Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Provare a prenderli sul serio. Appunti

Giuliano Ferrara

Forse è una perdita di tempo, le loro restano idee ridicole. Ma mettiamo che abbiano ragione i voti e ci sia in giro miseria e disperazione identitaria. Restano il razzismo, l’ostilità al pil e l’attacco alla democrazia. Che ne facciamo?

Dunque tocca prenderli sul serio. Confesso che non ci avevo pensato, mi sembrava una perdita di tempo. Mi bastava Austerlitz per Auschwitz, ero pago della paranoia del congiuntivo, le facce e le fogge del partito del vaffanculo per me parlavano da sole, le motociclette di Ale e il Raggio magico facevano il resto. Snobismo elitario. Quando Giuliano da Empoli aveva pubblicato un suo libretto sull’algoritmo dei grillini, appunto per prenderli sul serio, mi era sembrato un ottimo lavoro, che ora uscirà in Francia, ma l’unica riserva era appunto quella, sul prenderli sul serio (che era il sottotitolo dell’opuscolo preveggente). Adesso farò uno sbrigativo tentativo, uno sforzino stitico. Infatti hanno vinto le elezioni, e la politica ha una sua autorevolezza. Lo stesso vale per Salvini. Ero chiuso nei miei pregiudizi verso felpe e ruspe: che l’euro fosse un crimine contro l’umanità, che la Corea del nord fosse come la Svizzera, che l’Atalanta potesse divenire bandiera nazionale della razza bianca, che Putin andasse adorato sulla Piazza Rossa nonostante certi problemini al gas nervino che ora si vedono a Londra, tutto questo mi sembrava solo grottesco. Ma devo avere sbagliato qualcosa. Si sono già messi in ghingheri istituzionali, i vincitori. Tagliato il traguardo, pedalano nella direzione contraria alla corsa, fanno la lezione repubblicana in nome della stabilità e governabilità, e nei prossimi mesi vedrete che una soluzione per passare la festa e gabbare lo santo sarà infallibilmente trovata, sono in tanti a sentirsi troppo soli e a volergli fare compagnia, ai vincitori. Magari non avremo un reddito suppletivo erogato dallo stato, né ci legheremo alla Repubblica del Don, ma qualcosa per fare tutti contenti il sistema italiano la escogiterà.

 

Cominciamo con lo stato del paese nel suo contesto europeo e mondiale. Pare che gli elettori del sud e del nord, a diverso titolo, si ostinino a non leggere gli articoli ottimisti di Marco Fortis sulla ripresa dell’economia. Ora dicono tutti che il grande errore di comunicazione di Renzi e del governo Gentiloni e del Pd è stato quello di giocarsi tutto sul pil, sulla crescita che è tornata, per quanto non galoppante, e su molti altri dati incoraggianti: nessuno è mai stato rieletto per i risultati del governo, si dice, bisogna sempre alzare la posta con il tempo del verbo al futuro, la chiave è la promessa. Inoltre Mattia Ferraresi nel suo saggio brillante sul mondo di e dopo Trump dice che gli indici economici e finanziari sono “monodimensionali”. Pare proprio che ci siano miserie sociali nascoste, illeggibili secondo vecchi criteri, e una grande disperazione identitaria legata alle insufficienze drammatiche del liberalismo e dell’individualismo solitario. E queste cose si curano, nell’opinione elettorale prevalente, con l’ostilità agli immigrati, con il reddito per tutti, il protezionismo e l’abbandono della concorrenza a frontiere aperte, e altre risorse tra identità nazionale, magari euroscettica eurocritica o eurofoba, mettetela come volete e come vi conviene, e tesoro statale. Non sfigura anche una dose forte di giustizia sommaria, all’insegna dell’onestà contro partiti ed élite, tema caro in specie al nostro amato sud e ai distretti che hanno dato un plebiscito a Di Maio, si immagina nel segno dell’antimafia (oops) e della lotta alla corruzione (oops). 

