Pier Carlo Padoan, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Ripartire dal 3 dicembre. Di cosa ha bisogno il Pd per avere ancora un futuro

Claudio Cerasa

Sempre che il Pd abbia ancora un senso, l’unica strada per sopravvivere è provare a parlare al cinquanta per cento degli elettori che non ha votato per Di Maio e Salvini, presidiare lo spazio dell’opposizione e recuperare il sogno maggioritario

Più che interrogarsi ancora su quale sarà il ruolo di Matteo Renzi nel futuro del Pd, la domanda vera alla quale dovrebbero rispondere oggi coloro che rappresentano in direzione il Partito democratico è una e soltanto una: undici anni dopo la nascita del Pd, il Pd ha ancora senso? La domanda ha una sua centralità non solo a causa del risultato disastroso ottenuto alle elezioni dal Pd (il peggiore ottenuto da un partito di centrosinistra dal 1963 a oggi e le dimissioni di Renzi non potevano che essere scontate) ma anche alla luce di uno scenario che non può più continuare a essere sottovalutato. In estrema sintesi: un partito nato per declinare la vocazione maggioritaria può davvero sopravvivere in un contesto in cui l’unica vocazione possibile è quella proporzionale? E ancora: un partito nato per provare a imporre nel nostro paese un sistema maggioritario può continuare a ragionare sul futuro facendo finta che il sistema in cui ci troviamo oggi sia più simile a un maggioritario che a un proporzionale? Se allarghiamo la nostra inquadratura sui problemi del Pd, si può dire che l’esistenza stessa del Partito democratico è stata messa in discussione non dalla sconfitta del 4 marzo (politiche) ma dalla sconfitta del 4 dicembre (referendum). 

 

Ela ragione per cui il segretario uscente del Pd avrebbe avuto il dovere di farsi da parte il 5 dicembre del 2016 (senza ricandidarsi poi alla guida del partito) era proprio questa: quando il mondo cambia, o i protagonisti cambiano o si cambiano i protagonisti. In questo ragionamento c’entra Renzi ma c’entra soprattutto l’identità stessa del Pd: da che parte deve virare ciò che resta della sinistra? E qui, dunque, torniamo al punto da cui siamo partiti: in questa epoca che si apre il Pd, inteso come partito delle primarie, inteso come partito dei gazebo, inteso come partito del maggioritario, può davvero ancora aver senso? La risposta a questo tema dipende dalla direzione che il Partito democratico prenderà nei prossimi mesi. Ed è possibile che da questa direzione dipenda non soltanto il futuro del Pd ma anche di questa legislatura. Mettiamola giù così: quel che resta del Pd ha intenzione di combattere per provare a pesare di più in un contesto ormai definitivamente proporzionale, provando cioè a far diventare il Pd un partito più socialdemocratico che democratico, o ha intenzione di combattere ancora per provare a far rivivere il partito del 3 dicembre, quello cioè che, tra le altre cose, sognava di regalare al paese un sistema istituzionale che fosse all’altezza delle sfide dell’Italia?

 

Le ferite profonde provocate sul corpo del Pd dal voto del 4 marzo spingeranno il Partito democratico ad azzerare tutta la grammatica della repubblica maggioritaria – comprese probabilmente le primarie aperte per l’elezione del segretario, compresa probabilmente l’idea di sovrapporre il ruolo di segretario di partito a quello di candidato premier – e suggeriranno al centrosinistra di prendere fiato e di tornare al passato, spinti da un ragionamento che potrebbe suonare così: per evitare di creare le condizioni affinché possa nascere un nuovo bipolarismo dominato dal Movimento 5 stelle e dalla Lega Nord bisogna dimenticare in fretta quello che è stato il Pd negli ultimi cinque anni. Traduzione del ragionamento: addio primarie, addio gazebo, addio sogno maggioritario, addio doppio turno, addio modello americano. Ci si può girare attorno quanto si vuole ma nei prossimi mesi la grande sfida del Pd sarà proprio questa. Sarà decidere come affrontare il nuovo possibile bipolarismo formato da Di Maio e Salvini. E di fronte a questo scenario il Pd post renziano ha tre soluzioni disponibili. La prima soluzione prevede la nascita di un Pd a trazione grillina che potrebbe essere tentato dal mettere alla prova il Movimento 5 stelle per poi rubargli i voti alle prossime elezioni. La seconda soluzione prevede la nascita di un Pd intenzionato a superare l’èra Renzi offrendo al paese un modello di opposizione laburista simile a quello messo in campo da Corbyn in Inghilterra. La terza soluzione prevede invece la nascita di un Pd intenzionato non a seppellire l’èra Renzi ma a ripartire da dove l’ex segretario ha fallito.

 

Dal punto di vista tecnico, ovvero come equilibri interni al partito, il percorso sembra essere segnato: elezione di un segretario nuovo nell’assemblea del Pd (da convocare prima delle consultazioni al Quirinale) ed elezione di un nuovo segretario del Pd entro due anni (che per la prima volta potrebbe essere un segretario destinato solo a guidare il partito e non a essere candidato al governo). Dal punto di vista politico, invece, il percorso che il Pd prenderà nel futuro lo si capirà anche da quali saranno le mosse che verranno fatte dal partito post renziano nel corso delle consultazioni relative alla formazione del prossimo governo. Ma quale che sia la decisione del Pd nei prossimi mesi ciò che non dovrebbe sfuggire ai dirigenti del partito è lo scenario in cui si trova oggi l’Italia. Il quattro marzo ci ha detto che ci sono due partiti che sanno rappresentare bene il voto di protesta. Due partiti che insieme mettono insieme il 50 per cento degli elettori. Ma il quattro marzo ci ha detto anche che c’è almeno un 50 per cento degli elettori che non si sente rappresentato dai partiti che rappresentano la protesta. Un cinquanta per cento che pagherebbe oro per avere, accanto a un partito attento alle proteste, un partito attento alle proposte. E per fare questo il Pd – sempre che il Pd abbia ancora senso – ha bisogno di ripartire da un punto fermo.

 

Il problema della trasformazione genetica del partito osservata durante l’èra Renzi non è stato legato al fatto che la trasformazione non era necessaria ma è stato legato al fatto che quella trasformazione forse non è stata sufficiente. In altre parole, il Pd può avere un futuro solo se proverà a parlare al cinquanta per cento degli elettori che non ha votato per Di Maio e Salvini. E per fare questo è bene non avere esitazioni. Bisogna ripartire dal 3 dicembre. Bisogna recuperare il sogno maggioritario. Bisogna presidiare con coraggio lo spazio dell’opposizione. E bisogna ricordarsi che forse l’unico governo che potrebbe nascere alternativo a quello guidato dai due campioni delle elezioni (Salvini e Di Maio) è uno e soltanto uno: quello finalizzato a regalare al paese una legge elettorale sul modello francese. Una legge con il doppio turno. Chi vince vince. Chi perde perde. Ma questa forse è un’altra storia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.