Proteste con gli Stati Uniti a Teheran (foto LaPresse)

Nessuno sviluppo può essere escluso dal medio oriente di oggi. Neanche la guerra

Adriano Sofri

Esiste anche l’eventualità, se i capi iraniani sapessero limitare i movimenti propri e delle proprie bande, dell’annessione di fatto dell’Iraq all’Iran

Vorrei discutere qualche problema aperto dal colpo americano di Baghdad. Si può trascurare, per il momento, la propaganda professionale filo pasdaran, che pure esiste nella nostra scena pubblica, e il più innocente e più diffuso equivoco di chi, in capo a una vacanza di una settimana in Iran, ne torna entusiasta della grandiosità del paese e del calore della sua gente e sospettosa dei giudizi malevoli sul suo regime. In sostanza, le reazioni “informate” si sono divise secondo due argomenti principali. Le une hanno tenuto soprattutto a spiegare che spregiudicato farabutto fosse Qassem Suleimani (infatti), così come “il suo soldato” iracheno al Muhandis, e dunque quanto giustificata fosse l’operazione Usa. Le altre si sono soprattutto interrogate sulle conseguenze dell’azione, imprevedibili ed eventualmente disastrose.

 

Scindo le due posizioni, in parte perché hanno di fatto orientato le reazioni rispettive, in parte perché aiuta a porre una questione generale: quando e in quali circostanze colpire un nemico, in questo caso con le uccisioni mirate, sia (non dirò morale, tutt’altro affare, e impervio) ragionevolmente efficace. E una questione connessa, piuttosto interessante, per chi pensi a Donald Trump come a uno statista cretino, disposto alle più arbitrarie decisioni e dotato di un arsenale di congegni praticamente illimitato al servizio dei suoi arbitrii. Semplifichiamo la domanda: Donald Trump ha, “per una volta, fatto la cosa giusta”? O non è più ragionevole ritenere che un cretino non possa mai “fare la cosa giusta”?

(Prima di proseguire, una chiosa sulla minaccia di Trump di colpire l’Iran nei luoghi importanti della sua cultura: frase, e pensiero, così vergognosi da squalificarlo senza riparo da un’opinione civile e da una memoria storica).

 

Suleimani era diventato il vero viceré dell’Iraq sciita (così l’esemplare Raineri), per conto dell’Iran degli ayatollah e dei Guardiani della Rivoluzione – che resta altra cosa dal governo iraniano. Colpirlo spettacolarmente nell’aeroporto di Baghdad ha voluto dire umiliare l’intero apparato istituzionale sciita-iracheno – quello cui gli americani stessi, dopo la liquidazione di Saddam, consegnarono un potere pressoché esclusivo. E rendere inevitabile la reazione più auspicata dall’Iran, la richiesta del ritiro delle forze americane (e straniere in genere: sono stanziati anche i turchi, dentro i confini iracheni, oltre a bombardare continuamente dal cielo). Così com’è stata votata dal parlamento vuoto di sunniti e curdi, la richiesta è probabilmente destinata a insabbiarsi dentro clausole di patti e minacce di ritorsioni e rivalità di bande, o almeno a trascinarsi abbastanza da morire d’inedia: ma ha già inficiato alla base la presenza americana e della coalizione anti Isis.

 

Quando Trump avverte l’Iraq che replicherà con sanzioni che lo metterebbero in ginocchio, sta dicendo al mondo di voler restare con le proprie armi in uno Stato formalmente indipendente che ha dichiarato di non volerlo: e buona parte del mondo sarà pronto a chiamare la cosa col nome di occupazione militare. Il primo ministro Abdul Mahdi (dimissionario in seguito alle formidabili sanguinose manifestazioni di giovani nelle città sciite degli ultimi mesi, in nome della libertà, della denuncia della corruzione e dell’asservimento straniero, che ha portato ad assaltare e dare alle fiamme i consolati iraniani nelle città simbolo della fede sciita) era stato messo a quel posto come un navigato notabile capace di tenersi in bilico fra i padroni iraniani e americani, con una propensione per i secondi. Domenica ha fatto per primo la voce grossa sulla cacciata delle forze straniere.

