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Il governo della forca

Ermes Antonucci

Il processo sommario avviato da Salvini e Di Maio dopo il disastro di Genova è la manifestazione dello spirito manettaro della maggioranza. Perché è ora di ribellarsi contro i metodi della dittatura giustizialista

Fino a pochi mesi fa agitavano la forca dalle piazze o al massimo dai banchi dell’opposizione in Parlamento. Ora lo fanno direttamente dalle poltrone più alte del governo e delle istituzioni italiane. La gogna pubblica alimentata dal premier Conte e dal nuovo esecutivo gialloverde dopo il crollo del ponte Morandi di Genova, con l’individuazione del capro espiatorio (Autostrade per l’Italia-Atlantia-Benetton) a cui attribuire le colpe senza tanti approfondimenti, senza riconoscere alcuna garanzia ai coinvolti (abbattuti e gettati alla mercé della speculazione in Borsa) e senza “aspettare i tempi della giustizia”, è solo la prima grave manifestazione dello spirito manettaro e illiberale che anima il nuovo esecutivo. Un approccio espresso a chiare lettere nel programma sulla giustizia contenuto nel contratto di governo Lega-Movimento 5 stelle e palesato dai primi provvedimenti legislativi adottati dall’esecutivo Conte in materia, e che dovrebbe far rabbrividire chiunque abbia a cuore la libertà dei cittadini e il rispetto dei principi basilari dello stato di diritto.

    

"Si attribuiscono le colpe senza riconoscere alcuna garanzia ai coinvolti e senza “aspettare i tempi della giustizia”   

      

Se finora l’azione di governo si è soprattutto limitata a cancellare alcune importanti, seppur incomplete, riforme varate nel corso dell’ultima legislatura per rendere le carceri più umane e per limitare la gogna mediatica legata alla pubblicazione sugli organi di informazione delle intercettazioni penalmente irrilevanti, a partire dalle prossime settimane i propositi giustizialisti di grillini e leghisti cominceranno a essere tradotti in nuovi provvedimenti. Tutti segnati da una visione di fondo manettara riassumibile in cinque punti: più intercettazioni, più carcere, più pene, più lentezza della giustizia e più gogna mediatica.

  

Più intercettazioni

Il primo colpo di spugna del nuovo governo è giunto in materia di intercettazioni. Su spinta del neoministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’esecutivo ha deciso di stoppare l’entrata in vigore della riforma approvata lo scorso dicembre e promossa dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Il testo è stato inserito all’interno del decreto Milleproroghe di luglio, che rinvia la sua entrata in vigore a marzo 2019. Un passaggio meramente tecnico, finalizzato a congelare la riforma in attesa che sia riscritta interamente. “Impediamo che venga messo il bavaglio sull’informazione e sulla stampa”, ha argomentato Bonafede annunciando lo stop, per poi lanciarsi in una filippica populista e giustizialista: “La riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati o che i politici pronunciano quando sono al telefono con persone indagate”. Per Bonafede, ogni passata riforma è coincisa con uno “scandalo” e l’ultima è stata fatta “in concomitanza col caso Consip”: “Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea”.

  

In realtà, la riforma Orlando, seppur imperfetta, aveva il merito di porre un primo e importante freno alla pubblicazione, non delle intercettazioni che riguardano i politici come sostenuto demagogicamente da Bonafede, ma di quelle palesemente irrilevanti ai fini delle indagini. Premesso che nessuna limitazione veniva posta all’uso delle intercettazioni come strumento di indagine, il testo prevedeva il divieto “di trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni o conversazioni ritenute irrilevanti per le indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”, nonché di quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge”, sempre ove non fossero ritenute rilevanti a fini di prova. Tutto ciò “al fine di escludere, sin dalla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e, in generale, il materiale d’intercettazione non rilevante a fini di giustizia, nella prospettiva di impedire l’indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee alla vicenda oggetto dell’attività investigativa”.