 

Ora, ammettiamo che Fortis e Capone e Cerasa e Ferrara non hanno capito la pluridimensionalità degli indici di sviluppo, e che l’Italia produttiva e improduttiva geme, da Bergamo a Siracusa, sotto il tallone di ferro di un’eurocrazia e di un’euromoneta e di un liberoscambismo obsoleti. Ammettiamo pure che perdere ai voti significhi essersi sbagliati nell’analisi, siamo realisti, facciamo autocritica come nella Cina di Mao. Ammettiamo con molte riserve che Salvini e Di Maio non siano demagoghi poveri di idee e soluzioni, e che il risultato elettorale non sia uno sberleffo autolesionista, uno sfogo nichilista. Anche a prenderli sul serio, i vincitori, con i loro sociologi abborracciati, e gli economisti e i politologi da sbarco, sono però molto lontani da una piattaforma credibile, da idee compatibili con un buongoverno democratico delle curve di sofferenza della globalizzazione. Faccio un nome, sperando che non risulti sconosciuto dalle parti di Austerlitz: Amartya Sen. Purtroppo per lui questo economista bengalese ha avuto comminato un Nobel tanti anni fa, ma per il resto vanta e non vanta (infatti non è vanitoso) un curriculum di accademia e di idee a prova di bomba (i libri, la direzione del Trinity College a Cambridge, ora insegna a Harvard e si occupa di una fondazione nel suo paese natale).

 

Sen critica il pil come indicatore che serve solo a “gonfiare il petto” da trent’anni e più. La Cina sarebbe la seconda economia mondiale, secondo il pil, e non è vero. Ma già va meglio, sempre secondo Sen, con il pil pro capite, che fa perdere quaranta posti in classifica alla Cina. Meglio ancora con il suo amato Indice di sviluppo umano, una cosa seria, un modo umanistico e non brutale di considerare la ricchezza sociale, il suo accrescimento, la sua distribuzione. Insomma, l’economista è un pragmatico, non è un dogmatico della decrescita più o meno felice, usa attrezzi intellettuali e politici e sociali che gli consentono di capire e nutrire un’idea complessa di democrazia. Perché l’India è avanti rispetto alla Cina nei brevetti e nella ricerca? Perché è una società passabilmente aperta e democratica, in cui le idee e i dati si intrecciano all’insegna della libertà di espressione, dell’autogoverno, e confliggono sul terreno dell’innovazione. La natalità per esempio, e qui Sen sembra Meotti o chiunque di noi, è un gran problema, perché mancano decine e decine di milioni di donne in seguito alle politiche abortiste e antinataliste, e questo è un guaio serio anche per l’economia, a parte il resto che non è poco. Insomma, quando si debba valutare seriamente il ciclo di crisi e ristrutturazione delle economie mondiali, esiste anche un pensiero dello sviluppo pluridimensionale complesso, intelligente, non demagogico, non siamo per Milton Friedman o niente, e il Bengala non sarà la Corea del nord, cioè la Svizzera di Salvini, ma ne è stata la culla. Al pragmatista di sinistra Sen non verrebbe nemmeno in mente di predicare la chiusura delle frontiere o delle società democratiche di mercato. Ai vincitori presi sul serio consiglierei non la solita gita a Chiasso, che rinfocolerebbe i loro tremendismi nazionali per via dei frontalieri, ma un viaggio in Bengala. O in Kerala, dove anche i comunisti sono legati, con tutta la falce e il martello, alla democrazia e alle sue procedure.

 

Già, perché l’altro problema è quello, ed è anche il più importante sebbene trascurato nell’espressione sovrana del voto degli italiani: la democrazia. Michaël Foessel esamina su Libération l’ispirazione rousseauiana della piattaforma che i Cinque stelle propongono come passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, uno vale uno. Secondo noi, che non li prendiamo sul serio ma conosciamo bene il loro statuto e le loro pratiche, è una truffa fuori della Costituzione, è l’appropriazione privata delle cariche elettive nel segno dello sradicamento teorizzato e praticato dei partiti politici. Secondo Foessel, che non è un fazioso italiano, “il funzionamento della piattaforma contraddice l’ispirazione rousseauiana che rivendica”. E conclude, da seguace del Savoiardo: “Lo scopo non è di favorire la democrazia, ma fare il surf sull’opinione. Ma Rousseau ha esplicitamente distinto la volontà generale dall’opinione pubblica. La prima elabora una vera deliberazione, la seconda è fatta di sentimenti divenuti maggioritari a seconda delle circostanze”. Noi, che non li prendiamo sul serio ma facciamo ogni sforzo, troviamo repulsiva l’idea stessa di una volontà generale in marcia, ma anche la prevalenza dell’opinione a seconda delle circostanze non è male come snaturamento della democrazia liberale, no? Naturalmente, ora che l’ex presidente francese Sarkozy ha fatto a pezzi liberté, egalité e fraternité (vedere il testo della conferenza di Abu Dabi), uno può dire chissenefrega della democrazia, serve l’uomo forte dovunque, ma anche in questo caso, a prenderli sul serio, non mi vedo Di Maio e Salvini nelle vesti di Xi Jinping.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.