Pomigliano d'Arco (NA). Sergio Marchionne alla presentazione della nuova Fiat Panda (LaPresse)

L'oscena borghesia accanto a Marchionne

Giuliano Ferrara

I capitani non coraggiosi fanno a gara nell’apologia di Marchionne dopo averlo lasciato solo nelle sfide decisive. Come nasce e cos’è l’isolamento scandaloso di un establishment italiano condannato al consociativismo

C’è qualcosa di penoso nel chiacchiericcio da capezzale su Sergio Marchionne, e non si limita alla pena di chiunque per chiunque sia in una situazione clinica disperata, che dovrebbe essere una partecipazione presupposta al dolore comune di vivere e morire. C’è qualcosa di inautentico, di sghembo e di malamente paradossale. Sembra che la divisione, fatta anche di parole aspre e irrituali in casi come questi, passi per i confini tradizionali della lotta di classe secondo la sua impostazione dei due secoli trascorsi, l’Ottocento e il Novecento: l’interesse degli azionisti da una parte, l’interesse dei lavoratori dall’altra.

 

Improvvisamente del capo Fiat che ha salvato la ditta e l’ha rilanciata come poteva, stupendo tutti per l’efficacia nella salvaguardia di lavoro e tecnica e capitali, si dice nulla se non cose buone, nihil nisi bonum. E’ la tendenza apologetica, forte nelle tribune della buona borghesia (e a più giusto titolo nei campioni dell’economia liberale, dei mercati aperti e del riformismo industriale e finanziario). Dall’altra parte la tendenza critica, con punte di esacerbato rancore sociale. Qui l’infermo che non può tornare è raccontato come campione di un azionista che sarebbe il solo beneficiario, e finanziario per di più, della sua pretesa rivoluzione industriale, mentre lavoratori e patria della Fiat vengono traditi nei diritti e nella italianità dell’impresa ormai ricollocata a Detroit e altrove.

  

Qui, in questo rinfocolamento polemico su linee inesistenti, Sergio Marchionne c’entra poco, se non per il fatto ovvio che è stato un manager designato da azionisti verso i quali era intanto il primo responsabile, e non un capo sindacale, sebbene sia da vedersi quanto di meglio avrebbero fatto i cultori del corporativismo sindacale nell’operazione di salvezza di un’azienda automobilistica fallita. Gli azionisti nel capitalismo designano i manager, li ingaggiano, li pagano e ascoltano i loro rendiconti su debiti e produzione e piani di azione industriale dopo aver affidato loro il potere di direzione sull’azienda che posseggono. Nel sistema del Gosplan questo ruolo è rivestito dallo stato, dal partito, e l’assetto socialdemocratico e liberale del capitalismo contemporaneo ha avuto una storia di successo, in mezzo a mille traversie e ingiustizie, perché è evidentemente migliore, più idoneo a produrre ricchezza e a distribuirla, più capace di organizzare lavoro e tecnica. Nella loro originalità che non è però un modello di organizzazione sociale da copiare, immagino, i cinesi, perfino i cinesi, ormai fanno così.

   

Marchionne ha salvato lavoro e impresa, non ha espropriato i lavoratori dei loro diritti, ha ridimensionato semmai il peso del vecchio sindacalismo di classe nel suo modello di rapporti industriali tra operai, impiegati, personale specializzato e piramide gerarchica della fabbrica capitalistica, innovando anche le procedure di mercato che dopo di lui si distendono nell’orizzonte mondiale e non nell’orto asfittico di casa. Questo non è contestabile. Parlare in modo petulante del Marchionne cattivo e nemico del lavoro o elogiarlo ex post come manager bravo, e far finta che l’osso del problema sia lì, è solo un modo per evadere la vera faccenda che l’avventura di Marchionne implica, è solo una perdita abusiva di tempo. Airaudo o Rossi o Bertinotti avranno sempre da dire la loro, secondo il loro schema o visione, e gli ardenti elogi all’ex ad Fiat e creatore di Fca da parte dei capitalisti vecchi e nuovi, e dei loro giornali e giornalisti, potranno rispolverare i toni dell’apologia a buon diritto, ma questo non cambia le cose.

 

Marchionne non è stato né un eroe del capitale né un diabolico antagonista dei diritti del lavoro. E’ stato un uomo solo al comando, e sottolineo “solo”, uno che nel momento importante, quando si dovevano decidere le sorti della sua azienda, che è tanta parte del patrimonio generale dell’Italia ed è diventata un colosso internazionale (quanto resistente lo si vedrà dopo di lui), ha agito nel più splendido isolamento sociale, culturale, civile e politico. Lo stato italiano non è riuscito a fermarlo, a intralciare vittoriosamente i suoi piani, anche perché il manager è riuscito a districarsi nelle pieghe del potere mondiale, in tempi di crisi, con l’operazione sponsorizzata indirettamente da General Motors, con il famoso put, e sull’indebolimento dello stato nazionale corporativo è prevalsa la logica del piano concertato con Obama, ansioso di salvare un pezzo di Detroit. Solo perciò non hanno avuto risultati gli appelli all’italianità dell’impresa, questo ultimo rifugio delle canaglie (esattamente come il patriottismo secondo il Dottor Johnson), e ha avuto invece corso la ristrutturazione delle fabbriche italiane, niente di perfetto, ovviamente, ma del tutto necessaria.  Il valico efficace dei confini è riuscito perché la Fiat con Marchionne ha smesso di farsi allattare alla mammella del pubblico, tra l’altro.

  

Ora, per dirla tutta, è sempre stato incredibilmente chiaro, a parte le eulogie di questo momento, inevitabili e spesso ipocrite, che i capitani non coraggiosi del capitalismo italiano, i tenutari di vecchie guarentigie, non vedevano di buon occhio un manager che funzionava da outsider e che nella riorganizzazione aziendale e nel rapporto con i sindacati dei lavoratori utilizzava metodi modernizzanti diversi da quelli consueti. E’ per questo che Marchionne fu campione di una società aperta così diversa dalla società consociativa e malmostosa maturata in decenni di concertazione centralizzata e di politiche illusorie, fino alla sua clamorosa uscita da Confindustria, intesa come una gabbia vecchiotta e disutile di cattive abitudini. Ma oggi tutti quelli di quella parte, mentre gli Airaudo e gli altri esercitano come possono il loro mestiere ripetitivo di araldi del conflitto sociale vecchio tipo, fanno a gara nell’apologia dello stesso che, al momento importante della sua parabola, li aveva rimessi al loro posto di arcigni conservatori. Ricordo una campagna del Foglio per denunciare lo scandalo dell’isolamento del riformista capitalista Marchionne, fatta con gli argomenti giusti al momento giusto, e caduta in un clima di comprensibile imbarazzo e di silenzio dell’establishment più timoroso e timorato d’Europa. E questa è la parte di verità che dobbiamo a chi ci legga.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.