 

Ancora più eloquente, oltre che istrionica, com’è dell’uomo, la bravata di Moqtada al Sadr. Il quale, lui e il suo esercito del Mahdi, ha un passato di nemico fanatico degli americani, ma da tempo aveva cercato di barcamenarsi per compiacere alla sua folla, di prendere qualche distanza da Teheran, addirittura di saggiare qualche contatto con l’Arabia Saudita, e aveva riportato, con la sua alleanza eterogenea di fazioni, compreso il Partito Comunista che ne è già uscito, il primo posto nelle elezioni politiche del 2018. Domenica al Sadr ha voluto figurare come il più oltranzista nella rivendicazione di sovranità, ha denunciato come pavida la mozione del parlamento, ha chiesto la chiusura immediata dell’ambasciata Usa e la cacciata “umiliante” delle truppe americane. Oltranzismi così plateali sono tipici della retorica locale, ma non sono senza effetto.

 

Nessuno sviluppo può essere escluso dal medio oriente di oggi, compresa la guerra – il nome ormai inutilmente generico che si dà all’impiego di armamenti illimitatamente distruttivi. All’altro capo, non può essere esclusa l’eventualità, se i capi iraniani sapessero limitare i movimenti propri e delle proprie bande, dell’annessione di fatto dell’Iraq all’Iran. La tattica americana, ammesso che esista, di colpire “senza proporzione” a fini di deterrenza, non permette comunque di conservare un radicamento territoriale. E Trump sarebbe capace – di tutto, sarebbe capace – ma anche di abbandonare largamente l’Iraq, nel qual caso il decisionismo spietato del colpo di Baghdad sarebbe la caparra di una ennesima ritirata. Naturalmente, petrolio e gas e luoghi strategici non possono essere abbandonati senza un costo troppo alto, come mostra la permanenza “selettiva” di forze americane in Siria. Alle porte dell’Iraq spossessato stanno le potenze mondiali come altrettanti automobilisti in coda impaziente a una pompa di benzina.

 

L’Iraq è da sempre uno stato artificioso. Ora il feticcio della sua “unità” si è ulteriormente indebolito. I sunniti, che si sono affrettati a dirlo, non ammetterebbero un’uscita degli americani che non sia preceduta da quella delle forze armate sciite dal loro territorio. E poi i curdi, che tornano decisivi ogni volta che l’incendio divampa. I curdi iracheni (altra cosa dai siriani del Rojava) sono gli alleati più preziosi degli Stati Uniti, che nella loro regione autonoma avrebbero comunque una ridotta decisiva. Questo scenario rende di nuovo plausibili prospettive come la tripartizione dell’Iraq, una confederazione curdo-sunnita, una rianimazione dell’indipendentismo curdo. Cui si oppone, come sempre, la relativa soggezione di mezzo Kurdistan – quello di Erbil e di Duhok – alla Turchia, e dell’altro mezzo – quello di Suleimanyah e, più o meno, di Kirkuk, all’Iran. E soprattutto, i curdi hanno la lezione recentissima dell’abbandono dei curdi siriani da parte di Trump, che li ha liquidati oltraggiosamente, e appena meno recente dell’abbandono, sempre da parte di Trump, di Kirkuk alle milizie iraniane e irachene ai comandi iraniani, un mese dopo il referendum consultivo sull’indipendenza curda del 2017. Oggi, i curdi, e personalmente un loro leader rilanciato dalle circostanze, il Barham Salih presidente della repubblica, sono di nuovo tentati di trarre vantaggio dal disordine guerriero, di volta in volta vaso di coccio fra due di ferro, o profittatore lucido fra due grossi litiganti. Giochi d’azzardo, in cui ciascuno può vincere qualcosa, o perdere tutto.

 

Le reazioni maggiori oltretutto possono venire a distanza dal terreno iracheno e iraniano. Dopo Suleimani, a Netanyahu non può non essere venuto un pensiero su Nasrallah, il capo di Hezbollah libanese cui personalmente la figlia di Suleimani ha confidato la missione della vendetta. Ammesso che la logica “wag the dog”, fai un gran rumore in giro per distogliere dai tuoi guai, conti per qualcosa, conta per Netanyahu più che per Trump.

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