L’ultima assemblea, alla Scala, di Assolombarda: già prima delle elezioni il suo presidente, Carlo Bonomi, si era detto rassicurato dall’incontro con Luigi Di Maio (foto LaPresse)

M5s e il coro dei convertiti

Stefano Cingolani

Rassicurare, traghettare, addomesticare. Queste le parole d’ordine dell’establishment verso i vincitori

Nella primavera del 2001, anno settimo della Seconda Repubblica, tutti i sondaggi indicavano Silvio Berlusconi come sicuro vincitore delle elezioni parlamentari, dopo una intera legislatura di centro-sinistra all’ombra dell’Ulivo prodiano. Gli ultimi due brevi esecutivi, guidati da Massimo D’Alema e dell’inaffondabile Giuliano Amato, non avevano dato gran prova di sé. D’Alema, sconfitto alle elezioni regionali del 16 aprile 2000 si era dimesso dopo 552 giorni a palazzo Chigi divisi in due diversi gabinetti. Ad Amato non restava che gestire una sinistra in libera uscita. Contro Berlusconi si schiera gran parte della stampa straniera con poche eccezioni americane, come il Time magazine. Quando poi l’Economist bolla il Cavaliere come unfit, inadeguato a guidare l’Italia, a Gianni Agnelli, detto l’Avvocato, salta la mosca al naso. Educato nella tradizione anglo-sabauda più volte aveva sottolineato di sentirsi italianissimo nonostante il suo cosmopolitismo; “Right or wrong, my country”, ripeteva rotolando le r. Così, approfitta della prima occasione pubblica (l’inaugurazione dello stabilimento Skf nel feudo Agnelli di Villar Perosa) per lanciare urbi et orbi il monito: “Non siamo una repubblica delle banane”.

 

Capitalisti e funzionari del capitale, aborriti dai grillini, fanno già la fila nell’anticamera del movimento. “Non fa paura”

L’episodio non può non essere venuto in mente a Sergio Marchionne che allora era in Svizzera, ma già nell’universo Fiat, quando martedì scorso al salone dell’auto di Ginevra ha esternato il suo messaggio di fiducia sia pur con un tono ben più sbrigativo: “Il paese ce la farà e troverà il modo di andare avanti. Salvini e Di Maio non li conosco, ma non mi spaventano. Paura del M5s? Ne abbiamo passate di peggio”. Prima rassicurare, soprattutto i mercati esteri e le cancellerie straniere, poi addomesticare e traghettare. Verso dove? I manager e gli industriali che parlano inglese lo chiamano take-over, cioè rilevare, assorbire, prendere il comando e ci hanno provato tante volte nella storia. Oggi il take-over meno arduo è quello nei confronti dei pentastellati che, secondo le ultime elucubrazioni teoriche di Beppe Grillo, si adattano a tutto, assecondando la teoria evolutiva secondo la quale nella lotta per la sopravvivenza non vince il più forte, ma il più adattabile.

 

Alla selezione naturale deve aver pensato senza dubbio Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, il quale proviene dalla Campania infelix che ha reso felicissimo Luigi Di Maio tanto da farlo salire sul predellino: “I Cinque stelle non fanno paura, valutiamo i provvedimenti, stiamo parlando di partiti democratici”. La sua preoccupazione è che non venga stracciata la legge Fornero (come vorrebbe fare invece Matteo Salvini) e non sia affossata Industria 4.0, cioè quel pacchettone di incentivi ideato da Carlo Calenda. Una verifica sui contenuti, del resto, era già avvenuta all’Assolombarda prima delle elezioni. Il presidente Carlo Bonomi si era detto rassicurato dall’incontro con Di Maio anche se, aveva ammesso, “restano alcune differenze” sui programmi. Alcune è un eufemismo, fatto sta che la più importante organizzazione confindustriale ha sdoganato i pentastellati.