   

Altro punto di merito della riforma era l’individuazione del pubblico ministero come garante della riservatezza dell’archivio riservato in cui sarebbero state raccolte le intercettazioni irrilevanti. Insomma, in caso di fuga di notizie e della pubblicazione sui giornali di stralci di conversazioni telefoniche che nulla c’entrano con l’inchiesta, perlomeno avremmo potuto sapere il nome del pm che non era stato in grado di garantire la riservatezza di quelle intercettazioni irrilevanti. Certo, poi sarebbe spettato al Consiglio superiore della magistratura attivarsi per verificare se la fuga del materiale riservato fosse stata dovuta a negligenza del pm (e sappiamo bene quanto siano rari i provvedimenti disciplinari nei confronti delle toghe), ma ci sarebbe stata certamente una forma di accountability maggiore dei cittadini e degli organi di garanzia sull’operato dei magistrati.

  

Terzo punto positivo della riforma Orlando: per tutelare la riservatezza delle persone coinvolte, pm e giudici, nelle richieste e nelle ordinanze di misure cautelari, avrebbero dovuto riportare “ove necessario” solo i “brani essenziali” delle intercettazioni. Una regola, questa, a cui avrebbero dovuto ispirarsi anche le informative di polizia giudiziaria. 

     

Il quarto punto positivo era costituito dalla nuova disciplina sull’uso dei trojan horse, cioè dei captatori informatici che vengono immessi nei dispositivi elettronici portatili (come smartphone e tablet) per intercettare le comunicazioni. In particolare, si prevedeva che tali dispositivi non potessero essere mantenuti attivi senza limiti di tempo o di spazio, ma dovessero essere attivati da remoto secondo quanto previsto dal pubblico ministero nel proprio programma d’indagine. Il testo prevedeva, inoltre, che i “virus spia” dovessero essere disattivati se l’intercettazione avveniva in ambiente domiciliare, a meno che non vi fosse prova che in tale ambito si stesse svolgendo l’attività criminosa oggetto dell’indagine o se l’indagine non riguardava i delitti più gravi, tra i quali mafia e terrorismo.

  

Le parti più criticate della riforma erano state, invece, da un lato, il divieto per i difensori di estrarre copia dei verbali di intercettazioni (che potevano essere solo consultati, e questo sempre con l’obiettivo di evitare fughe di materiali coperti da segreto) e, dall’altro, la disposizione secondo la quale spettava alla polizia giudiziaria selezionare le conversazioni rilevanti da quelle irrilevanti, limitandosi per quest’ultime a indicare nel brogliaccio (i verbali redatti in forma sommaria sulle operazioni di ascolto) soltanto ora, data e dispositivo con il quale le conversazioni sono state eseguite. Una disposizione che per l’Associazione nazionale magistrati rischiava di riconoscere uno “strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni”. Il testo, tuttavia, cercava di limitare questo rischio prevedendo l’obbligo per gli ufficiali di polizia giudiziaria di avvertire il pm nei casi in cui c’era incertezza sulla rilevanza o meno di un’intercettazione. A sua volta, il pm poteva, con decreto motivato, disporre la trascrizione delle comunicazioni ritenute rilevanti per i fatti oggetto di prova.

  

Nel complesso, dunque, la riforma Orlando portava con sé il tentativo positivo di limitare la pubblicazione illecita di intercettazioni irrilevanti e, di conseguenza, lo sputtanamento mediatico delle persone coinvolte in vicende giudiziarie o capitate semplicemente per caso nel calderone delle conversazioni intercettate degli indagati.

