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Per una nuova agenda liberale

Paolo Romani

Il centrodestra è diventato destra-centro e anche il bipolarismo è cambiato. Il progetto di un’Italia diversa

In uno scenario politico dove il centrodestra è diventato destra-centro e il nuovo bipolarismo è fra una sinistra pauperista anti industriale, anti infrastrutturale, anti società dello sviluppo e una destra securista e sociale, diventa prioritario non solo recuperare quella tradizionale area centrista ma ragionare fuori dagli schemi del bipolarismo come lo conosciamo. Questo deve essere l’obiettivo di una forza politica liberale e popolare.

  

Lega e Cinque stelle hanno saputo interpretare meglio di altre forze politiche non solo e semplicemente un voto di protesta come si è voluto credere, ma una forte esigenza di cambiamento, di un futuro migliore, sicuramente di una politica diversa. Hanno saputo meglio rappresentare la Paura del nord e il Malessere del sud. Ma gli italiani dal disagio vogliono uscire, non farvisi confinare, per essere trasformati in un elettorato affidabile. Indugiare in una certa rappresentazione di un’Italia debole che ha bisogno di alzare la testa sembra dare ragione a Pasolini quando diceva che siamo un paese senza memoria.

  

Lega e M5s hanno saputo meglio rappresentare la Paura del nord e il Malessere del sud. Ma gli italiani dal disagio vogliono uscire

Nel governo gialloverde una smania di semplificazione non solo comunicativa, ma che offre soluzioni semplici a problemi complessi

Forza Italia può svolgere un ruolo da protagonista in questo quadro post Seconda Repubblica, avviando una fase costituente che parta innanzitutto dall’interno del movimento fondativo del centrodestra, senza limitarsi ai principi, valori e tradizionali risposte ai problemi riconoscibili nelle vecchie divisioni degli schieramenti, ma facendo proprio un inno alla modernità, all’innovazione, sia in termini di proposta politica sia in termini di strumenti di comunicazione, partecipazione e coinvolgimento dell’elettore; e, cosa forse ancor più urgente, all’opposizione di questo governo e in difesa di quei pezzi dello stato e della società sotto il fuoco “amico” continuo e implacabile del governo stesso. Lasciano il tempo che trovano le accuse in stile grillino sui post su Instagram o i cinguettii contrapposti pro riders e pro voucher: restiamo sulla critica, dura ma costruttiva, e sulle questioni di merito.

 

In Parlamento l’affinità fra Lega e Cinque stelle è plastica e antropologica, impressionante nelle frenetiche ovazioni che scattano ad alcune parole d’ordine, non importa se del ministro salviniano o pentastellato. Li accomuna la tendenza a guardare al particolare perdendo di vista l’insieme, il bene comune; a far prevalere tanti piccoli No raccolti in una pesca a strascico sui social che si uniscono a formare un eterogeneo complesso reazionario, come nella confusione antiscientifica sui vaccini; li accomuna ancora una congenita incapacità a valutare i grandi numeri, che li porta a sbandierare ridottissimi risparmi come strabilianti operazioni di giustizia sociale a fronte di progetti di spesa esorbitanti; li unisce infine lo spirito giustizialista, forse più di quanto li possano dividere altri temi, ed anche l’eccesso di reazione, al limite del fallo, in ogni occasione, anche nelle emergenze, come quella del crollo del ponte Morandi di Genova. Reazione che non sempre è sinonimo di gestione dell’emergenza, come emerge nelle relazioni internazionali.

 

L’elettorato dei due movimenti è invece accomunato solo dalla voglia di riscatto. Un riscatto che questo governo temo non sarà in grado di dare. E non sono solo lo spread a paventarlo e la vendita record delle obbligazioni italiane da parte degli investitori esteri. Ma le critiche mosse dalle “lobby”, o meglio in italiano, gruppi di interesse, i cosiddetti “corpi sociali intermedi” che rappresentano appunto l’interesse comune a una categoria e cercano di sensibilizzare le istituzioni, la politica, l’opinione pubblica: criminalizzati e additati come nemici da questo governo nella continua caccia ai “poteri forti” e lotta a ogni intermediazione in favore della democrazia diretta, salvo poi rendersi conto che si tratta delle associazioni di categoria, come imprenditori, agricoltori, professionisti, sindacati, lavoratori… insomma, cittadini, elettori.

