L'autobus in fiamme su via del Tritone. Foto Piero Vietti

Roma o Caracas?

Salvatore Merlo

Autobus flambé, buche assassine, legge della foresta. Un safari nella città di Raggi e Casamonica

Roma. Roma come Caracas comincia in via del Tritone, poco prima delle 10 e 30. Si sente un’esplosione, un autobus va a fuoco lasciando un’ala di fuliggine alta quanto tutto il palazzo della Rinascente. Ma nessuno pensa al terrorismo, i commercianti si affacciano per strada, scuotono la testa: “Eccone n’artro”, dicono in romanesco bonario. Il nono da inizio anno, più di due al mese. Qualche ora dopo un secondo autobus in servizio s’incendia all’Infernetto, disegnando così una mappa di Roma-Caracas che tra monnezza, incuria, disservizi pubblici, si estende dal centro storico a via Ostiense, lì dove martedì è morta Elena Aubry, sbalzata in scooter a ventisei anni da una delle troppe buche stradali, un reticolo dell’abbandono che finisce qua alla Romanina, periferia sud est, dove lunedì notte sono stati arrestati quattro balordi del clan Casamonica: avevano pestato due persone, un’avventrice e un barista, perché non gli era stato consentito di saltare la fila alla cassa del bar Roxy in via Barzilai, un budello stradale ingolfato di traffico e sporcizia.

  

“Qui gli autobus non prendono fuoco solo perché non passano proprio”, dice la signora Anna, che deve andare a Porta Maggiore e allora aspetta il 47 alla fermata di via Ponte delle sette miglia, una tabe architettonica che incombe su quelle che in un tempo ormai senza memoria dovevano essere paludi intorno alla capitale d’Italia, una stratificazione di abusi edilizi che hanno trovato una loro cupa logica urbanistica, “ci metto un’ora a raggiungere il centro, se non c’è troppo traffico”, dice Anna, come arresa a qualsiasi soperchieria, quella dei criminali e quella dell’Atac, l’azienda dei trasporti. E’ il territorio dei Casamonica, questo. La Romanina. E’ uno dei luoghi simbolici di Roma-Caracas. Qui la gran voga è la villa, o il villino torvo, con agghiaccianti merletti di cemento, telecamere a circuito chiuso, alte palizzate, muri di mattoni o di lamiera. Sono le fortezze della famiglia criminale Casamonica, tra kitsch e squallore spietato. I miasmi delle immondizie accatastate a un angolo di strada, dentro, di lato e davanti ai cassonetti putrescenti assalgono le narici come punte d’uncinetto; le sirene dell’ambulanza ti trafiggono, e poi i clacson, il camion dell’Ama che caracolla con l’immondizia al vento… Ogni cosa spinge a scivolare, ad affogare nell’indistinto fiume di polvere umana, ma la gente nonostante tutto afferma la propria vitalità: “Ieri è pure venuta ’a Raggi”, ridono. La sindaca di Roma-Caracas.

  

“Ma il guasto più pesante non è l’assenza dello stato”, dice Paolo Berdini, l’urbanista, l’allievo di Italo Insolera, l’ex assessore di Virginia Raggi. “Il problema è che mancano i requisiti minimi che in una città o in quartiere rendono possibile la convivenza civile: strade, trasporti, luoghi di aggregazione, manutenzione pubblica. Alla Romanina non esiste un liceo, non c’è una vera piazza, non c’è l’oratorio, le strade sono dissestate, gli autobus non passano. E i parchi sono depositi di siringhe che nessuno pulisce. Quando ero assessore lo feci notare, volevo dei fondi per fare qualcosa. Ma mi dicevano che il servizio giardini non riesce a manutenere nemmeno Villa Borghese, figurarsi i parchi della periferia. Certo che poi queste diventano zone di delinquenza. Come potrebbe essere altrimenti?”.

  

Su via Barzilai, dov’è avvenuta l’aggressione del bar Roxy, intorno a via Ponte delle Sette miglia, tra le palazzine e le villette che sembrano dei castellucci fortificati, tra l’asfalto decrepito e in alcuni tratti quasi polverizzato, s’incontrano uomini e donne di un’umanità straziata: il vecchietto sdentato con l’orecchino, che passa la giornata al bar e beve dai bicchieri altrui i rimasugli di birra lasciati dai clienti. E la giovane immigrata moldava, Elena, che con le unghie lunghe e smaltate ha l’aria tutto sommato soddisfatta, fa le pulizie in una casa di Cinecittà, “prendo dieci euro l’ora”. In nero. Per lei la Romanina, con il suo opprimente centro commerciale i cui paraggi sono infrequentabili nelle ore notturne, è un caso di paradiso conseguito, o perlomeno d’inferno esorcizzato: “A Chisinau da dove vengo io sono rimasti solo gli uomini a bere o a drogarsi con la colla”.