  

Del resto, basta recuperare le parole espresse da Orlando il giorno del via libera alla sua riforma (“Abbiamo un paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità, non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di persone non sottoposte a procedimenti penali”) e confrontarle con le affermazioni giustizialiste fatte da Bonafede all’annuncio dello stop al testo, per capire già ora quanto sia cupo lo scenario di un intervento futuro del governo gialloverde in materia.
Per di più, se ancora non sono noti i contenuti specifici della riforma Bonafede sulle intercettazioni, è già certo che lo stop alla vecchia riforma è costato agli italiani 40 milioni di euro, vale a dire la spesa affrontata dagli uffici giudiziari per comprare le attrezzature necessarie ad attuare le nuove (ormai vecchie) disposizioni. Bonafede ha assicurato che “nemmeno un euro di quelli che sono stati spesi andrà sprecato”, perché “le attrezzature che sono state comprate potranno essere utilizzate per qualsiasi norma sulle intercettazioni”, ma è difficile comprendere come le procure potranno riutilizzare risorse spese per andare incontro a obblighi (come quello di allestire un archivio riservato, con personale, telecamere, postazioni pc, server e software) che domani non esisteranno più.

   

Come se non bastasse, l’obiettivo del governo Conte non è soltanto continuare a permettere la pubblicazione sui giornali di intercettazioni penalmente irrilevanti (in nome di un fantomatico diritto di cronaca che, in realtà, si traduce in un diritto di distruzione delle reputazioni altrui), ma anche consentire la realizzazione stessa da parte della polizia giudiziaria di un maggior numero di intercettazioni nei confronti dei cittadini. “In materia di intercettazioni è opportuno intervenire per potenziarne l’utilizzo, soprattutto per i reati di corruzione”, recita a chiare lettere il contratto di governo siglato da Movimento 5 stelle e Lega. Tutto ciò nonostante l’Italia sia già il paese più intercettato al mondo: 132 mila intercettazioni all’anno, vale a dire quattro volte il numero di intercettazioni compiute in Francia, oltre quaranta volte il numero di captazioni effettuate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (sono escluse le attività compiute dai servizi segreti). In altre parole, come sottolinea un rapporto realizzato nel 2004 dal centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law, l’Italia è già oggi il paese con il più alto numero di intercettazioni pro capite (76 ogni 100.000 abitanti), lontanissimo da Francia (23,5), Germania (15), Gran Bretagna (6) e Stati Uniti (0,5).

  

Più carceri

Dopo la chiusura nel 2016 della procedura pilota aperta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario, che per anni aveva fatto vergognare il nostro paese a livello internazionale, le strutture penitenziarie italiane sono tornate a esplodere. Il 31 luglio scorso, il numero di detenuti ha toccato la cifra di 58.506, oltre seimila in più di quelli registrati a gennaio 2016, ma soprattutto ottomila in più dei posti disponibili (50.624). Senza dimenticare il dato, anch’esso in aumento, relativo al numero di detenuti oggetto di misure di custodia cautelare: 19.106, cioè quasi il 33 per cento del totale, di cui oltre novemila (9.163) persino ancora in attesa di una sentenza di primo grado.

  

  "Anche sulle carceri il nuovo governo è intervenuto con un colpo di spugna, cancellando di fatto la riforma (incompleta) approvata da Orlando lo scorso marzo e che si attendeva dal 1975"

  

Anche sulle carceri il nuovo governo è intervenuto con un colpo di spugna, cancellando di fatto la riforma (incompleta) approvata da Orlando lo scorso marzo e che si attendeva dal 1975. Incompleta perché, dopo averne colpevolmente ritardato l’approvazione fino ad arrivare a ridosso del passaggio di consegne con l’esecutivo gialloverde, il governo Gentiloni era riuscito a varare solo il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, lasciando in sospeso gli altri tre decreti su carcere minorile, lavoro dei detenuti e giustizia riparativa.

  

Molti, però, erano i passi in avanti previsti dalla riforma approvata, frutto – insieme agli altri decreti – della lunga attività di studio, compiuta prima dagli Stati generali dell’esecuzione penale (che videro la partecipazione di oltre 200 esperti del settore tra accademici, avvocati, operatori, rappresentanti di associazioni e studiosi) e poi dalla Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, presieduta dal professor Glauco Giostra.