 

Capitalisti e funzionari del capitale, aborriti dai grillini, fanno già la fila nell’anticamera del movimento. Luigi Scordamaglia, capo azienda della Cremonini e presidente della Federalimentare, plaude alla “chiara volontà di abbattere il mostro burocratico” da parte di Salvini e Di Maio. Alessandro Laterza, barese, presidente della storica casa editrice, si sbilancia: “Quando una forza politica prende il 32 per cento non puoi liquidarla come un fenomeno temporaneo”. A Gianfilippo Mancini di Sorgenia piace la decarbonizzazione, Bruno Mattucci di Nissan Italia ha visto tra le Cinque stelle addirittura “un vero piano industriale”. Piero Mastroberardino, produttore campano di vino che il M5s avrebbe voluto candidare, parla di “populismo sano”. Insomma, si coglie fior da fiore.

 

“Tutti sul carro del vincitore prima ancora che questo abbia cominciato a muoversi”, ha detto Luca Cordero di Montezemolo manifestando (e perché mai poi) sorpresa. Certo, il coro dei convertiti sale con crescendo rossiniano. Confindustriali, capi aziende, banchieri e patron forse si rendono conto che, mentre la prima ondata ha colpito la politica, la seconda potrà investire proprio loro. L’unica figura pubblica di alto livello ad aver detto che bisogna aumentare i salari è stato Draghi. Ma sembra chiaro che l’instabilità politica in Italia darà alimento a una nuova conflittualità sociale, per lo più non controllata dai sindacati confederali.

 

Molti hanno preparato la palingenesi populista abbassando anzitempo le dighe che ostacolavano l’onda lunga. Senza evocare la Casta o la sistematica demolizione delle istituzioni rappresentative e della “politica”, alla quale si era dedicato Cesare Romiti in periodi e fasi diverse della sua brillante carriera (oggi, a 94 anni, contempla le Cinque stelle), è emerso con chiarezza il ruolo di Urbano Cairo e del suo gruppo editoriale. Ante marcia può essere definita La7, che ha aperto gli schermi ai Cinque stelle in modo così smaccato da aver imbarazzato talvolta persino Lilli Gruber. Ma il sostegno senza dubbio più consistente e sofisticato è venuto dal Corriere della Sera. Cairo è un abile uomo d’affari e anche lui ragiona in termini di scambio. Da tempo spera che La7 venga considerata servizio pubblico e come tale possa accedere al canone televisivo. Ma sarebbe riduttivo nei confronti dell’uomo e dell’editore se tutto si risolvesse con qualche prebenda. No, il vero premio è la centralità politica del primo quotidiano italiano perché, nonostante i deliri casaleggesi, l’agenda politica in Italia è ancora scritta su carta stampata.

 

Maiolini, Igea Banca: “Oggi di liquidità ce n’è persino troppa, il problema è che non si trasforma in investimenti e in imprese”

E la Repubblica, che guarda a sinistra? Ha contribuito alla sconfitta di Matteo Renzi sulla riforma costituzionale e ora è attraversata dal dilemma esistenziale del Pd: ritrarsi sdegnoso a difesa dei propri valori, seguendo l’invito di Ezio Mauro che conosce bene la storia del movimento operaio, comunista e post, oppure puntare all’aggancio, come auspica Eugenio Scalfari addirittura entusiasta per quella che chiama “la nuova sinistra”. Il direttore Mario Calabresi scrive su “l’inganno dell’alleanza”. Aspettiamo la prossima esternazione di Carlo De Benedetti.

