Jacopo Guarnieri prima della cronometro Riccione-San Marino dell'ultimo Giro d'Italia (foto LaPresse)

Ritmo a ruote ferme. Jacopo Guarnieri racconta il ciclismo sospeso dal coronavirus

Giovanni Battistuzzi

Le strade vuote, i ciclisti (e i podisti) trattati come untori, la normalità domestica e la surrealtà esterna. Parla il corridore della Groupama-FDJ

Quelle uscite pedalanti per Milano, quando la città iniziava a calmarsi e le ombre si allungavano e a poco a poco rapivano ogni cosa, le spiegò a don Zeno Saltini in poche parole, quelle necessarie a rendere conto di un’evidenza. “La bicicletta è il mezzo migliore che conosco per sfuggire un poco alla quotidianità, per addolcire le idee”.

 

In queste ultime due settimane le parole di Dino Buzzati sembrano essere invecchiate di secoli. Il coronavirus ha cambiato i connotati alla nostra vita, ha dilatato il tempo, ha congelato gli spazi, aumentato le distanze, capovolto ciò che pensavamo fosse ovvio e consueto, tanto che la quotidianità da cui fuggiva lo scrittore è quella che ora vorremmo riabbracciare. E mai come oggi avremmo bisogno di una bicicletta per addolcirci le idee.

  

Invece le ruote sono ferme, al massimo si muovono non muovendosi, girano su rulli che lasciano immobile il paesaggio, annullando ciò che il pedalare ha di più bello: lo scorrere di ogni cosa. Della strada, dei panorami, del vento, dei pensieri.

 

“È tutto molto strano, siamo in una situazione alla quale non eravamo preparati, perché è impossibile essere preparati di fronte a una pandemia del genere. E in questa impreparazione ci viene difficile trovare dei punti d’appiglio per valutare appieno cosa ci sta succedendo attorno”, dice al Foglio Jacopo Guarnieri. Guarnieri è dal 2009 che pedala in gruppo e da allora si è specializzato nel trovare appigli in quel tumultuoso gioco di onde che è una volata. È lì, nel flusso veloce di biciclette che scorrono verso il traguardo, che lui sa trovare la sua dimensione, sa guidare le ruote altrui, offrire la scia giusta al proprio capitano, trasformarsi in rampa di lancio. “Ora che correre non si può, che tutto è stato rinviato a chissà quando, tocca aspettare, non si può fare altro. E sperare che questo momento orribile passi in fretta”, si augura il corridore della Groupama-FDJ.

  

 

Una sospensione della normalità che paradossalmente soffre meno chi pedala per professione rispetto a chi la bici l’ha scelta come riempitivo di momenti rubati a famiglia, lavoro e riposo. L’agonia nella quale a volte vivono gli amatori alle prese con la bici appoggiata a un muro, quasi fosse l’immagine stessa di una normalità usurpata, è qualcosa che i corridori hanno imparato a gestire nel corso degli anni. Perché quando non sono sballottati in giro per l’Europa e per il mondo tra corse, ritiri, stage eccetera, “capita regolarmente di rimanere a casa anche per un mese di fila. Un tempo nel quale la bici è solo una piccola parte di una familiarità che in altri momenti ci è preclusa. Stiamo a casa – spiega Guarnieri –, usciamo un po’ in bici, facciamo cose semplici. È una vita ritirata, che a molti può sembrare una quarantena, ma che io come quarantena non l’ho mai vissuta: è quello il momento nel quale abbiamo la possibilità di stare con chi ci siamo scelti. È forse per questo che ancora, dopo due settimane, non la sto vivendo come qualcosa di eccezionalmente strano. È chiaro che la stranezza, la quasi surrealtà di questo momento, la si percepisce facilmente, accade quando si esce di casa per fare la spese e si incontra ovunque gente con la mascherina”.