 

All’interno delle fasce più illuminate dei grillini ci si rende conto che se l’operazione di raccolta del consenso è stata per così dire un successo, non si può dire lo stesso del processo di trasformazione in azioni di governo delle promesse fatte. Ma la falla è a monte, in quell’utilizzo sapiente, e allo stesso tempo scadente, dello strumento di comunicazione e partecipazione del web in cui la Casaleggio Associati, l’azienda che dirige il movimento pentastellato, investe da anni e il personaggio Salvini ha saputo costruirsi e dominare la scena. Sapiente dal punto di vista quantitativo, scadente da quello qualitativo, con i tanti No che stanno ingessando l’esecutivo Conte, immobile nel paradosso che la voglia di cambiamento resti paralizzata dalla stessa paura del cambiamento.

 

Dall’altro canto se vogliamo superare la pars destruens e renderci partecipi della pars construens, dobbiamo prendere atto del fatto che il centrodestra come lo conoscevamo probabilmente non esiste più. Inutile rimanere affezionati a un seppur straordinario progetto politico perché in qualche giunta del nord, dove è nato storicamente e dove ha un radicamento territoriale, culturale e sociale, continuerà a governare per qualche tempo: nelle amministrazioni del territorio non ci si chiede prima di prendere una decisione se è di destra o di sinistra, si fa ciò che è giusto per il territorio.

 

Non comprendere quanto sta accadendo vorrebbe dire consentire di spazzare via, a destra quanto a sinistra, i valori, la cultura, la storia di un paese che ha saputo coniugare civiltà e integrazione, sviluppo economico e conservazione di una particolare specificità italiana, spirito di intrapresa e attenzione ai più deboli.

 

Il governo grillo-leghista si concentra sui problemi individuali, in quella che Barbano ha definito magistralmente “sindrome della sineddoche”, confondendo la parte per il tutto. Una smania di semplificazione che non è più solo comunicativa ma che si spinge a proporre solo semplici soluzioni a problemi complessi: troppi immigrati? si respingano i barconi; troppa povertà? si dia un reddito minimo garantito a tutti. George Bernard Shaw diceva: esiste una soluzione semplice per ogni problema complesso. Ed è sbagliata.

 

Anche la riflessione sulle concessioni dei beni dello stato, legittima e interessante in uno scenario in cui la politica economica ha perso molti dei suoi strumenti all’interno dell’Unione europea, perde di razionalità se frutto solo di quel “fallo di reazione” che accompagna tutto l’andamento sincopato da fughe in avanti e marce indietro di questo esecutivo. Si pensi allo scontro fra il Viminale e la Guardia costiera sul caso della nave Diciotti e quello ancora più grave e delicato da un punto di vista costituzionale fra potere esecutivo e potere giudiziario, in un continuo crescendo di toni che aldilà di tutte le valutazioni politiche e di merito non giova al paese e che finora ha portato da una parte la Ue a una chiusura totale e pretestuosa che probabilmente pagheremo anche su altri temi e dall’altra all’accoglienza sul nostro territorio di più della metà dei migranti presenti a bordo in uno status giuridico tutto da comprendere.

 

Il contrasto muscolare e urlato all’immigrazione è sicuramente una cifra di questo esecutivo o almeno del suo ministro dell’Interno. L’accoglienza indiscriminata promossa da una certa sinistra, perché non va dimenticata l’opera del ministro Minniti di cui ancora beneficiamo, ha sicuramente comportato un danno per il nostro paese in termini sociali, economici e di sicurezza, e anche per tutte quelle persone che attirate dalla possibilità di successo si sono messe in viaggio in balia di trafficanti e aguzzini trovano spesso la morte nel Mediterraneo. Ma il fenomeno dell’immigrazione meriterebbe un approccio sicuramente più articolato: che consideri gli equilibri geopolitici, il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale, la nostra presenza nel continente africano, il contrasto ai traffici criminali; e soprattutto tutta la fase successiva a quella emergenziale del salvataggio e della prima accoglienza, laddove come istituzioni abbiamo fallito se a fronte di una presenza di immigrati inferiore a quella di altri paesi dell’Unione la percezione dei nostri cittadini è sicuramente maggiore. Le schiere di immigrati lasciati allo sbando per mancanza di programmi adeguati e per le lungaggini burocratiche finiscono nella migliore delle ipotesi nei circuiti del lavoro nero, nella maggior parte dei casi purtroppo a ingrassare le reti criminali. Su questo dovrebbero concentrarsi gli sforzi di uno stato civile, ponendo particolare attenzione all’esito a cui sono destinati molti di quei minori non accompagnati che spariscono sul territorio italiano.