 

Dopo aver sperato in Carlo Cottarelli, Di Maio sta cercando altri super tecnici da ingaggiare. Vinte le elezioni, si scopre che la sua “squadra di governo” non è poi così formidabile. Eppure sono stati in molti a scavare il terreno per la “rivoluzione populista” (copyright Steve Bannon). Esponenti dell’establishment hanno spezzato le loro lance contro l’establishment, magari accovacciati in alcune istituzioni pubbliche che hanno un ruolo importante nell’economia, come l’Antitrust e la Consob (i due principali guardiani del mercato). Il capo ufficio studi della commissione di controllo sulla Borsa, Giovanni Siciliano, ha pubblicato un libro dal titolo eloquente: “Vivere e morire di euro, come uscirne quasi indenni”. L’economista e blogger Marcello Minenna ha accettato un ruolo politico (assessore di Virginia Raggi a Roma) per poi tornare alla Consob dopo la beve e infelice esperienza. Michele Ainis, costituzionalista di chiara fama mediatica, ha contribuito alla battaglia contro la riforma costituzionale dalle colonne della Repubblica, nonostante sia membro dell’Autorità sulla concorrenza alla quale fa capo il giudizio sulla fusione tra la Repubblica e la Stampa.

 

Rassicurare, traghettare, addomesticare. Non si sottraggono nemmeno i banchieri, sia pure con maggior pudore ed eleganza. Claudio Messina, il consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, ha dato il suo contributo alla strategia rassicurante sulle sorti dell’Italia con un’intervista al giornale tedesco Handelsblatt, prima delle elezioni. E il francese Jean-Pierre Mustier, capo operativo di Unicredit, ai microfoni dei giornalisti ha garantito che il sistema bancario italiano oggi è più solido, quindi non ci sono rischi di tempeste finanziarie, qualunque siano gli sviluppi politici post-elettorali.

 

Ante marcia può essere definita La7, ma il sostegno senza dubbio più consistente e sofisticato è venuto dal Corriere della Sera

Tra inquietudine e riallineamento vivono i manager pubblici. In fibrillazione i vertici della Rai, a cominciare dal direttore generale insediato da Renzi. Meglio per lui se non c’è un chiaro vincitore, far rotta sul M5s o sulla Lega sarà difficile anche per un lupo di mare come Mario Orfeo. All’Eni hanno tutti letto e sottolineato la lunga parte del programma pentastellato che chiede al gruppo multinazionale di “tornare in Italia”. Alla ex Finmeccanica (ora Leonardo) non va giù l’isolazionismo pacifista dei grillini, e certo non si può dire allineato con i vincitori il capo azienda Alessandro Profumo, banchiere vicino alla sinistra. E le telecomunicazioni? Di Maio promette grandi investimenti pubblici e vede nella Cassa depositi e prestiti il nuovo Iri, solo che è guidato da Claudio Costamagna e Fabio Gallia insediati da Renzi. 

 

Il traghetto a cinque stelle ha ingaggiato nel Mezzogiorno i suoi principali nocchieri. Roberto Saviano cavalca, ça va sans dire, la rabbia del “sud abbandonato”. Ma è stato davvero abbandonato l’ex regno delle Due Sicilie? Giampaolo Galli ricorda che in Banca d’Italia, negli anni Novanta, fecero uno studio sui trasferimenti pubblici. Dal Dopoguerra la spesa, nazionale e locale, nel sud, era superiore alle entrate fiscali, mentre nel centro-nord accadeva il contrario. Dunque, il debito pubblico dell’Italia poteva essere attribuito interamente al sud, mentre il nord aveva contribuito a ridurlo. Adesso la spesa pubblica destinata al mezzogiorno è inferiore alla quota della popolazione e la pressione fiscale si è allineata (anche per le addizionali regionali).

