Il regista Fausto Brizzi (foto LaPresse)

Il silenzio sui lapidati. Brizzi e il metodo Iene

Luciano Capone

Come si può distruggere la vita di un uomo fingendo di fare semplice giornalismo 

Roma. “Sarebbe bello che ammettesse come tutto ciò che le ragazze hanno detto a Le Iene è vero. Perché la pronuncia del tribunale non smentisce nulla di ciò che è stato raccontato. E una volta appurato che non avrà conseguenze penali sarebbe un bel gesto vederlo chiedere scusa”, ha detto a Repubblica Dino Giarrusso, autore dei servizi sul “caso Brizzi”, ex iena, già candidato M5s e attuale staffista in posti di sottogoverno. Al di là della vicenda giudiziaria, la richiesta di archiviazione della procura di Roma per il regista Fausto Brizzi, indagato per violenza sessuale in seguito alle denunce di tre donne, può servire per una riflessione sul giornalismo italiano.

 

E’ interessante ripercorrere la genesi di questa vicenda, esplosa sulla scia del “caso Weinstein” in America, soprattutto per fare un confronto sul metodo usato. L’inchiesta sul produttore americano, accusato alla fine di aver molestato e aggredito sessualmente un’ottantina di donne, parte da un lungo articolo di Ronan Farrow sul New Yorker che mette il nome di Harvey Weinstein già nel titolo.

 

La scelta di Giarrusso e delle Iene invece è diversa, il caso Brizzi parte senza Brizzi. Nei primi servizi non viene mai fatto il nome del regista romano. E questo per una forma di prudenza legale, per mettersi al riparo da possibili denunce, e non per una forma di accortezza rispetto alle accuse e alla persona accusata. Anzi, l’anonimato iniziale è stato un’utile condizione per evitare qualsiasi forma di cautela e costruire una gogna: “Attrici molestate: chi è il Weinstein italiano?”, è il titolo del primo servizio delle Iene, in cui viene descritto il profilo psichiatrico e criminale del Mostro: una persona malata, un predatore seriale.

 

Anche se Giarrusso e le Iene conoscono dall’inizio il nome del regista, preferiscono non farlo. Ci sono meno guai giudiziari ed è possibile calcare la mano: dalle avance alle molestie, fino alle violenze e agli stupri in serie dell’orco furioso con gli occhi rossi. Si butta lì qualche indizio, si dice che è un regista, poi che è romano, poi che è ultraquarantenne, poi che è autore di una decina di film di successo. Il cerchio si restringe sempre di più, parte la caccia all’orco, si fa filtrare qualche voce, finché il nome non finisce sui giornali come “sospettato” e parte il tritacarne mediatico.

 

Si costruisce una gogna, si descrive il profilo di un mostro e solo a quel punto ci si mette sopra la faccia di Fausto Brizzi, pronto per essere lapidato in pubblica piazza. Pur avendo sin dall’inizio tutti gli elementi e le testimonianze dirette per accusare esplicitamente Brizzi, le Iene preferiscono che a fare il suo nome siano altri, che esca indirettamente, di sbieco, sottoforma di pettegolezzo.

 

E di questo metodo alle Iene ne vanno orgogliosi. Così, in seguito alla richiesta di archiviazione della procura, ripercorrono la vicenda: “Dino Giarrusso ha raccolto molte testimonianze di attrici che hanno raccontato gli abusi subiti, dieci di loro accusano Brizzi – c’è scritto sul sito –. Nel primo servizio del 29 ottobre 2017 e nel secondo servizio, non abbiamo fatto il suo nome. Dopo che è uscito, indipendentemente da noi, abbiamo rivelato che dieci delle attrici da noi intervistate avevano accusato Brizzi di averle molestate con la scusa di provini per scene passionali nel suo studio (le attrici che lo accusano sono salite poi a 15)”. E poi, in conclusione: “Il 19 novembre abbiamo sostenuto che tutto doveva essere chiarito a quel punto in un’aula di Tribunale”.

 

Adesso che c’è stato un primo pronunciamento dei pm, in attesa della decisione del gip, sembra che il giudizio dei tribunali non vada più bene. Brizzi deve ammettere tutte le colpe e chiedere scusa, dice Giarrusso “perché la pronuncia del tribunale non smentisce nulla di ciò che è stato raccontato”. Brizzi è uno stupratore, anzi deve essere uno stupratore, perché così era stato stabilito sin dall’inizio, da quando gli era stato preconfezionato il vestito di “Weinstein italiano”. Se si riflettesse di più su un certo modo di fare giornalismo, informazione o intrattenimento o quel che è, che tra l’altro ha già fatto danni in tante altre circostanze, probabilmente Brizzi le scuse anziché chiederle dovrebbe riceverle.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali