Lo stabilimento di Mirafiori. Foto LaPresse

Marchionne non si è concesso a Torino, e Torino non si concede

Salvatore Merlo

Da Mirafiori al banco dei formaggi. Reportage da una città distratta

Torino. La città guarda davanti a sé con aria tra meditativa e svagata, come se non vedesse quel poco o quel tanto che le succede intorno. “E’ morto Sergio Marchionne. Era una brava persona”, dicono i negozianti della Crocetta, il quartiere della buona borghesia torinese, qui dove l’amministratore delegato di Fca aveva comprato una magnifica villa, la stessa che fu di Pininfarina, nella quale ormai da alcuni anni però non si fermava quasi mai, perché casa sua era la Svizzera, Zurigo, o forse il jet privato che lo portava in giro per il mondo, da Londra a Detroit, passando da Amsterdam, a cavallo tra i due continenti. “Era una brava persona”, dicono allora Mauro e Alice, al banco dei formaggi e dei salumi, al mercato, dove Marchionne andava a comprare la mortadella, come se si trattasse di un qualsiasi semivip o semicliente visto in televisione. Ed è un po’ lo stesso spirito, compunto ma come distratto, indifferente, apparentemente incapace di cogliere il senso di un fatto, di una morte che potrebbe anche determinare il destino industriale della città, è la medesima aria che si respira nei bar eleganti e semideserti del centro, da Baratti & Milano, da Fiorio, e poi su su, fino a Piazza Palazzo, la fastosa sede del comune amministrato da Chiara Appendino. Marchionne era l’uomo che comprò la Chrysler e salvò la Fiat per tutti, ma forse non per una gran parte dei torinesi, che al contrario ha identificato in lui la disincarnazione della città dalla sua azienda-stato, una specie di chiesa, una società perfetta, autonoma e misura di tutte le cose.

  

Sull’ampio balcone fregiato, sulla bianca facciata del Palazzo di Città, campeggia l’allegra pubblicità di quella che sembra una mostra di fumetti, e le quattro bandiere, quella italiana e quella europea, quella del Piemonte e quella di Torino, se ne stanno come afflosciate anche loro dal caldo umido d’una giornata apparentemente normale di fine luglio, ma sono issate fino alla sommità dell’asta. E infatti solo al Lingotto, mercoledì mattina, gli uscieri Fiat hanno abbassato a mezz’asta le bandiere dell’azienda, in segno di lutto. Ma che succede a Torino, nel resto della città? Sarà forse per via di quella forma mentale che si chiama torinesità, una forma estrema, talvolta surreale, eccessiva di riserbo, un atteggiamento dello spirito, un carattere, un modo di vedere e di fasciare sempre le cose con delicate sordine, prima ancora d’essere un dato geografico. Torino non è Roma, dove avrebbero sparso coriandoli e striscioni, tra trivio e caos, puntarelle, lacrime e friccichi de luna. Come dice Oddone di Camerana, il bisnipote del senatore Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat: “La torinesità è il sacerdote che celebrando un funerale parla del defunto dandogli del lei. E poi l’espressione più torinese di tutte, come ‘non disturbare’. Nelle sue infinite declinazioni, compreso ‘togliere il disturbo’. Per evitarlo, il disturbo, c’è gente che non saluta nemmeno per la strada”. E allora di Marchionne si parla, a Torino, certo. Ma nessuno lo celebra, e non solo perché non ci saranno funerali e camere ardenti, picchetti d’onore e lutti cittadini. Sergio Marchionne, morto in una clinica svizzera e per cause che non vengono divulgate, schivo e misterioso, sfugge anche nella sua ultima ora. “Dai tempi della fusione americana”, raccontano, non frequentava più, non lo si vedeva più, “neanche in quei ristoranti in collina in cui ogni tanto gli piaceva andare”. E così, qui e là, si scorgono persino accenni critici sulla figura dell’uomo che pure, con il matrimonio Chrysler, ha reso la Fiat il settimo produttore di automobili al mondo, salvando posti di lavoro, senza aver chiuso nemmeno un impianto. Ne parlano tanto di Marchionne, non si può negare. Ma sempre per scorci, allusioni, sottintesi, eufemismi, parabole. 