  

Il punto centrale della riforma era costituito da un rafforzamento delle misure alternative al carcere, che sarebbe meglio definire “pene alternative al carcere”, come precisato efficacemente dall’Unione camere penali italiane, essendo queste misure nient’altro che una modalità con cui la pena viene eseguita, riconosciuta come la migliore per il reinserimento del detenuto nella società. Parliamo quindi dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della semilibertà, della liberazione anticipata e della detenzione domiciliare (da non confondere con gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare).

   

Il provvedimento aumentava da tre a quattro anni il limite di pena inflitta o residua al di sotto del quale il giudice poteva concedere misure alternative al carcere (in linea con quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti internazionali) e, soprattutto, eliminava gli automatismi nell’esecuzione della condanna, affidando alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza il compito di decidere caso per caso il percorso rieducativo di ciascun condannato.

  

Una previsione importante riguardava, poi, la possibilità dei condannati all’ergastolo (tranne che per mafia e terrorismo) di accedere alla semilibertà dopo che avessero fruito di permessi premio per almeno cinque anni consecutivi. E poi: incremento delle opportunità di lavoro sia all’interno che all’esterno del carcere (seppur in attesa del decreto legislativo apposito), nonché di attività di studio, di formazione professionale e di compiti socialmente utili; maggiore attenzione alla salute del detenuto, con il rafforzamento dei servizi di assistenza sanitaria; equiparazione tra infermità fisica e psichica e potenziamento dell’assistenza psichiatrica; interventi a tutela delle detenute madri; maggiore attenzione all’alimentazione dei detenuti; mantenimento delle relazioni familiari del detenuto, anche attraverso l’uso di collegamenti audiovisivi. Una riforma, dunque, che, seppur parziale, conteneva norme di buon senso e veniva valutata positivamente anche da chi, come i Radicali, da decenni si batte per un carcere più umano e in linea con la nostra Costituzione.

  

Il testo, però, è stato immediatamente bocciato dalla nuova maggioranza penta-leghista, che ha espresso parere negativo al decreto in commissione Giustizia della Camera, complice anche l’allarmismo senza precedenti di Salvini e Bonafede. Di fronte all’approvazione del decreto, infatti, il primo aveva gridato a un “salva ladri”, aggiungendo: “Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena”. Il secondo, cioè il futuro nuovo Guardasigilli, rincarava la dose: “E’ un affronto che non può essere accettato. Il governo, fuori da ogni possibile controllo parlamentare, ha approvato un provvedimento pericoloso che mina alla base, dopo gli innumerevoli svuotacarceri di questi anni, il principio della certezza della pena”. Inutile sottolineare come gli allarmi su uno “svuotacarceri” fossero del tutto infondati. Salvini si è spinto persino ad affermare, in un comizio a Trento lo scorso marzo, che il testo che il governo uscente stava per approvare prevedeva che “se sei condannato a una pena inferiore a quattro anni, in galera non ci vai”. Una vera e propria fake news: la riforma, come ha spiegato Giostra, non faceva altro che correggere alcune incongruenze esistenti (che, ad esempio, permettono di beneficiare, con una pena fino a quatto anni, della misura più favorevole, cioè l’affidamento, ma non di quella più restrittiva, cioè la detenzione domiciliare, il cui limite ordinario oggi è di due anni), ma soprattutto non prevedeva alcun automatismo tra una pena fino a quattro anni e la concessione di una misura alternativa al carcere, posto che sarebbe stato il magistrato di sorveglianza a valutare caso per caso il miglior percorso per il condannato.

