Marchionne, il gran borghese che non ha conquistato l'Italia
Chapeau a Marchionne, anche se non è riuscito a trasmettere sulla scala della politica e dell’immaginazione sociale i criteri che ha incarnato e lo spessore della sua esperienza
Chi è Sergio Marchionne, e chi è stato se partiamo dall’avvicendamento manageriale alla guida di Fca e Ferrari per guardare alla sua esperienza di numero uno di un’industria che ebbe carattere sacro nello sviluppo italiano e ora è laicamente ricondotta ai canoni dei mercati aperti, insomma è in parte fuggita all’estero? Alla prima domanda mi sono sempre dato una risposta che ha del misterioso e riguarda prima di tutto il carisma del grande potere. Un mulo abruzzese, internazionalizzato via Canada e Svizzera, competente in fatto di finanza ma nuovo alla produzione di auto, alla gestione di impresa, al ricambio dei modelli, al negoziato sindacale duro, questo fatale avvocato si trova per le mani, nel paese incantato dell’Avvocato, un’impresa centenaria alla frutta, costretta a una scala ridotta di innovazione, di investimento, di produzione e di vendite in Italia, in Europa e nel mondo.
Sfruttando ingegnosamente l’affare del put cosiddetto, trattato da Paolo Fresco l’americano di Agnelli, e dunque coinvolto direttamente nella grande crisi di Detroit e dell’automotive americano in tempo di crisi nera, Marchionne arriva a stabilire, attraverso Obama presidente appena eletto e impegnato nei maneggi della ripresa in piena turbolenza, un patto che consente alla Fiat vecchiotta e in bilico di prendersi la Chrysler vecchiotta e fallita, un’operazione in sé sensazionale, e questa operazione la conduce in porto in mesi fulminanti e poi a completamento in soli dieci anni con tutti i crismi, battendo una formidabile concorrenza, rimborsando l’erario americano dei suoi generosi prestiti, rassicurando investitori e venditori d’auto in giro per l’America, riuscendo a non farsi mettere troppo i bastoni fra le ruote dal nazionalismo economico del paese d’origine di Fiat, e alla fine a rendere credibile una nuova gamma di prodotti, a intercettare la ripresa, a mettere al posto loro le cose anche dal punto di vista sindacale a Detroit come a Torino o a Pomigliano d’Arco. Un exploit clamoroso, e appunto un po’ misterioso come tutte le operazioni che giganteggiano nella storia economica e industriale, in seguito al quale la cassa finanziaria degli Agnelli, gestita dalla discendenza giovane e teoricamente inesperta, compie mirabolanti affari in finanza e editoria, tra i quali la creazione del primo gruppo giornalistico in Italia, l’acquisto dell’Economist di Londra e molto altro. Chapeau, si direbbe.
Eppure Marchionne non è mai stato amato dai suoi pari, e non c’è solo l’invidia al motore di questo sentimento. Molti si sono candidati al ruolo di “nuovi capitalisti” o “capitani coraggiosi”, lui è davvero riuscito nell’avventura e con metodi ostici, saltando le frontiere in ogni senso, quelle delle patrie e quelle delle affiliazioni consolidate, i confini del denaro e del potere che procedono dal vecchio impianto familiare della ricchezza e dell’industriosità, stabilendo il nuovo perimetro di una globalizzazione (qui è il caso di usare un termine spesso troppo generico) di cui è risultato, se non profeta, almeno banditore indiscusso. Il pullover, la cravatta mancante e poi ricomparsa, dettagli sono e dettagli restano: ma si intravede oltre le quisquilie una pedagogia, un rinnovamento per niente astratto, un mutamento di modi che è parte della storia. Chi ha conosciuto la Fiat negli anni duri e nel loro dopoguerra, il suo contesto torinese, la sua logica di apparato ideologico e politico, la sua influenza egemonica di decenni, il suo personale dirigente, la sua simbiosi con lo stato, la sua cultura, in una parola, sa che quella del viandante del capitalismo, di Marchionne, è stata una rivoluzione vera.
Eppure Marchionne, che era predisposto per essere un “capo” o un “leader” in senso generale, come lo furono da posizioni antagoniste i Valletta e i Di Vittorio negli anni del Boom, in una cosa importante non è riuscito: trasmettere e far fruttare sulla scala della politica e della immaginazione sociale i criteri che ha incarnato e lo spessore della sua vicenda. Non è un problema degli americani, che vedono in un manager solo gli elementi del successo, della riuscita, da raccontare in succulente biografie, anche queste di successo, e li comprendono come assi del privato, essendo il privato il motivo conduttore della loro storia e della loro situazione sociologica. E’ una questione che riguarda gli italiani, ai quali nulla di serio e di veramente interessante ha saputo dire la storia dell’internazionalizzazione, della salvezza e del rilancio della più grande impresa di produzione della loro parabola nazionale, come riflesso evidente dell’apertura dei mercati e della ridislocazione delle potenze sociali e finanziarie del mondo liberale o neoliberista così com’esso è. Stiamo qui a parlare di soccorso marittimo a poche miglia dalle nostre coste, di sovranismo piccolo nazionale e di confini, di porti chiusi, di frontiere arcigne, di precariato e sussidi buoni per la piccola propaganda elettorale dei demagoghi, e stiamo a filosofeggiare su nuove forme di giustizia sociale, che incarnano vecchie forme di sottosviluppo: questa mancata influenza di un borghese mondializzato sulla politica, sulla cultura sindacale, sugli esiti di governo e di opinione pubblica, ecco il punto grigio del lascito di Marchionne come amministratore delegato di un Ircocervo che nessuno avrebbe mai immaginato possibile nell’Italia che non sa che fare di molte tonnellate di acciaio prodotte a Taranto e degli aerei della sua vecchia indisposta compagnia di bandiera.
tra debito e crescita