  

Il sindaco Appendino mette in fila quattro parole, che sembrano prese da wikipedia, tenute su con gli spilli d’una vertiginosa genericità: “Era un manager globale, tenace e carismatico, uno degli uomini che più hanno segnato la storia economica del nostro paese negli ultimi anni”. Riserbo, indifferenza o persino ostilità? “C’è una certa inconsapevolezza svagata”, dice Tom Dealessandri, che fu vicesindaco con Sergio Chiamparino ai tempi degli accordi con la Fiat, l’ex operaio e sindacalista metalmeccanico che con Marchionne giocava a scopone e mangiava spaghetti nel cucinino del Lingotto. “Questi ragazzotti che oggi amministrano il comune non sanno niente”, dice Dealessandri, in un soffio. “Non hanno memoria, non hanno prospettiva storica, non capiscono quello che succede. Possibile che non abbiano pensato di convocare un Consiglio comunale d’urgenza, per discutere di come rapportarsi adesso con Fca, per capire che intenzioni avrà adesso l’azienda nei confronti della città e dei suoi stabilimenti?”.

  

Marchionne non si è concesso a Torino, e Torino non si concede a Marchionne. Esattamente cinquantuno anni fa, ai primi d’agosto del 1967, in una Torino deserta e scolorita dal sole proprio come quella di oggi, sul grande viale di fronte all’ingresso principale della Mirafiori, una folla compatta si raccoglieva attorno alla bara del professor Vittorio Valletta, il manager che più di chiunque altro, assieme a Marchionne, ha segnato i destini, le glorie, le cadute e le rinascite della Fiat. La partecipazione fu numerosa quel giorno di agosto, malgrado la chiusura per ferie. E i torinesi più anziani, come Carlo De Benedetti, ricordano ancora adesso l’uscita di scena e poi la morte di Valletta come un fatto epocale, e come tale percepito anche da una città che s’identificava con la sua azienda automobilistica, la cui vita si legava a quella dei suoi dipendenti e cittadini. La ditta li seguiva sempre perché con le sue finanziarie era presente ovunque: quando il torinese faceva acquisti all’Upim o alla Rinascente, se correva sull’autostrada verso Milano, se beveva un vermut Cinzano o un marsala Florio, se leggeva un libro Bompiani o Sonzogno, se acquistava per i figli i testi scolastici Fabbri, se viaggiava in autobus con la Sita, se voleva assicurarsi con la Sai, e persino se gli serviva una clinica: Villa Roddolo. “Alla morte di Valletta Torino piombò in un lutto cupo”, ricorda allora De Benedetti, che non è solo un membro dell’aristocrazia borghese di Torino, ma è stato amministratore delegato della Fiat. “Valetta a Torino era un imperatore. Niente a che vedere con Marchionne, che è stato un manager internazionale. Valletta faceva il ragioniere contabile. Era leale, capace, inflessibile, opportunista, veloce, ma non viveva su un aereo. Non parlava le lingue”. E anche gli Agnelli, che pure sembravano cosmopoliti, in verità erano torinesi tra i torinesi, anzi erano torinesi Fiat tra i torinesi Fiat. Padroni di una grande azienda italiana che incarnava lo spirito del tempo di Torino, una città che aveva con la mega-ditta un rapporto identico a quello con casa Savoia, una città che oggi forse non esiste più, decentrata sulla carta geopolitica d’Italia eppure – se si guarda Google maps – ancora perfettamente al centro d’Europa: a 874 chilometri da Barcellona, 990 da Bruxelles, 943 da Dusseldorf, 779 da Parigi e 669 da Roma.