   

Tuttavia, in nome di questa insolita comunanza di visione sulla “certezza della pena” tra grillini e leghisti, il nuovo governo ha bloccato la vecchia riforma, varando un nuovo schema di decreto. Un nuovo testo che spazza via il cuore del precedente provvedimento, vale a dire la parte relativa alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e all’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena. Bonafede ha assicurato che “ministero e governo stanno lavorando per migliorare la qualità della vita nelle carceri garantendo comunque la certezza della pena”, ma il nuovo testo paradossalmente rischia di produrre un effetto opposto. Perché, come ha spiegato Orlando, ripristinando gli automatismi che impongono lo stesso trattamento penale a tutti i condannati, indipendentemente dalla loro condotta o dalla volontà di seguire un percorso di riabilitazione e reinserimento sociale, “non rimuove le cause che aumentano la probabilità di recidiva, e perciò non garantisce la tanto sbandierata sicurezza”.

   

Anche il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, pur apprezzando il mantenimento di alcune disposizioni, ha bocciato nel suo parere il nuovo decreto del governo, affermando che l’esecutivo “ha deciso di non esercitare la delega relativamente alla revisione di modalità e presupposti di accesso alle misure alternative, di revisione delle procedure di accesso alle medesime, di eliminazione di automatismi e preclusioni, di valorizzazione del volontariato, di riconoscimento del diritto all’affettività, nonché di revisione delle misure alternative finalizzate alla tutela del rapporto tra detenute e figli minori”.

   

Fanno rabbrividire, poi, le proposte avanzate nel contratto di governo sul trattamento dei minorenni in carcere, per i quali si ipotizza una revisione “in senso restrittivo” delle “norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena”, ignorando che più repressione e meno opportunità di reinserimento sociale si traducono in maggiore recidiva dei giovani detenuti.

   

Più lentezza

Il contratto di governo auspica “un processo giusto e tempestivo”, eppure Bonafede ha indicato più volte come “priorità irrinunciabile” una riforma della prescrizione che di fatto paralizzerebbe la giustizia italiana. Illustrando le sue linee programmatiche davanti alla commissione Giustizia del Senato lo scorso luglio, Bonafede ha annunciato che è allo studio lo stop dei termini di prescrizione “dopo che sia stata emessa una sentenza di primo grado”. Insomma, una volta condannati in primo grado si può essere processati a vita. I magistrati potrebbero portare avanti senza alcuna scadenza i loro processi, con un effetto devastante sui tempi della giustizia.

  

Ma la riforma potrebbe andare in una direzione persino peggiore, se si considera che nel 2015 lo stesso Bonafede scriveva, in un intervento pubblicato sul blog di Grillo, che la prescrizione “è l’ancora di salvezza dei delinquenti”, gridando a chiare lettere: “La prescrizione deve interrompersi dopo il rinvio a giudizio”. E’ il sogno tanto desiderato dall’Associazione nazionale magistrati: basta un rinvio a giudizio del gip per andare incontro a un processo infinito.

  

Dimentica, Bonafede, che già la riforma penale approvata dal precedente governo ha previsto una preoccupante riforma della prescrizione, con la sospensione dei termini per 18 mesi dopo una condanna di primo grado e di altri 18 mesi dopo una condanna in appello. Già oggi, ad esempio, il reato di corruzione va in prescrizione dopo 15 anni e mezzo (e non più 12 e mezzo). No, non avete capito male: 15 anni e mezzo. Occorre infatti considerare che, sempre nella legislatura precedente, già la legge n. 69 del 2015 aveva inasprito di molto le pene per i reati di corruzione, con conseguente aumento dei termini di prescrizione.

  

Dimentica poi, sempre Bonafede, che nell’ultimo decennio il 73 per cento delle prescrizioni si è determinato in fase di indagini preliminari ed è stato decretato dal gip di turno. In altre parole, anche se si riformasse l’istituto prevedendo una sospensione totale dei termini dopo una sentenza di primo grado, o addirittura dopo il rinvio a giudizio, non si risolverebbe il problema (che riguarda invece aspetti strutturali del sistema giustizia, primo fra tutti l’obbligatorietà dell’azione penale, un vero e proprio feticcio), ma al contrario si aggraverebbe la condizione di letargia dell’intero sistema processuale.

