Sergio Marchionne (foto LaPresse)

Muore Marchionne, non la sua rivoluzione

Luciano Capone

Apertura contro chiusura. Competizione internazionale contro protezionismo. Produttività contro assistenzialismo. Addio al salvatore di Fiat e Chrysler. Perché l’Italia, e non solo Fca, non può fare a meno del suo messaggio di rottura

Sergio Marchionne ha rotto tante regole, anche quella antica secondo cui dei morti non si può che parlare bene (“de mortuis nihil nisi bonum”). Anche nella malattia, grave e improvvisa che lo ha spento, non gli sono state risparmiate dure critiche, rispettose da chi lo considerava un avversario ma addirittura offensive nei commenti di chi lo ha sempre visto come un nemico di classe. E forse è giusto, o comunque normale, così: che un uomo di rottura e di cambiamento radicale venga considerato allo stesso modo anche da morto, anche perché il manager italo-canadese non era certo il tipo che cercava l’approvazione e soprattutto l’unanimità dei consensi. C’è da dire però che gran parte delle accuse che gli venivano rivolte, quelle di aver distrutto i diritti dei lavoratori, di essere uno sfruttatore degli operai, di aver licenziato migliaia di dipendenti, di aver delocalizzato, erano ingenerose quando non completamente false. E però queste reazioni spiegano molto della psicologia italiana, della mancata consapevolezza dei problemi e del modo in cui il paese li affronta.

 

Se si dovesse fare una storia sintetica del manager, Marchionne è colui che senza soldi ha preso in mano un’azienda quasi morta, l’ha unita a un’altra già morta e ha trasformato la fusione in un gruppo che macina profitti, l’ottavo player automobilistico mondiale. Ma sarebbe riduttivo. Perché bisogna considerare che nel frattempo c’è stata una doppia crisi economica, la più grande recessione dal Dopoguerra, che ha colpito duramente un settore già in difficoltà strutturali come l’automotive. E, come se non bastasse, l’Italia, il paese dove la sua azienda produceva e vendeva gran parte delle vetture, ha subìto i colpi della crisi come nessun altro in Europa (Grecia a parte). Questo è il contesto in cui va giudicata l’azione di Marchionne. Quando prende in mano le redini del gruppo, la Fiat è messa così male che General Motors sborsa una cifra astronomica per non comprarsela: 1,55 miliardi di euro per uscire dal precedente accordo di acquisto obbligato. Il giorno di San Valentino del 2005 è il primo grande successo del Marchionne negoziatore, capace di utilizzare tutte le leve messe a disposizione dal contratto che gli aveva lasciato in dote Paolo Fresco.

 

Ma perché, rispetto a questi risultati incredibili, c’è tanta ostilità? Perché rispetto a un risanamento e un rilancio industriale miracolosi vengono evidenziati soprattutto i costi necessari della transizione? Come se fosse stato possibile ristrutturare un’azienda fallita senza costi e senza cambiamenti radicali? Perché in America, dove ha usufruito degli aiuti del governo di Obama (tutti ripagati) per rilevare Chrysler, Marchionne è visto unanimemente come un salvatore dell’industria automobilistica e in Italia come uno sfruttatore dei lavoratori?

 

Nella reazione di gran parte del mondo politico, sindacale, mediatico e imprenditoriale alle svolte radicali di Marchionne sulla contrattazione e sulla rottura degli equilibri consolidati c’è una reazione alla modernità. La scomparsa di Gianni Agnelli è stata accolta con molta più unità e condivisione. Sembra strano, ma una larga fetta del paese si trovava più a proprio agio con il vecchio “padrone” che con il moderno manager. Non è naturalmente una questione di stile, l’orologio sul polsino al posto del pullover nero, ma il rifiuto della realtà e il rimpianto per un passato che non può più ritornare. E’ la nostalgia per l’Italia chiusa, in cui i problemi industriali si risolvevano attraverso la concertazione all’interno del triangolo neocorporativo Confindustria-sindacato-governo, spesso scaricando i costi sulla collettività. C’è la non accettazione dei mercati aperti, della competizione internazionale tra aziende e paesi, della globalizzazione, che non è una scelta politica ma una condizione di fatto.

 

Sergio Marchionne ha sbattuto questa realtà in faccia al paese, ha rotto schemi consolidati, ha salvato la Fiat trasformandola in Fca, da azienda nazionale a gruppo multinazionale, e indicato a tutto il paese una strada riformista da percorrere per sopravvivere e adattarsi a un mondo diverso e più ostile. Una parte della società, della politica e del sindacato lo hanno seguito, ottenendo dei risultati. Ma gran parte del paese si è ripiegato su se stesso, preferendo la chiusura alla competizione, l’assistenzialismo alla produttività, il protezionismo alla competizione internazionale. “Ho l’impressione che nel nostro paese ci sia un atteggiamento passivo nei confronti del presente. – disse Marchionne nel 2012 in un discorso in Bocconi –. E’ come se si pretendesse il diritto a un domani migliore senza essere consapevoli che bisogna saperlo conquistare. Il’68, un movimento di lotta pienamente condivisibile che ci ha permesso di compiere enormi passi in avanti nelle conquiste sociali e civili, ha avuto purtroppo un effetto devastante nei confronti dell’atteggiamento verso il dovere. Oggi viviamo nell’epoca dei diritti: il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa, il diritto di urlare e a sfilare, il diritto a pretendere. Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”. Il modo migliore e più utile per ricordare Sergio Marchionne è tenere vivo il suo moderno messaggio di rottura.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali