La protesta dei lavoratori Atac in Aula Giulio Cesare (Foto LaPresse)

Un giorno da Raggi

Salvatore Merlo

Frizzi, lazzi, pernacchie e “famo presto che gioca la Roma”. Così in comune si discute dei trasporti al collasso

Roma. Al quarantesimo minuto di frizzi e lazzi, con i Cinque stelle che si contorcono intorno al problema di dove far sedere la consigliera Cristina Grancio, espulsa, riammessa e poi riespulsa dal Movimento – “non ti puoi sedere al posto che era della Raggi”, le dicono. “E’ come la maglia numero 10 di Totti. Non si tocca” – Giorgia Meloni, che è anche consigliere comunale, si rivolge a Roberto Giachetti, che è stato il candidato sindaco del Pd: “A Robbé”, dice, spalancando gli occhioni, “questi grillini so’ matti. Il governo ce lo farai te”.

 

D’altra parte l’affaire dello scranno provoca bellicosità mascellari, vene gonfie, pugni sul tavolo. “L’opposizione protesta perché di poltrone se ne intende”, irride il capogruppo del M5s, Paolo Ferrara, in un contesto via via sempre più paradossale, visto che il Consiglio comunale di Roma era convocato “d’urgenza” per discutere dell’Atac, l’azienda dei trasporti che è sull’orlo del fallimento, con i suoi dodicimila dipendenti e un miliardo di debiti. A un certo punto due anziani con guida Touring provano a passare tra gli scranni, vogliono guardare da vicino la statua di Giulio Cesare, “veniamo da Brescia. Ma perché urlano tanto?”. Sembra un racconto di Flaiano, o forse è un film di Alberto Sordi. “Fatece n’altarino al posto d’aaa Raggi”. Fischi, pernacchie e tempi contingentati: “Stasera gioca la Roma”.

 

Il tribunale fallimentare ha depositato dei rilievi molto critici sul piano di concordato presentato dal comune, per evitare il fallimento di Atac. Un referendum per la messa a gara del servizio pubblico, promosso dai Radicali, incombe sull’azienda disfunzionale. E l’imperscrutabile andamento degli autobus – passano, non passano, arrivano a coppie come i carabinieri, vanno a fuoco come i fiammiferi o spariscono a lungo come talpe in letargo – è pena concreta e insieme perfetta metafora della condizione in cui si trova l’azienda. “Ma oggi dov’è il sindaco? Dov’è l’amministratore delegato di Atac? Dov’è l’assessore al Bilancio Lemmetti?”, si chiede Davide Bordoni, l’unico consigliere di Forza Italia al comune di Roma. In effetti sugli scranni della giunta c’è, vittima sacrificale, la sola assessore ai Trasporti, Linda Meleo, che piegata sul microfono, con tono compassato e istituzionale, scandisce: “L’azienda fino a oggi ha galleggiato. Questa amministrazione ha voluto intraprendere iniziative…”. Ma la signora Meleo non fa in tempo a finire la frase, che dal pubblico si solleva un grido: “Nun se sente”. Risate. Ah, il romanesimo!, sospirava Alberto Arbasino su Roma capoccia, che è definizione ben più calzante ed esatta di romanesco, perché è qualcosa d’incarnato, definito, e probabilmente incurabile. Così al consigliere Pietro Calabrese, del M5s, si chiede che ne pensa di quello che succede. “Sono contento che ci siamo tenuti il posto della Raggi”, risponde. No, dico di Atac. “Ah… Ho fatto un post. Leggitelo”.

 

In un angolo, ai piedi dell’antica statua di Augusto, mentre l’Aula si riempie di dipendenti dall’aria bellicosa, Claudio De Francesco, capo della più importante sigla del sindacato autonomo, parla al cellulare. Si lamenta degli altri sindacati. “Aho”, dice. “Se so’ venduti per du’ carammelle a ’sti zozzoni”. Poi chiude il telefono. “Mo’ guardate che faccio”, sorride. “Scavalco e me metto al posto der sindaco”, ammicca. “Ma che posso di’? Forse posso di’ che se è capace ’a Raggi de fa ’a sindaca, allora so’ capace pur’io”. I vigili, intanto, forse intuiscono. C’è come un gioco di sguardi, scatta un muto allarme implicito. D’altra parte l’Aula viene occupata di continuo da qualche gruppo sindacale delle mille aziende municipalizzate della capitale. I vigili ci sono abituati. E’ un sistema ingegnoso di democrazia del caos. Così i pizzardoni cominciano a blindare la zona che separa gli scranni dallo spazio riservato al pubblico. Ma – zac! – De Francesco approfitta di un varco, scatta come Usain Bolt, salta le paretine in plexiglass, e si va a sedere al posto del sindaco Raggi, proprio sotto il presidente del Consiglio comunale, Marcello De Vito, che per l’occasione indossa un completo “blu Atac”. Allarga le braccia, De Francesco, e sembra quasi il Papa: “Salviamo Atac”, “Atac libera”, “vergogna”. E allora i dipendenti anche loro urlano tutti, spuntano dei cartelli, e nessuno capisce più niente. Il sindacalista viene portato via dai poliziotti. “Stiamo cercando di evitare che venga denunciato”, dice Maurizio Politi, giovane consigliere di Fratelli d’Italia. De Vito sospende la seduta, e va a perorare anche lui la causa del suo contestatore sindacalista.

 

E poiché a Roma la ritualità non è confligente ma semmai confluente, pur negli strepiti, ecco la commedia, ecco che uno dei dipendenti Atac che urlava più di tutti si avvicina all’assessore Meleo. Adesso le parla con sussiego, e tono carezzevole: “Assesso’ noi dobbiamo radicalizza’ il No al referendum per la messa a gara del servizio”. Noi. “Noi” e “voi”. Insieme. E alla fine non si capisce nemmeno bene la ragione della protesta. Non si sa chi è contro chi, e perché. Il Movimento è contrario al referendum. Il centrodestra pure. Il Pd si è diviso, perché, come racconta un consigliere, anonimo per prudenza, “metà degli iscritti alla mailing list del Pd Roma ha indirizzi di posta elettronica che finiscono con il dominio ‘Atac.it’. Capito, no?”. Fuori dall’Aula Giulio Cesare, i turisti sono in gita su Piazza del Campidoglio. Loro però, fortunati, se ne andranno a casa su un pullman granturismo. Che non è dell’Atac.

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