  

Una vita ritirata che da scelta è diventata una necessità. I contagi crescono, le indicazioni del governo sono di stare a casa, di muoversi solo per necessità comprovata, siano queste di salute, lavoro o alimentare. I limiti comunali sono diventati muri, la libertà di muoversi si è ristretta, prosciugata per esigenza e per evidenza.

 

E chi su di una bici lavora, chi per professione pedala ha deciso di fermarsi, di aspettare momenti migliori per fare ciò che dovrebbe, nonostante tutto ciò sia una “comprovata esigenza di lavoro”, almeno stando alle norme. Una scelta, ma anche una necessità, perché fuori dalle case, lungo le strade molto spesso deserte, per i ciclisti continua il far west. “Già normalmente noi siamo la valvola di sfogo degli automobilisti, ora è anche peggio. In questo momento di grande nervosismo generale, in questi giorni difficili da comprendere e forse accettare, i ciclisti sulle strade si sono trasformati nel nemico pubblico, un po’ come accade ai podisti, si sono trasformati gli untori che diffondono il virus. Dovrebbe stare al buon senso capire che non è così”, racconta Guarnieri.

 

Il buon senso che hanno usato i corridori, già nei primi giorni di blocco. “Da subito, con il supporto della Federazione, abbiamo chiesto agli amatori di prendere coscienza della situazione, di non uscire. Abbiamo cercato di sensibilizzare la gente allo stare a casa, a diminuire drasticamente i pericoli di affollare strutture ospedaliere già in difficoltà”. Ma anche le loro pedalate si sono fatte più sporadiche, quasi assenti. Perché sono arrivati insulti e minacce. È successo a Manuel Belletti, Filippo Fiorelli, a Giovanni Visconti, a molti altri. “E dalle maleparole alle mani il passo può essere ahimè breve”. Sono arrivate non Italia, ma in Belgio. Hanno raggiunto Harm Vanhoucke, preso a calci e pugni mentre si allenava.

 

Restano i rulli, i pedali che vorticano mentre le ruote rimangono ferme. “Ora che tutto è sospeso, che se va bene si tornerà a gareggiare a giugno, sempre se la stagione ripartirà davvero, due o tre settimane di ferma non sono un problema. Lo sappiamo noi, lo sanno le squadre e la Federazione. Se questo blocco invece dovesse protrarsi ecco che i problemi ci sarebbero davvero – spiega Guarnieri – Perché l’allenamento in casa può essere una soluzione di ripiego, ma non può bastare. Servirà prendere una decisione, far capire alla gente che non stiamo uccidendo nessuno, anche perché solitamente non ci alleniamo in grandi gruppi, molto spesso siamo soli o con poca gente attorno”.

 

Intanto ci si tiene allenati come si può. E dato che lo si fa in maniera emergenziale, da fermo, tanto vale farlo ascoltando musica.

  

 

“Qualcosa di movimentato, che dia ritmo. In questi giorni di vita domestica sto ascoltando molti concerti”. Note apotropaiche. “Ho alternato i Muse, i Soulwax, centoventi concerti in un’ora di energia, e tanti live che ormai è facile trovare sulle piattaforme streaming. Ascoltare e avere le immagini di chi suona davanti ci aiuta a non percepire così claustrofobica la realtà”.

 

 

Perché in fondo “continuare a chiedersi quando tutto finirà o perché tutto questo stia succedendo può farci più male che bene. La situazione è questa, dobbiamo accettarla, continuare a sopravvivere nel modo migliore possibile, gustandoci ciò che abbiamo. Non dobbiamo in questo isolamento raggiungere il Nirvana, ma quanto meno dovremmo provare a vivercela bene, o quanto meno il meglio possibile. E per farlo la musica e i libri sono il miglior modo per tenere la mente allenata, libera, capace di guardare oltre ciò che ci sta attorno. Passerà, tanto vale tenerci pronti accettando l’assurdità di questi giorni”.

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