  

Più pene

Il dossier sulla sicurezza in Italia presentato a Ferragosto dal ministero dell’Interno (proprio quello presieduto da Matteo Salvini) ha confermato ancora una volta il calo dei reati in Italia. Negli ultimi 12 mesi i delitti sono diminuiti del 9,5 per cento. Nel dettaglio: -16,3 per cento di omicidi, -12,3 per cento di rapine e -9,5 per cento di furti. Eppure, leggendo i punti del programma di governo Lega-M5s e le dichiarazioni degli esponenti del nuovo esecutivo (Salvini in primis) sembra di vivere a Kabul, nel pieno di un’emergenza sicurezza. E la ricetta per diminuire la criminalità viene individuata nel semplice innalzamento delle pene.

  

Nel contratto di governo, infatti, nella parte dedicata alla giustizia si propone: “L’abrogazione e la depenalizzazione di reati, trasformati in illeciti amministrativi e civili, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, l’estinzione del reato per condotte riparatorie anche in assenza del consenso della vittima, nonché i periodici ‘svuota carceri’”. Si ritiene “opportuno”, inoltre, “ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani, modificandone le fattispecie e innalzando le pene”.

  

Pene più alte, quindi, e pazienza se proprio per questa tipologia di reati (furto in abitazione, scippi, rapina ed estorsione) già il governo precedente aveva provveduto a inasprire le pene. Stessa musica quando si parla di lotta alla corruzione. Anche in questo caso, come abbiamo visto, già l’esecutivo Renzi ha proceduto a innalzare le pene (tanto che oggi per corruzione si può essere condannati fino a 20 anni), ma per i grillini e leghisti pare non bastare, così nel contratto di governo si prevede “l’aumento delle pene per tutti i reati contro la pubblica amministrazione di tipo corruttivo per i quali debbono essere preclusi gli sconti di pena mediante un sistema che vieti l’accesso a riti premiali alternativi”.

  

E poi: introduzione del “daspo” per i corrotti e corruttori, cioè l’interdizione dai pubblici uffici e la perpetua incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per chi è stato condannato in via definitiva per corruzione. Ancora non si comprende a cosa il governo e Bonafede si riferiscano: se a una sanzione penale accessoria (che però è già presente nel nostro ordinamento all’articolo 32-quater del codice penale, che prevede già per i condannati di corruzione “l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”) o a un nuovo provvedimento amministrativo dalla costituzionalità tutta da verificare.
E’ stato lo stesso presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, a sottolineare più volte i possibili profili di incostituzionalità del “daspo” concepito dal governo. Anche se in un fuori-onda con il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, raccolto dal Fatto quotidiano durante un convegno, Cantone è stato molto più esplicito, riferendosi alla bozza di testo preparata dal ministro Bonafede: “Tutte cose incostituzionali”. Pignatone, più che mai d’accordo, ha ripetuto: “Tutte cose incostituzionali”.

  

Altra proposta del contratto di governo gialloverde è “l’introduzione della figura dell’agente sotto copertura e la valutazione della figura dell’agente provocatore in presenza di indizi di reità, per favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi nella pubblica amministrazione”. Per quanto riguarda il primo caso, l’agente sotto copertura, c’è da considerare che non si tratta di una novità: l’istituto è già utilizzato nel nostro ordinamento nell’ambito della lotta alla mafia e al traffico di stupefacenti. “In Europa nessuno ha questo strumento”, si è vantato Bonafede riferendosi all’uso degli agenti sotto copertura nel contrasto alla corruzione. Ma se il nostro ordinamento non ha mai previsto il ricorso a questa figura per i reati corruttivi, né lo hanno fatto gli altri paesi europei, un motivo ci sarà: nessuno ha capito come sarebbe possibile farlo concretamente. Se, infatti, nei casi di lotta alle associazioni mafiose, al traffico di droga e alle organizzazioni criminali in senso lato è più facile immaginare l’impiego di questa figura, ben più arduo è concepire il coinvolgimento di questa figura nei casi di corruzione, solitamente alimentati da singoli individui. L’agente sotto copertura dovrebbe improvvisamente trasformarsi in un imprenditore e partecipare a una gara per un appalto? Con quali competenze? Dovrebbe dar vita a una vera e propria azienda per non essere scoperto? Se sì, con quali risorse? Tante sono le domande senza risposta.