 

Ma sulla giustizia poco può condividere una forza liberale di quanto proposto da questa maggioranza: dietro agli slogan sulla certezza della pena, sull’eliminazione della prescrizione e sull’aumento dell’uso delle intercettazioni, di fatto si nasconde un complesso di riforme volte ad indurire l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena, nonché il trattamento dei minori in carcere; con un tratto di penna si è cancellata anche la proibizione a trascrivere le intercettazioni inutili ai fini delle indagini prevista dalla riforma Orlando, si tratta di tutte quelle conversazioni puramente private e prive di ogni rilievo per gli inquirenti che però finiscono ad ingrossare le pagine dei giornali; infine, l’apoteosi di uno stato illiberale e persecutorio, l’agente provocatore, un vero e proprio istigatore al crimine che valuta l’integrità morale e la capacità di resistenza alle tentazioni di ogni cittadino.

 

Se vogliamo davvero guardare oltre e disegnare un movimento in grado di superare le forze attualmente maggioritarie nella raccolta del consenso, dobbiamo non solo definire sistemi in grado di utilizzare le piattaforme digitali in modo ancora più efficiente, ma anche elaborare soluzioni a problemi che i cittadini sentono come prioritari, tenendo a mente il bene comune e non solo il singolo. Senza una visione di insieme, valori collettivi e un progetto per il futuro, si riduce la politica a una somma di bisogni individuali fino all’esaltazione del piccolo rispetto al grande che connota l’alleanza di governo: poche tasse, piccole aziende, poco lavoro, poca fatica, pochi immigrati… Ritornare a una visione di insieme ma liberi dalle tradizionali limitazioni del bipolarismo, applicando al territorio nazionale le logiche di buon senso e di interesse comune che guidano le amministrazioni del territorio più illuminate. Ecco che diventa evidente anche il senso e la necessità di far emergere quelle capacità, competenze, esperienze e, mi piacerebbe dire anche, professionalità di coloro che sul territorio hanno lavorato confrontandosi ogni giorno con problemi concreti. Attenzione al territorio dunque e alla best practice, ma con l’obiettivo di rilanciare l’Italia nei contesti internazionali.

 

I temi internazionali entrano nel dibattito politico ormai solo per i flussi migratori e le imposizioni europee. Per il resto è tema di osservatori. Come se l’Italia guardasse al resto del mondo da un piccolo oblò avendo rinunciato a prendervi parte. Anche nel limitatissimo campo europeo non “agiamo” ma “subiamo” regole decise in un “altrove” di cui dovremmo a tutti gli effetti far parte. E negli scenari più critici l’incapacità di questo esecutivo a guardare al complesso degli elementi sta mettendo a rischio il nostro paese. Penso alla Libia, un contesto in cui l’Italia dovrebbe utilizzare tutti gli strumenti di una nazione: e se quello diplomatico è sicuramente essenziale probabilmente non va esercitato rivolgendo imprecazioni allo scomodo ma basilare alleato europeo sul terreno, Macron, in uno scontro forse più personale fra “apocalittici e integrati” dell’Unione; né lasciando al solo ruolo simbolico di sostegno internazionale al governo Serraj la nostra ambasciata e il nostro ambasciatore, rappresentante dell’intera Repubblica Italiana, a fare da facile obiettivo. Ma gli strumenti di intervento di una nazione sono molteplici e raffinati, e comprendono sicuramente anche quello militare, e soprattutto un lavoro meticoloso di conoscenza e di relazione con il mutevole e complesso insieme di attori. E in questo senso dovrebbe far riflettere l’apertura, anticipata e forse già superata, del fascicolo delle nomine sui vertici dei servizi d’intelligence se fatta senza valutare le conseguenze in Libia in termini di sicurezza dei nostri cittadini, dei nostri interessi economici, dei rappresentanti della nostra Repubblica, del ruolo e dell’autorevolezza del nostro stesso Stato.

