Un magistrato spiega cosa può fare il Csm per non essere più ostaggio delle correnti
Bisogna recuperare il significato di garanzia del dominio della legge voluto in materia dalla Costituzione. Ed evitare la discrezionalità nel premiare quel candidato piuttosto che un altro
E’ molto probabile che, questa volta, di una riforma del Consiglio superiore della magistratura non si possa fare a meno. Nella passata legislatura il governo l’aveva messa in cantiere e ne aveva approfondito, con apposite commissioni di studio, impalcatura e contenuti. Il Csm di allora, pur non sottraendosi al confronto con i testi elaborati dalle commissioni ministeriali, scovò nell’autoriforma la parola d’ordine per indurre il legislatore a soprassedere. Quindi modificò il Regolamento interno ma, come era ampiamente prevedibile, lo sforzo non produsse i risultati sperati, e necessari. Oggi il tema della riforma è tornato alla ribalta, grazie a indagini penali e campagne di stampa che rivelano, in dosi quotidiane, spezzoni di corrispondenza privata di un componente del Csm di allora, di cui ancora non si sa se, e in che misura, siano rilevanti per l’accertamento delle penali responsabilità. Ma questa è un’altra storia. La tutela della riservatezza delle comunicazioni dei terzi estranei alle indagini, e dell’indagato per fatti non collegati all’imputazione, non ha mai appassionato gli addetti ai lavori. Quando il legislatore ha affrontato il problema si è paventato ed enfatizzato il rischio che cautele e prudenza selettiva, necessarie per non mettere in piazza – inutilmente e con danno per i diritti fondamentali delle persone – le vite degli altri potessero tradursi in un depotenziamento delle indagini e quindi del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Ad ogni modo, per questa via tortuosa l’affaire Csm ha riconquistato priorità: lo ha annunciato qualche giorno fa il Ministro della Giustizia che, sembra di capire, tornerà con forza e determinazione al progetto messo da parte per l’emergenza pandemica. Una gran parte di quel progetto, è noto, attiene alla modifica del sistema elettorale. Il ministro si era detto in un primo tempo favorevole a meccanismi di sorteggio, poi aveva abbandonato il proposito dopo le numerose critiche e i seri dubbi di costituzionalità da più voci sollevati. Ora, con l’acuirsi della crisi consiliare, o meglio: della visibilità della crisi, non è detto che non riprenda quel disegno. La radicalità brutale della proposta potrebbe apparire una soluzione adeguata alla gravità della situazione. C’è però un altro sentiero da imboccare che rimane spesso in ombra, muovendo sempre dalla stessa premessa. Il Csm rischia di perdere credibilità, sia tra i magistrati che nella collettività. Fu pensato per presidiare autonomia e indipendenza dei magistrati, ma il timore è che venga visto e vissuto come un’istituzione da cui difendersi. Un ribaltamento di prospettiva da superare rapidamente. Il nodo è la scarsa fiducia che circonda la sua azione: tra i magistrati è un costante dibattito sul se aumentare e di quanto e come i vincoli per la discrezionalità del Csm, le cui delibere a volte sono assai poco comprensibili. Altri avvertono un pericolo non da poco: che nel proliferare di regole e regolette, nel ginepraio di disposizioni si possa con più facilità annidare l’arbitrio. Cosa fare?
Sconfiggere il carrierismo dei magistrati, si è detto. La voglia di carriera guasta gli animi e inquina l’attività consiliare. Ottimo progetto, ma che richiede tempo perché si recuperi un diverso diffuso sentire, e il tempo è la risorsa di cui non si dispone. Il compito del Csm, del resto, è proprio di governare le ambizioni di carriera dei magistrati, di contenerle e reprimerle quando meritano di essere conculcate, e di premiarle quando è giusto farlo, il tutto nell’esclusivo interesse di assicurare alla collettività il miglior servizio giudiziario possibile. Da dove, allora, il soccorso? La risposta è semplice. In una democrazia è la politica che deve intervenire, con lo strumento di maggiore garanzia: la legge. Nei momenti di maggiore difficoltà conviene tornare alla Costituzione. Lì è scritto che il Consiglio svolge i suoi rilevanti compiti – assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, ecc. ecc – secondo le norme dell’ordinamento giudiziario. La formula è stata storicamente intesa in modo da riconoscere in capo al Csm un robusto potere di così detta normazione secondaria: non solo esecutore delle previsioni di legge ma facitore concorrente delle regole da applicare. Questa idea maturò in anni lontani, nella stagione del fervore costituzionale, in cui la magistratura e il Csm furono impegnati a realizzare l’ambizioso progetto della Carta. Ciò avvenne in un contesto di forte vitalità politica, in cui le correnti erano motore di elaborazione culturale sul modo in cui interpretare il ruolo di magistrato. Lo scontro, allora, era molto più sulle idee che sui posti. Quel circolo virtuoso si è interrotto. La crisi della politica ha investito anche e soprattutto il Csm, figlio di quegli anni e a disagio in un presente che dell’antipolitica ha fatto una bandiera, anche tra i magistrati.
In questo delicato e pericoloso frangente bisogna recuperare il significato di garanzia del dominio della legge voluto in materia dalla Costituzione, e in un certo senso irrigidirla. Essa è garanzia per i magistrati ma, in fin dei conti, anche per il Csm e, quindi, per la vita democratica della comunità. Che l’assoluto dominio della legge possa cedere in parte, lasciando spazi al Csm per integrare e completare le regole, è una possibilità, non una necessità costituzionale. Tornando alle carriere dei magistrati, che si scopre essere il fronte debole dell’azione consiliare, sarebbe bene che fosse la legge a dire quali profili professionali siano da valorizzare per l’uno o per l’altro o per l’altro ancora degli incarichi e dei posti da conferire, senza limitarsi a dettare la cornice riempibile con i più mutevoli contenuti, inevitabilmente condizionati dalle contingenti necessità di recuperare consensi effimeri dentro la cd. base della magistratura. Si potrà così evitare di leggere in una delibera consiliare che la pluralità di esperienze professionali è una qualità decisiva per far vincere un candidato e in un’altra, di poco precedente o successiva, che la permanenza in una stessa funzione o posto è valore da premiare per far vincere tal altro candidato: o, ancora, che la conoscenza del territorio in cui opera un ufficio giudiziario è il valore aggiunto che quel candidato esprime rispetto ad altri, decisivo per farlo prevalere, e in altra competizione concorsuale di qualche settimana successiva veder premiato altro candidato proprio perché ha sempre svolto la sua attività lontano dal territorio in cui opera l’ufficio che gli viene affidato. In questi esempi non si coglie un confronto tra culture diverse su come intendere ruolo e funzione dell’essere giudice: si avverte soltanto un pericoloso disorientamento, che crea lontananza e diffidenza.
Verrà nuovamente il tempo della politica e allora anche l’autogoverno dei magistrati potrà esprimersi con maggiore ampiezza. Oggi sarebbe un azzardo illudersi che tutto possa continuare come prima.
Giuseppe Santalucia è magistrato della Corte di cassazione