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a ruote ferme

Il ciclismo è un cetriolino dello Spreewald

Giovanni Battistuzzi

Uwe Raab, le biciclette al tempo della Ddr e le cose non negoziabili

Quando gli dissero che il suo futuro sarebbe stato pedalare, lui fece una faccia di circostanza di quelle che nascondevano un disappunto evidente. Fosse stato per lui avrebbe fatto altro. Anche niente, che a lui gliene fregava il giusto dello sport, non sentiva l’esigenza di farne la sua vita. E invece lo misero in bicicletta. C’era poco da lamentarsi però, che mica era possibile andare contro il volere dei funzionari del partito, anche perché si poteva dire “no grazie” quando ti dicevano che c’era da difendere il buon nome della Ddr?

 

Uwe Raab non era tipo da far rivoluzioni, iniziò a pedalare. D’altra parte gli avevano detto che aveva i parametri fisici perfetti per andare forte e a lui l’idea di diventare un campione iniziò a non dispiacergli. Pedalava e mordeva. I pedali, mai i freni, specialmente in volata dove seguiva l’unica regola che gli aveano insegnato: se ci passano le spalle ci passa tutta la bici. Ciò che preferiva mordere erano però i cetriolini dello Spreewald, quelli che producevano a pochi chilometri da casa sua, Wittenberg. Usciva in bicicletta per allenarsi e nella tasca posteriore ne aveva sempre almeno una mezza dozzina. Idratano, gli aveva detto il suo primo allenatore. E Uwe Raab era uno che ascoltava sempre. Anche se poi magari faceva di testa sua. Come nel mondiale dilettanti del 1983 quando gli dissero di aspettare lo sprint e lui scattò a due giri dalla fine, si portò dietro Niki Rüttimann per decine di chilometri prima di dargli due biciclette allo sprint. “Stavo bene”, si giustificò. Talmente bene che il terzo finì a 4 minuti e tutti gli altri a oltre 16.

 

Qualche giorno dopo partì per il Tour de l’Avenir con dieci vasi di cetriolini. Tornò a casa con due vittorie sfumate, la certezza di aver fatto un figurone e la preconvocazione per la 100 chilometri olimpica dell’anno successivo. E con i compagni che si ritrovava sarebbe stata una medaglia era garantita. Peccato che l’Urss decise di boicottare i Giochi e che la Ddr la seguì.

 

Dovette aspettare cinque anni e la caduta del Muro per liberarsi dal limbo della Repubblica democratica e del dilettantismo, perché uno come lui non scappa dalla sua terra. Aspetta, accetta, pedala e mangia cetriolini. E non smise di farlo nemmeno tra i professionisti, nemmeno verso la cima dell’Alpe d’Huez al Tour del 1990. L’ex maglia gialla Jack Bauer in primo piano e lui qualche metro più indietro con la faccia affaticata e un cetriolino a mo’ di sigaro. Perché per lui non c’erano mezze misure: ascoltava tutto, ma faceva come gli pareva e a lui pareva sempre il tempo per un cetriolino.

 

Non tradì se stesso nemmeno cinque anni dopo, quando aveva raggiunto lo squadrone tedesco della Telekom e una certa stima in squadra. Gli proposero un trattamento sperimentale per migliorare le prestazioni. Disse di no e si ritirò. Di sostanze ne aveva già prese troppe, rischiare ancora a 33 anni gli sembrava troppo. Tornò a Wittenberg, che non era più Ddr, ma comunque casa sua.

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