  

“La città si è trasformata con il Politecnico, il turismo, la cultura, gli investimenti tecnologici, le Olimpiadi”, ricorda Piero Fassino, che è stato sindaco sotto la Mole, dal 2011 al 2016. “L’industria continua a contare, è un pezzo della città, ancora importante ma non l’unico”. E De Benedetti: “In fondo non mi stupisce affatto che i funerali di Marchionne non si tengano a Torino”. Né allora forse deve stupire che la città si riveli distante, distratta, se non addirittura fredda. “Per Gianni Agnelli Torino era la Fiat, per Marchionne no”, sostiene Giuseppe Berta, il professore, ex direttore dell’Archivio storico Fiat. Anche se, come dice Dealessandri, lui che con Marchionne fece gli accordi per impedire la chiusura di Mirafiori, “a Torino le persone che hanno scienza e coscienza sanno benissimo che lui ha preso un gruppo tecnicamente fallito facendone un gruppo che oggi ha dignità internazionale. Morchio ci diceva: ‘Prima o poi Mirafiori deve chiudere’. Con Marchionne il ragionamento era: ‘Vediamo insieme come fare a tenerla aperta’. E se oggi anche i Cinque stelle al governo della città ragionassero così sarebbe meglio per tutti”.

  

Non solo riserbo dunque, ma freddezza e distanza, distacco. Quanto incide la Fiat-Chrysler nella vita dei torinesi? Poco, a quanto pare. E questo, spiegano, anche perché Marchionne, in quattordici anni di ristrutturazione e modernizzazione, ha sforbiciato la burocrazia aziendale, i quadri, cancellato quelle figure mitologiche della torinesità che quando entravano in Fiat era come se avessero vinto un terno al lotto, sistemati per la vita: far sposare alla figlia un quadro Fiat era il sogno di molte madri. Appena diventato capo del Lingotto, dopo la morte di Umberto Agnelli, il nuovo amministratore delegato, nato in Abruzzo ma cresciuto a Vancouver, modificò le catene di comando, dimezzò i livelli gerarchici da nove a cinque: metà dei dipendenti lavorava, e l’altra metà controllava quelli che lavoravano. Un assurdità, per lui inconcepibile. Oggi rimangono solo i primi, cioè gli operai, i metalmeccanici, che a quanto pare sono anche tra i pochi che a Torino portano il lutto e sembrano avvertire i segnali del destino, i rischi che la morte di Sergio Marchionne porta con sé.

  

E allora eccoli gli operai, ecco Mirafiori. Battezzandola con questo nome bucolico, gentile e promettente, il senatore Giovanni Agnelli non poteva immaginarsi che sarebbe stata il focolare più ardente della violenza operaia nel decennio degli Anni di piombo, che sarebbe cresciuta a dismisura, avrebbe conosciuto una crisi estetica e d’identità fino a essere rimodellata dalle abili mani di un manager italo canadese, introverso e diretto. I luoghi e le persone di cui troppo s’è sentito parlare, attorno ai quali si sono moltiplicati gli echi, i riflessi, le variazioni, le fantasie, appaiono sempre opachi e scheletrici, visti da vicino. E così è anche per Mirafiori, questa periferia che con lo sviluppo urbano ormai quasi non è più periferia: il vialone a scorrimento veloce, i cancelli, i blocchi, i caseggiati, i corrugati palazzoni della vecchia Torino operaia. Nella calura umida ristagna come una strana nebbietta invisibile, composita, pungente, straniera. L’odore dell’industria. “Con Marchionne la fabbrica è cambiata. Da officina grigia e sporca di olio per terra adesso è una cosa più pulita della cucina di casa mia”, dicono gli operai, quelli che ancora ricordano il pavimento di legno che c’era prima, “una specie di acciottolato”, adesso sostituito dalla resina plastica. “E’ tutto colorato”, scherzano, “mancano soltanto le cubiste”, esagerano coltivando il paradosso, poiché la fabbrica resta fabbrica e il lavoro è duro, specie in cassa integrazione a mille euro al mese o “anche meno”. E inevitabilmente, tra questi uomini che entrano ed escono, talvolta riuniti in nervosa accidia attorno ai cancelli, la sigaretta in bocca o dimenticata tra le dita ingiallite, finisce per riproporsi la questione del futuro e del che accadrà adesso. A due passi dallo stabilimento i delegati sindacali della Fim si riuniscono dopo il lavoro, discutono animatamente. La notizia della morte di Marchionne è arrivata in orario di fabbrica, mentre si lavorava, si è diffusa con il passaparola, tramite Facebook. Un operaio Maserati, Gaetano Inturri, racconta: “Noi l’abbiamo saputo dalla televisione, in sala mensa”. E un po’ anche questi uomini schietti, alcuni giovani, ma per lo più maturi – l’età media a Mirafiori è di cinquantasette anni, a Grugliasco poco meno – è forte l’impressione che la scomparsa dell’amministratore delegata di Fca, l’uomo del rilancio, sia un affare che in città riguarda quasi soltanto loro. “E’ molto semplice”, dice Marcello Gulisano, che è di Catania ma vive da vent’anni a Torino, e lavora all’Agap, la “Avvocato Giovanni Agnelli Plant”, a Grugliasco. “Torino ha più che dimezzato i dipendenti. Ci sono almeno diecimila famiglie in meno che contano su Fiat. Senza pensare all’enorme indotto che c’era una volta. Quando nel ’97 cominciai a lavorare io, tutti o quasi, lavoravano direttamente o indirettamente per Fiat. Adesso se tu chiedi a un ragazzo se per caso lavora, quello ti dice di no, perché la sera si sfascia di birra a Piazza Castello”.

  

E certo non sono tutti marchionnisti gli operai, né sono facili al sentimentalismo. Sono tosti, anche le donne, come Alexandra Martino, metalmeccanica della Maserati. E infatti quando gli si chiede se un operaio può amare un amministratore delegato, cioè quello che un tempo si sarebbe chiamato “un padrone”, allora questi uomini e donne solidi vengono colti da un sospensivo imbarazzo, poi sorridono. “Il manager non deve essere amato”, dice Marco Bardelle, anche lui operaio di Mirafiori carrozzeria, “il manager deve essere capace”, aggiunge. “E Marchionne era capace. Quindi era anche rispettato. Non ha chiuso gli stabilimenti. Ha rilanciato il prodotto. Ha azzerato il debito. C’è una corrispondenza tra gli interessi degli azionisti e quelli dei lavoratori”. Cosa pensano i metalmeccanici del fatto che non ci sia il lutto cittadino, che la scomparsa di Marchionne sia precipitata sulla distrazione di una Torino che non è più operaia e industriale, ma forse risentita? “Non sorprende affatto. Anzi. Ricordo quando Beppe Grillo veniva davanti ai cancelli di Mirafiori per farci votare No al referendum sindacale. Poi però stravinto dal Sì”, che ha permesso la salvezza dei posti di lavoro. “Oggi non ci sarebbe industria automobilistica a Torino”. Vinse Marchionne. “No, vinse la paura. E da quel giorno sono stati fatti sacrifici enormi”. Vinse un’idea di sviluppo e di modernità che forse, incredibilmente, in questa città amministrata dal partito che promette sussidi pubblici e redditi di cittadinanza per tutti, si è fermata agli stabilimenti Fca. E adesso? Adesso che succede? “Adesso il nuovo amministratore delegato deve continuare il disegno di Marchionne”, dice Giovanni Camporetto, uno dei più anziani tra i delegati sindacali dei metalmeccanici Fim a Mirafiori. Il nuovo amministratore delegato è inglese, si chiama Mike Manley. “E che importanza ha la nazionalità?”, dicono i metalmeccanici. Da una distanza siderale, invece, Carlo De Benedetti è colpito, perché misura tutto da una prospettiva storica e simbolica, lui che con Umberto Agnelli giocava a pallone da ragazzino. “A un torinese della mia generazione fa effetto che per la prima volta alla Fiat non ci sia un dirigente di alto livello che sia italiano”, dice. “Marchionne, per noi, era uno dei nostri, non un canadese”. Intanto la sera cala su Torino, comincia a piovere, e non sono lacrime. Le bandiere sulla facciata del comune sono ancora lì, issate, e adesso un po’ zuppe. Sergio Marchionne è morto giovedì, ma nella città della Fiat questo è un giorno come gli altri, anche se la Juventus, che è la stella e il lustro della città, forse ha potuto acquistare Cristiano Ronaldo, che è la stella e il lustro della Juventus, soltanto perché un manager poco amato e poco compreso ha salvato la Fiat e acquistato quel marchio Jeep che oggi è come un trofeo sfavillante sulle maglie dei campioni d’Italia.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.