 

La politica estera di un grande paese come il nostro deve avere l’obiettivo di promuovere gli interessi nazionali. Le aziende italiane devono essere sostenute in Italia, con un sistema fiscale che induca agli investimenti e aumenti il potere d’acquisto dei lavoratori, come nei mercati internazionali dal sistema paese; le grandi filiere industriali devono essere protette in Italia dalle politiche commerciali dei nostri competitors; il settore agroalimentare e manifatturiero deve essere protetto dalle contraffazioni e promosso con un marchio qualificato e garantito di Made in Italy; le eccellenze italiane salvaguardate da mero shopping aziendale straniero. L’apertura di nuovi mercati per le nostre imprese deve essere un obiettivo primario, investendo anche nella promozione culturale del nostro paese dove anche la conoscenza della lingua italiana, della cultura e del vivere italiano fungano da campagna promozionale per i nostri prodotti. Valorizzando in un quadro di insieme le vocazioni culturali, ambientali di ogni singolo territorio, promuovendone gli interessi senza limitarsi al protezionismo casereccio e minimalista del “mangiamo italiano”. Se c’è un parco lo si renda fruibile nel rispetto dell’ambiente; se ci sono una costa e un mare ineguagliabili, li si renda fruibili al turista. Quanti ad Amburgo o Shen Zen sanno dell’esistenza di Paestum invece del solito Colosseo? Se la Manhattan del Medioevo che è San Gimignano, patrimonio dell’Unesco, è sconosciuta ai più che si precipitano solamente al palio di Siena, vi è un problema di comunicazione e di promozione complessiva del paese. Se siamo depositari del 50 per cento dei giacimenti culturali del mondo abbiamo il dovere e la responsabilità di esporli, anche attraverso gli strumenti digitali più avanzati, in un percorso ordinato che mostri l’Italia dall’Impero Romano al Rinascimento, senza dimenticare le sue mille chiese che la rendono il territorio di sviluppo della cultura, dei valori e delle tradizioni cristiane dell’occidente.

 

L’Italia dovrebbe porsi l’obiettivo di divenire una vera e propria piattaforma logistica per merci ed energia, lo snodo fondamentale fra occidente, medio oriente e continente africano, investendo nei sistemi di trasporto, nelle reti intelligenti, nell’accumulo delle fonti rinnovabili e soprattutto nella diversificazione. Fondamentale dunque il Tap e la realizzazione di tutte quelle connessioni che rendano l’Italia un hub energetico a livello euromediterraneo, senza dimenticare la possibilità per il nostro paese di essere anche un produttore di energia: con le fonti rinnovabili, sviluppatissime nel nostro territorio, ma anche quelle tradizionali. Le risorse petrolifere lucane, oltre a coprire parte del fabbisogno energetico nazionale, se ben sfruttate, potrebbero cambiare il profilo socio-economico di un’area svantaggiata senza danneggiare l’ambiente.

 

Serve un progetto politico al livello del grande paese che è l’Italia. Grandi progetti infrastrutturali e di ripristino delle aree degradate con importanti interventi dello stato e l’utilizzo dei fondi europei attraverso lo strumento dei contratti di sviluppo. Ma un grande progetto liberale non può non disegnare una nuova società in cui i diritti civili e le libertà individuali siano garantiti e difesi nel principio dell’uguaglianza, sia nell’ambito privato che pubblico, da uno stato che respinga fermamente il ruolo di stato etico.

 

Basta con l’italietta che deve alzare la testa, con l’autocommiserazione e la caccia agli untori: siamo responsabili tutti come italiani di un grande paese, una grande tradizione culturale, una grande civiltà, di valori e principi costituzionali. Come classe politica abbiamo il dovere di recuperare il ruolo di rappresentanza che è proprio di una repubblica parlamentare. La democrazia rappresentativa è un patrimonio inestimabile di libertà guadagnato anche a costo della vita dai nostri padri. Che Italia vogliamo lasciare ai nostri figli?

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