 

Secondo l’ultimo rapporto Svimez, il trasferimento (oggi detto residuo fiscale) per il periodo 2012-2014 è stato pari a oltre 50 miliardi l’anno, in calo rispetto ai 55 miliardi all’inizio del nuovo secolo. La spesa pro-capite è pari a 11,5 miliardi di euro al sud e 13,6 miliardi nel resto del paese. Se si attuassero davvero i costi standard come vuole la Lega, la spesa pubblica al mezzogiorno dovrebbe aumentare, non diminuire. Il problema principale, però, non riguarda tanto la quantità di risorse, sottolinea Francesco Maiolini, direttore di Igea Banca. Oggi di liquidità ce n’è persino troppa, il problema è che non si trasforma in investimenti e in imprese. L’ultimo intervento che ha creato lavoro e sviluppo, a suo avviso, è stato la legge 488 sui contributi alle imprese, che risale al 1992. Non era perfetta, ha creato distorsioni (per esempio era vincolata al numero di occupati spingendo le aziende a sovraccaricarsi di manodopera). Anziché dare assistenza, però, bisognerebbe riprendere lo spirito di quel provvedimento non attraverso erogazioni finanziarie, bensì con garanzie pubbliche che non pesano sul bilancio dello stato. In fondo, la mancanza di una borghesia produttiva è il problema storico del mezzogiorno, come scriveva già Benedetto Croce nella sua storia del regno di Napoli.

 

L’Italia si sviluppa meno degli altri paesi, la produttività è bassa, la disoccupazione alta, il debito eccessivo e non si sa per quanto ancora sia sostenibile. Sia gli eurocrati di Bruxelles sia gli gnomi dei mercati guardano al bilancio pubblico una volta pagati 60 miliardi di interessi. Se l’attivo primario, oggi pari all’1,5 per cento del pil, scende ancora, vuol dire che l’Italia ha contratto la sindrome greca. La Banca centrale europea ha segnalato giovedì scorso che si sta muovendo, sia pur a piccoli passi, verso la fine della cuccagna monetaria: Mario Draghi non può fare più di quel che ha già fatto, s’accende dunque il semaforo giallo.

 

Forse per questo l’establishment europeo vede in un accordo tra M5s e Pd il minore dei mali e spera in Sergio Mattarella. Gli impegni dell’Italia sono parecchi e molto urgenti. Il brain trust economico messo insieme da Di Maio più che al reddito di cittadinanza sta pensando a come rimediare 15 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva e non sembra avere idee migliori rispetto a Padoan. Quanto a Salvini, propone un altro condono fiscale in piena continuità con quel passato che voleva seppellire.

 

La Ue, in ogni caso, non può cavarsela unendosi al coro perché anche lei ha fatto l’incendiaria. Si può anche sostenere che al debito pubblico debbono pensare innanzitutto gli italiani, tuttavia ciò non vale per la nuova onda migratoria dovuta a cause del tutto esogene. Aver lasciato sostanzialmente sola l’Italia ha gettato benzina sul fuoco populista. Il problema adesso è che nessuno dei vincitori, né Di Maio né tanto meno Salvini, sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles. La loro linea è sempre stata quella di accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario fra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2 per cento del pil a meno 0,6 per cento, quello dell’Italia dal 4,3 per cento a sotto il 2. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2 per cento, l’Italia del 3,5. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina.

 

Rassicurano anche i banchieri, sia pure con maggior pudore ed eleganza. Tra inquietudine e riallineamento i manager pubblici

Che fare? Il governo italiano deve ingaggiare una serie di complessi negoziati: c’è il completamento dell’Unione bancaria con l’istituzione della garanzia depositi, poi il futuro Fondo monetario europeo, la riforma degli accordi di Dublino sull’immigrazione, il bilancio pluriennale dopo il 2020, che porta con sé i fondi strutturali che il sud ha utilizzato solo per il 4 per cento. Tutto ciò è in calendario di qui all’autunno. Nei prossimi 18 mesi, occorre mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?), il presidente della Commissione Ue , il presidente del Consiglio europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita sbiadita di Federica Mogherini. Che cosa può ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa? Il distacco tra borghesia e popolo genera il sovversivismo di entrambi, scriveva Antonio Gramsci. Se la storia si presenta prima come tragedia poi come farsa, aspettiamo a questo punto la commedia all’italiana.

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