioramenti salariali attesi negli stabilimenti Fca (a fronte del raggiungimento degli obiettivi produttivi indicati) e quelli conseguiti nel rinnovo di un contratto nazionale di un settore, tradizionalmente ricco, come il credito, per rendersi conto della maggiore adeguatezza del modello Marchionne”, conclude Cazzola. Sia la deroga introdotta nel 2011 sia il Jobs Act hanno segnato novità importanti, tanto che i giallo-verdi hanno intenzione di rimetterli in discussione. Il “governo del cambiamento” anche su questo piano si presenta come governo della restaurazione.

 

“Incentivare la produttività significa spostare il baricentro verso l’azienda – sottolinea l’economista Carlo Dell’Aringa, già sottosegretario al lavoro nel governo Letta –. Un processo auspicato da tutti, ma che nei fatti non accade, nonostante il tragico crollo della produttività negli ultimi vent’anni. Siamo fermi come paese. Sono fermi i salari. Sono fermi gli investimenti. Allora io dico ai sindacati: state un gradino indietro e fate partire questo processo. Anzi intestatevelo, ne raccoglierete i frutti”. Un appello rimasto inascoltato per difendere invece un sindacalismo centralista e burocratico, un apparato e una impostazione d’altri tempi, che non corrispondono affatto ai mutamenti intervenuti sul mercato del lavoro.

 

“Non ci sono le condizioni politiche, non solo economiche, per liberarsi del contratto nazionale diventato ormai una vera palla al piede”, sottolinea Guido Bolaffi, ex sindacalista e sociologo del lavoro. Né si può scaricare l’intero peso del recupero salariale su quelle imprese (circa un terzo del totale) che competono, esportano, tirano l’intera economia. Le altre dovrebbero imboccare la stessa strada e sarebbe razionale se il governo aiutasse la loro metamorfosi, ma favorire la ristrutturazione fa perdere voti, come si è visto. Quei due terzi di imprese schiacciate dal loro nanismo chiedono protezione, se non proprio di protezionismo. Così s’innesca un circolo vizioso: una contrattazione ormai superata è un serio handicap all’innovazione, ma l’incapacità di rinnovarsi impedisce di adottare un nuovo modello retributivo.

 

“Se dal ’96 i salari sono saliti solo del 6,3 per cento è perché la produttività del lavoro è cresciuta del 5,8 per cento”, dice Marattin

La terza gabbia è senza dubbio il cuneo fiscale. Il costo del lavoro in Italia è 46 mila euro per ogni singolo addetto. Ma imposte e contributi sociali si mangiano in media il 47,7 per cento, una percentuale che colloca l’Italia la terzo posto assoluto dopo Belgio e Germania, con 12 punti oltre la media dell’Ocse. Tutti ne parlano, nessuno fa niente. “Invece bisogna ripartire proprio da qui anche allo scopo di recuperare spazi di manovra per una contrattazione che leghi il salario alla produttività”, dice al Foglio Innocenzo Cipolletta, economista e uomo d’impresa (dalla Confindustria alla Marzotto e poi alle Ferrovie dello Stato), il quale sostiene da tempo la necessità di aumentare i salari per rilanciare la domanda interna e non solo per una questione di equità sociale. “La flat tax non risolve il problema anche perché la massa dei salari si trova sotto il livello di reddito che dovrebbe trarne beneficio. Quindi occorre ridurre il divario tra costo del lavoro e retribuzione agendo sia sull’imposta sui redditi sia sui contributi”. A quel punto, sarebbe più agevole ricostruire un modello contrattuale basato su un salario minimo intersettoriale (anche per legge secondo Cipolletta), e su contratti aziendali. E’ vero che oggi c’è più spazio per accordi decentrati, però le aziende in genere preferiscono elargire bonus una tantum, anziché aumenti stabili legati alla produttività. Gli incentivi sono utili, ma nello stesso tempo “rappresentano una via contorta che scarica sullo stato oneri che invece dovrebbero essere trattati tra le parti sociali. Anche quando favoriscono contratti aziendali, non modificano l’insieme; invece andrebbe proprio ripensato l’intero modello”.

 

La regola aurea che lega la retribuzione al risultato è anche un modo per ripristinare “la frusta salariale”, cioè quel meccanismo che spinge le imprese ad aumentare il capitale investito in macchinari e a migliorare la propria organizzazione. Non esiste una sola “mano invisibile”, bensì ce ne sono due: la prima agisce sul mercato dei prodotti e spinge alla massima concorrenza; la seconda sul mercato del lavoro e costringe le imprese a innovare con una continua rincorsa non tra salari e prezzi come nel modello inflazionistico, ma tra retribuzioni e innovazione come nel modello produttivo virtuoso. “La regola è d’oro – sostiene Leonello Tronti, docente di economia del lavoro – perché assicura la massima crescita dei salari (e dei consumi, che da essi dipendono) senza esercitare spinte inflazionistiche sui profitti (spinte che, peraltro, oggi sarebbero utili alla ripresa). Qualunque deviazione da questa norma (e l’Italia è in deviazione dal 1993) può essere giustificata solo in una logica esplicita di “scambio politico” (per usare un concetto caro a Ezio Tarantelli): in funzione di ben definiti obiettivi di investimento, occupazione, riqualificazione del lavoro o altro. Così come chiedeva la seconda parte, mai applicata, del Protocollo del 1993”.

 

Il costo del lavoro in Italia è 46 mila euro per addetto. Ma imposte e contributi si mangiano il 47,7 per cento, terzo posto assoluto Ocse

Torniamo così alla gabbia dalla quale siamo partiti. “Non dubito dell’immediato valore che ebbe allora quell’accordo – aggiunge Tronti –. L’economia doveva fronteggiare la più grave crisi occupazionale del Dopoguerra, connessa con l’adesione al grande mercato unico europeo, e doveva al tempo stesso accomodare senza scosse l’ondata di inflazione importata che aveva origine nell’ultima grande svalutazione della lira (settembre 1992). Ma il modello andava riformato già nel 1998, sulla base dei risultati della Commissione Giugni, che tra l’altro perorava la diffusione della contrattazione territoriale a livello regionale, provinciale e di distretto, proprio per diffondere la crescita dei salari reali e aumentare la sensibilità macroeconomica delle parti sociali anche a livello locale”. Quella commissione aveva individuato esattamente i problemi, ricorda Cazzola. Non averne seguito le indicazioni ed essersi portati appresso da allora salari reali e consumi bloccati, senza ottenere in cambio pressoché nulla in favore dello sviluppo, “è stato un errore dalle conseguenze tragiche, un vero peccato mortale della politica economica, a cui va posto rimedio”, insiste Tronti.

 

Un sindacalismo frantumato e gregario come quello attuale preferisce cercare scorciatoie, affidarsi a nuove leggi (ancora!) o a provvedimenti assistenziali come il reddito di cittadinanza (anche se non è davvero di cittadinanza nella versione più recente, che non sarà l’ultima che leggeremo). Si tratta in ogni caso di pillole scadute, false ricette per una malattia vera che contribuisce a collocare l’Italia in una posizione di debolezza strutturale. Dunque, bisogna tornare sulla via maestra, approfittando della ripresa. Se non ora, quando?

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