  


Il Roxy Bar nel quartiere Romanina, a Roma, dove è avvenuta l'aggressione da parte di quattro componenti della famiglia Casamonica. Foto LaPresse  


  

Qui la Tuscolana diventa una grigia stradona che s’irradia in un alveare di altre stradine, più strette, ma non meno trafficate, tanto che ci sono anziani affacciati alle finestre, e giovani stravaccati sui loro motorini, che sembrano trascorrere il giorno a contare le macchine di passaggio. Molto di rado scorrono trenta secondi di silenzio. E allora, disperatamente, ci si accorge fino a qual punto il silenzio è dolce. Ma tutto comunica incuria, banalissimo degrado, schizofrenia architettonica. “Questa è la Roma abusiva del primo Dopoguerra, la Roma dell’immigrazione di massa, dell’inurbamento a tappe forzate”, dice Berdini. “Qui tutto andrebbe rifatto, ripensato, ripulito. Paghiamo una dissennata mancanza d’intelligenza dei tempi passati, ma paghiamo anche un’evidente incapacità amministrativa nel presente. Non ci sono più soldi? Ma così la città muore!”. O meglio diventa Caracas, con rispetto parlando (per Caracas).

  

Sono le 13 e 37. Di fronte al McDonald’s di via Bernardino Alimena un ragazzo dai capelli corti e ciuffo protervo guarda il cellulare, tiene la lingua tra i denti. Come un confetto. “Ahò, anvedi”, dice, mentre scorrono le immagini dell’aggressione che accompagnano la notizia degli arresti. “Ahò, anvedi”, dice, mentre l’energumeno si toglie la cinta, frusta una donnina piccola piccola, poi la getta a terra, l’afferra per il collo, le dà un calcio. “Ahò, anvedi”, è il commento della grande città di Virgilio e De Sica, di Trilussa e di Sorrentino, il commento del ragazzo in tuta Adidas che tutto assorbe, con ottusa indifferenza.

  

La donnina aggredita si chiama invece Simona, abita a cento passi dalle case dei suoi aggressori, e ha un coraggio inversamente proporzionale alle sue minute dimensioni fisiche. “Mi dicevano ti ammazzo”, sibila, sgranando gli occhi. E mentre Simona parla, si ha la sensazione di sentire un racconto noir, una storia da film, si prova cioè la sensazione di una separazione tra i fatti e le parole. E dev’essere per questo che tutto, qui alla Romanina, è esploso solo quando sono arrivati i giornalisti, e dunque le immagini, anche quelle dell’aggressione, che hanno fatto il giro di internet.

   

Si è mobilitato il ministro dell’Interno, Marco Minniti, addirittura. Sono arrivati quelli del Pd, i consiglieri del M5s, la sindaca Raggi in gran pompa, tutti con l’atteggiamento da Guida del Touring Club: “Per il viaggio nella savana si raccomandano casco di sughero con larga visiera, scarpe alte, meglio se con gambale…”. Parole flosce, oziose, uguali e mortificanti. Poi tutti bevono “un caffè della legalità” e se ne tornano a casa, in via Panisperna o a Trastevere, alla borgata Ottavia, lontano da questi edifici che si moltiplicano, bassi e meschini, lontano dallo squallore perfezionistico della Romanina. E infatti l’arresto dei quattro balordi si è consumato soltanto l’altra notte, un mese dopo i fatti di violenza, con un blitz spettacolare, un’irruzione ripresa dalle telecamere di “Nemo”, la trasmissione di Raidue. Un circo. Un poliziesco. Una docu-fiction. E tutto è avvenuto soltanto dopo degli articoli di giornale. Dunque prima l’assenza e la distrazione, poi lo spettacolo: un’improvvisa reazione, della città, dello stato, tanto sporadica quanto muscolare. “Ma davvero si dovevano aspettare i giornalisti?”, dice Roxana, la bella moglie di Roman, il barista pestato dai Casamonica (“c’erano schizzi di sangue pure sul vetro della porta”). E se non ci fossero stati i giornali? E le immagini? E quei cronisti che Beppe Grillo e il M5s considerano nemici dell’umanità, traditori del popolo e parassiti della società? “E chi lo sa che sarebbe successo”, risponde Simona, con il suo viso stanco e gentile.

  

  

“Senza strade che non siano un colabrodo, senza servizi efficienti, che altro destino può avere un luogo come la Romanina?”, dice l’architetto Berdini. Così alla fine su questo processo ai quattro picchiatori, quando si farà, se si farà, non potranno che aleggiare – immedesimandosi e cozzandoci contro – l’immagine degli autobus stracarichi e puzzolenti che esplodono per la strada, l’asfalto bucato che uccide i motociclisti, i parchi pubblici trasformati in selve infrequentabili o in sozze pattumiere. Tutti fatti politici e giudiziari, evidenze urbanistiche, guasti di manutenzione, che trovano unità nella complessità disarmante di Roma, una città in cui si consuma il falò dell’abbandono amministrativo e del degrado urbano, che diventa legge della foresta, barbarie, violenza. Roma-Caracas, con rispetto parlando (per Caracas).

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.