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Tra i fantasmi di Roglic

Giovanni Battistuzzi

Lo sloveno domenica ha vinto la sua seconda Vuelta dopo aver rischiato di perderla sabato sull'Alto de la Covatilla. Le due anime di un campione che cerca nell'evanescenza di far scomparire se stesso

Gli incubi sono ricorsivi, prendono strade ignote, sembrano sparire, poi ricompaiono quando le dinamiche della vita sembrano avvicinare frammenti di passato al presente. Per Primoz Roglic gli incubi si materializzano il sabato, l’ultimo sabato di corsa.

 

Era un sabato quando, il primo giugno del 2019, le gambe alzarono bandiera bianca sul Croce d’Aune, accartocciando le sue speranze di ribaltare un Giro d’Italia che per quasi due settimane aveva creduto di poter mettere in bacheca.

 

Era un sabato quando, il 19 settembre 2020, verso la Planche des Belles Filles il giallo della sua maglia iniziò a sbiadire, a stingersi metro dopo metro e ritornare a essere semplicemente il giallo più scuro e macchiato di blu di campione sloveno. Perché mentre lui arrancava invece di volare, come era solito fare a cronometro, il connazionale Tadej Pogačar ribaltava il Tour de France cacciandolo a pedate dal gradino più alto del podio che era sicuro di poter salire sugli Champs-Élysées.

 

 

Cadeva di sabato anche il 7 novembre, il giorno dell’ultimo arrivo in salita della Vuelta España, penultimo giorno della corsa a tappe spagnola e del ciclismo, almeno World Tour, annanta 2020. E come ogni sabato qualunque, un sabato sloveno, Primoz Roglic ha fatto i conti con i suoi fantasmi. Questa volta hanno assunto le sembianze sorridenti e sudamericane di Richard Carapaz. Lo sloveno ha perso prima la ruota dell’equadoriano, poi il contatto visivo. Questa volta però non è affogato nei suoi incubi, s’è fatto forza, ha trovato l'aiuto del compagno Lennard Hofstede, ha ripreso contatto con il mondo e forse con se stesso. In cima all’Alto de la Covatilla Roglic ha perso ventun secondi, ventiquattro in meno del limite massimo consentito, quello che avrebbe tramutato in beffa un altro grande giro.

 

 

Ventiquattro secondi che sarebbero stati otto in più del tempo impiegato da Carapaz per coprire i 2.887,2 esclusi gli abbuoni. Un dato che è stato fatto notare dalla stampa spagnola, forse, per rendere meno rossa la maglia indossata ieri sul podio finale di Madrid dallo sloveno. Gli abbuoni fanno da quasi un secolo parte del ciclismo e Roglic non è il primo e probabilmente l’ultimo a conquistare una corsa a tappe grazie a questi.

 

La conquista della seconda Vuelta consecutiva con ogni probabilità non renderà Roglic diverso da quello che è sempre stato. Dietro a quella maschera fredda e a tratti evanescente si nasconde lo stesso ragazzo che nel 2015 alla Dnevnik raccontava i suoi primi successi della sua seconda vita sportiva, quella sulle pedivelle. “Esiste sempre un momento nel quale un atleta si trova davanti a difficoltà che non aveva previsto. Lo è stato per me quando non riuscivo più a saltare con gli sci con la stessa efficacia di quando lo facevo da ragazzino e vincevo. Esiste una paura di non farcela che si nasconde in ognuna di noi. Sta a noi però non farla diventare totalizzante. Sugli sci non ce l’ho fatta a controllarla, mi aveva risucchiato la voglia di saltare. Con la bici questo problema non si è presentato e credo non si possa ripresentare. Amo pedalare, non ho problemi a farlo. Cercherò di fare sempre del mio meglio, poi chissà come andrà il futuro. Farò di tutto per essere migliore, se basterà per esserlo anche rispetto agli altri sarà una gran soddisfazione”.

 

Roglic non è uno che si perde in chiacchiere e in proclami. Non lo ha fatto un anno fa dopo aver conquistato la sua prima Vuelta. Non lo ha fatto il quattro ottobre dopo aver vinto la sua prima Liegi-Bastogne-Liegi. E neppure ieri con la maglia rossa addosso e il secondo trofeo alla corsa a tappe spagnolo. A lui basta un’occhiata di striscio, quella che è un avviso ai naviganti: ce l’ho fatta, ho vinto, tutto è stato detto in strada, lasciatemi scomparire per un po’ non ho altro da aggiungere. Un Roglic pubblico che è antitesi del Roglic privato, sempre pronto alla risata, agli scherzi, sempre pronto a "fare il pazzo", cioè a fregarsene ampiamente della paura di fare cose inconsuete. 

 

La sua vita sportiva sembra essere avvolta in una totale assenza di pensieri, animata da una convinzione ferrea, da una leggerezza superiore che lo rende evanescente. Almeno sino a quando arriva il sabato che precede la fine di un grande giro. Il suo volto per una mezz’ora si trasforma, i suoi occhi si perdono in un vuoto indecifrabile. Un campione che si maschera dietro l’assenza, ma che invece raccoglie in sé tutte le incertezze che ha ognuno di noi alle prese con la vita.

  

Roglic convive con le sue paure, con i suoi fantasmi. Scappa da loro, cerca di inghiottire tutto, usa le vittorie come curativo, come via maestra per non pensarci troppo. Non è un invincibile, ha gli stessi timori di un ragazzino che si affaccia a un mondo che non conosce e che, in fondo in fondo, di conoscerlo non gli va nemmeno troppo. 

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