  

"La figura dell'agente provocatore delinea uno scenario inquietante, in cui lo stato non si incarica più di valutare la rilevanza penale di una condotta, ma si trasforma in stato etico, incaricato di misurare la corruttibilità e l'integrità morale dei cittadini"   

  

Altro discorso è l’agente provocatore, cioè un agente che, agendo sempre sotto copertura, provoca una persona a commettere un reato che altrimenti non avrebbe mai realizzato. In soldoni: un poliziotto sotto copertura va da un funzionario pubblico o un politico, gli offre una mazzetta per ottenere qualcosa, il funzionario o il politico accetta e viene arrestato. Uno scenario inquietante, in cui lo stato non si incarica più di valutare la rilevanza penale di una condotta, ma si trasforma direttamente in stato etico, incaricato di misurare la corruttibilità e l’integrità morale dei cittadini. E’ il sogno dell’ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, ora componente del nuovo Consiglio superiore della magistratura (sic!) e molto vicino ai Cinque stelle. Un’idea, però, che fa tremare le gambe a molti, come Cantone: “Uno stato che mette alla prova il cittadino per tentarlo e punirlo se cade in tentazione non riflette un concetto di giustizia liberale”. Eppure, solo alcuni mesi fa, Bonafede ripeteva: “Per il Movimento 5 stelle il problema è la corruzione, la soluzione che da sempre abbiamo proposto è la legge che istituisce la figura dell’agente provocatore”. C’è solo da sperare che la “valutazione” che ora il governo intende fare di questa figura si fermi nell’ambito ipotetico (che, comunque, è già di per sé preoccupante, poiché indicativo della concezione giustizialista che si ha della lotta alla corruzione e, complessivamente, del diritto).

  

Più gogna

Una giustizia così concepita, fondata su più incarcerazioni, pene più alte e libera pubblicazione di intercettazioni irrilevanti, alimenterà inevitabilmente l’infernale macchina della gogna mediatica, dell’annientamento della presunzione di innocenza, dello sputtanamento dei soggetti coinvolti in vicende giudiziarie sulla base di semplici sospetti o chiacchiericci privati, della condanna preventiva sul banco del tribunale dei media, prima ancora che dei tribunali veri. Non si tratta di uno sfacelo meramente legislativo, ma della rimozione forzata dalla cultura del nostro paese di alcuni principi basilari dello stato di diritto.
Negli ultimi anni, grillini e leghisti hanno alimentato gli istinti giustizialisti dei propri elettori sventolando cappi, chiedendo dimissioni a ogni avviso di garanzia, moraleggiando su conversazioni private pubblicate illecitamente, usando politicamente la giustizia per i propri beceri scopi propagandistici. Ora lo faranno – chissà, forse per cinque anni – dalle poltrone del governo, con una forza comunicativa senza precedenti.

  

Aver subito nel corso del tempo il meccanismo della gogna anche su se stessi, sui propri amministratori locali o sui propri parlamentari indagati, non sembra aver scalfito minimamente nella Lega e nel M5s la volontà di continuare a nutrire questo mostro, riconoscendo alla magistratura un ruolo di supplenza sempre maggiore e picconando di fronte ai cittadini le istituzioni rappresentative e democratiche del paese. Come un falegname, cieco, che continua a tagliare sempre più convintamente un albero pur sapendo che poi alla fine cadrà su di lui, uccidendolo.

  

Così, se tutto andrà come annunciato, tra cinque anni rischiamo di ritrovarci in un’Italia trasfigurata, ansimante sotto il peso di una cultura illiberale diffusa e delle macerie delle istituzioni rappresentative. A quel punto, tutto potrà succedere.