a ruote ferme

Zandegù e il canto delle Fiandre

Giovanni Battistuzzi

Il 2 aprile del 1967 il corridore veneto conquistava la Ronde. E sul palco intonò un O' sole mio per salutare le centinaia di italiani che avevano preso pioggia e freddo pur di vedere la corsa

L'avevano atteso per tutto il giorno. Ma niente, non era arrivato. E sì che era il primo d'aprile. E sì che lui era lì con loro. Nessuno scherzetto. Nemmeno a cena. Fu così che Poggiali guardò Zilioli che guardò Gimondi che guardò Luciano Pezzi. E tutti si scrutarono preoccupati. Così quando lui si alzò da tavola, Pezzi lo seguì. "Che succede?". "Niente". Che poi mica era vero. Un casino in testa, storie che si rincorrevano, di veneti come lui scappati dalla fame e arrivati sin lassù per far la fame uguale. "C'ho pensieri". Pezzi gli mise una mano sulla spalla, tre parole, ma dolci: "Tocca farli passare". Non c'era altro da fare.

 

Ci dormì sopra, ma mica funzionò. L'indomani la sua testa era ancora in confusione. Toccò ancora al vecchio provare a mettere ordine. "Te ti metti alla ruota di Merckx e non lo molli". Non poteva andare peggio. Mica semplice stare a ruota del belga. Che sì era alla seconda stagione tra i pro, ma aveva vinto già due Sanremo e sei corse nei due mesi precedenti. Voleva rispondergli, "stacci tu alla ruota di Merckx se ci riesci". Non disse niente. Mica c'era da questionare col Luciano. Pezzi gli prese i guantini e ci scrisse sopra un numero. 130. "Non perderlo. Devi essere la sua ombra". Poi parlò alla squadra: "Tutti per Felice".

 

Faceva freddo, pioveva e tirava vento. Normale di quella stagione a Gent. Tutto intirizzito, mentre le biciclette avevano già iniziato a muoversi, si mise a cercare il 130. E quando lo trovò iniziò a curargli le spalle. Merckx avanzava e lui pure. Arretrava e lui pure. Scattava e toccava andargli dietro. Anche sul Grammont, e poco importa se si percorreva solo per metà. Il belga ci provò, lui a ruota. Con loro in pochi. Foré, Gimondi, Hoban e Monty. Gli altri tutti dietro. Sul Kasteelstraat con loro due rimase solo Foré. Il 130 sbuffava, avrebbe voluto la solitudine, ma quei due non si schiodavano.

 

Il Giro delle Fiandre volgeva a conclusione, poche decine di chilometri e tutto sarebbe finito. Il belga continuava a tirare e a sbuffare. Si voltava di tanto in tanto a controllare. E la sua faccia era sempre più rossa. Fu allora che lui lasciò la sua ombra. Si disse: "Sia mai che sia il giorno buono". Uno scatto, secco, deciso. Cento, duecento, trecento metri. Quando si girò vide solo Foré. Merckx era un puntino lontano. Si disse: "Se non ora mai più". E si mise a pedalare come un ossesso. Dietro Foré gridava "piano". Ma piano un corno. Il traguardo era vicino, la fiamma rossa superata. Lui si alza sui pedali, toccava dare tutto e lui tutto diede. Volata lunga, lunghissima, eterna, vincente.

 

Fu allora che sul viso di Dino Zandegù tornò l'espressione di sempre, quella della felicità. Che c'era da non crederci. Ma era tutto vero? La folla sul traguardo urlava. E urlava il suo nome. "Zandegù-Zandegù-Zandegù". Era tutto vero. Pezzi lo raggiunse. Si abbracciarono, quasi lo strozzò di felicità. Attorno a loro facce scure di lavoro e fatica. Ma esultanti. Adriano De Zan cercava le parole che aveva perso alla fine della radiocronaca. "Ci sono italiani che sono qua da stamattina a prendere acqua e freddo. Fai qualcosa". Lui fece cenno di sì. E una volta sul palco, dubbioso sul da farsi, iniziò a fare ciò che più gli piaceva. Si schiarì la voce.

 

"Che bella cosa na jurnata 'e sole
N'aria serena doppo na tempesta
Pe' ll'aria fresca pare gia' na festa
Che bella cosa na jurnata 'e sole
Ma n'atu sole
Cchiu' bello, oi ne'
'O sole mio
Sta 'nfronte a te".

 

Cantò la sua vittoria, il suo riscatto, il riscatto di tanti.

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