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L'estasi di Tadej Pogačar (che ha vinto il Tour de France)

Giovanni Battistuzzi

Ciò che sembrava improbabile è successo. Roglic ha perso la maglia gialla a cronometro. Il ventunenne sloveno oltre a La Planche des Belles Filles ha conquistato pure la Grande Boucle

Tadej Pogačar una volta superato lo striscione d’arrivo in cima a La Planche des Belles Filles c’ha messo quasi un centinaio di metri a fermarsi. Ha schivato i fotografi, un commissario di percorso, pure i membri non pedalanti della sua squadra, il Team UAE Emirates. Ha scosso un paio di volte la testa, ha sorriso e sbuffato. Poi ha ingrossato la cassa toracica in cerca d’ossigeno, ha espirato, sempre tenendo la testa bassa, come se tutto il resto non esistesse, come se si volesse concedere un momento per sé. O forse solo per farsi un po’ rincorrere, ché a cronometro nessuno ti insegue davvero, voltarsi non ha senso, se qualcuno sopraggiunge da dietro ce se ne accorge facilmente e anche ben prima che questo arrivi: sono le gambe ad avvisare. In una cronometro non si scappa da niente, non ci sono allunghi da fare, al massimo si accorcia: lo spazio, il tempo, la sofferenza. Tadej Pogačar ha abbassato il capo sul manubrio mentre la sua cassa toracica continuava a muoversi su e giù. Quando ha rialzato la testa si è guardato attorno senza guardare nulla. L’accorciamento era finito davvero. Doveva capire solo una cosa, che non era per nulla marginale, se l’avevano preso in giro dall’ammiraglia, se quello che aveva sentito, tutto quell’entusiasmo che aveva percepito attorno a lui nelle ultime centinaia di metri prima del traguardo era o meno giustificato dalla realtà. 

 

Gli occhi di Tadej Pogačar hanno vagato un po’ nel vuoto in cerca di un punto di riferimento che non trovava. Erano occhi aperti, quasi sbarrati, rivolti leggermente all’insù, com’è d’uopo per i personaggi ritratti in un’estasi. Misticismo a pedali, in questo caso. 

  

Occhi simili e opposti a quelli aperti, quasi sbarrati di Tom Dumoulin e Wout Van Aert. Quelli dell’olandese e del belga del Team Jumbo-Visma però non hanno vagato nel vuoto, il loro punto di riferimento sapevano benissimo qual era. Si trovava a poco più di un chilometro più a valle. Era intento ancora a pedalare su di una bicicletta, a tirarsi il collo salendo per percorrere nel minor tempo possibile l’asfalto che gli rimaneva davanti. Tutti metri di troppo. 

 

 

Non si sono mossi Dumoulin e Van Aert, non si sono nemmeno guardati. Sono rimasti immobili, in silenzio, stupiti, incapaci di riconoscere in quelle spalle tremolanti, in quel viso di cipria e tirato, in quel caschetto in bilico sulla testa, in quegli occhi impauriti la fisionomia del loro capitano. Non sembrava lui. Probabilmente nemmeno Primoz Roglic, fosse stato lì con loro si sarebbe riconosciuto. 

 

 

Le cronometro sono molto spesso uno specchio deforme, ingannano ingigantendo o minimizzando difetti e pregi. Ma sono uno specchio infrangibile, che non si può rompere, un giudizio spietato e sprezzante, che prende tra capo e collo e amplifica i rimorsi per le occasioni lasciate, lasciando un senso d’amaro, di volontà di rivalsa. Una rivalsa che però non potrà essere immediata, che avrà bisogno di tempo, molto, per essere esaudita, ché domani è Parigi e sarà l’ultimo giro di giostra. Giostra dalla quale Roglic è sceso dopo essersela gustata, averla creduta propria. 

 

 

Le cronometro sono molto spesso un ritratto fedele, che non mente. Pennellate che colgono i sentimenti, non solo l’immagine. Ma questo lo pensa solo chi le cronometro le vince. E forse c’hanno ragione loro. Perché questo è sport e chi vince, in un modo o nell’altro, ha sempre ragione. Ragione aveva Tadej Pogačar quando diceva – prima della partenza – che “tutto può accadere” perché “è difficile guadagnare ma è facile perdere”, ché in fondo l’andare contro il tempo è una questione di digestione, bisogna sempre far i conti con quello che le gambe hanno mangiato nelle ultime tre settimane. E quelle del ventunenne sloveno si vede che erano state più leggere. 

  

Tadej Pogačar ha vinto la ventesima tappa del Tour de France, la cronometro che congiungeva Lure a La Planche des Belles Filles.

 

 

Ma questo era prima che il ragazzino riabbassasse gli occhi. Per fargli interrompere l’estasi c’è voluto che il contasecondi, da cinquantasette scendesse a zero, che la linea d’arrivo fosse ancora terra di nessuno. È allora che l’estasi è diventata libidine. È allora che la sua bocca ha soffiato fuori tutta l’inquietudine e si è allargata in un sorrido. Il momento esatto nel quale ha capito che non mentivano dall’ammiraglia. Tadej Pogačar ha vinto il Tour de France. E quel Tadej Pogačar era proprio lui, l’altro sloveno, quello giovane, che compie ventidue anni lunedì, quello che doveva arrivare secondo, ché questo è ciclismo, mica fantascienza: quando mai Roglic perde oltre un minuto a cronometro? Oggi. 

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