Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha detto che l’incontro di venerdì dovrebbe essere un “trampolino di lancio verso una successiva riunione fisica” (LaPresse)

Quell'Europa succosissima

Paola Peduzzi, Micol Flammini e David Carretta

Conti alla mano, anche i governi frugali e i paesi di Visegrád sanno che essere solidali con il resto d’Europa conviene perché il mercato interno vale tanto

Il vertice europeo di domani sarà in videoconferenza e sarà “un trampolino di lancio” verso un altro appuntamento – di persona – in cui si definiranno meglio le regole del Recovery fund. Questo vuol dire che non dobbiamo aspettarci risultati concreti sul fondo e sul bilancio 2021-2027 dell’Unione europea. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è stato molto diretto, nella lettera di invito ai leader dei paesi membri: “Il nostro incontro venerdì dovrebbe essere un importante trampolino di lancio verso un accordo in una successiva riunione fisica”, ha scritto, elencando punti di convergenza e divergenza tra i 27. Da Bruxelles, David Carretta ci accompagna tra le buone notizie, quelle cattive e soprattutto nel negoziato in corso, un grand bargain europeo, diciamo.

 

La convergenza

Michel conta di usare il rebate per convincere Austria, Olanda, Svezia e Danimarca che non sono così coesi, ma molto irritati

Sul principio del Recovery fund sono tutti d’accordo (o quasi): sta emergendo un consenso sulla necessità per l’Ue di “una risposta eccezionale a questa crisi senza precedenti, commisurata alla magnitudo della sfida”. Le cose si stanno mettendo bene anche sulla mutualizzazione. Il consenso è che il Recovery fund “debba essere finanziato attraverso emissioni della Commissione sui mercati finanziari”. C’è convergenza anche sugli aiuti da indirizzare verso “i settori e le parti geografiche dell’Europa più colpiti” e sul fatto che il bilancio 2021-2027 debba essere “aggiustato per tenere conto della crisi” del coronavirus. Ma sui dettagli del Recovery fund un accordo appare molto lontano.

   

La divergenza

Servono “ulteriori chiarimenti” o “i punti di vista devono ancora convergere”, ha scritto Michel, facendo un elenco molto lungo di ciò che divide i 27: “Le dimensioni e la durata dei vari elementi” del piano, “il modo migliore per allocare” le risorse, “la questione dei prestiti e dei sussidi”, “la condizionalità e la governance”. E anche sul bilancio 2021-27 le posizioni sono lontane: sull’ammontare complessivo, sul finanziamento, sulle risorse proprie e i cosiddetti “rebate” (gli sconti), come quello ottenuto da Margaret Thatcher al grido “I want my money back”.

 

Che cosa vogliono i frugali (divisi)

Il lodo thatcheriano del rebate è il trucco con cui Michel spera di convincere i quattro paesi frugali a dare il loro assenso al Recovery fund e al bilancio dell’Ue. Le posizioni di Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia non sono così coese. “In ciascuna capitale il dibattito interno riguarda temi diversi”, dice al Foglio una fonte europea. All’Aia si insiste molto sulle condizionalità. A Vienna la coalizione tra cristiano-democratici e Verdi è divisa. A Copenaghen c’è la preoccupazione di rimanere isolati. A Stoccolma c’è irritazione per il fatto di dover pagare il debito degli altri. Ma un articolo firmato dai quattro premier frugali – l’olandese Mark Rutte, l’austriaco Sebastian Kurz, la danese Mette Frederiksen e lo svedese Stefan Löfven – mostra che il fronte non si è ancora disfatto e che contestano un sacco di dettagli. “Quando prendiamo in prestito denaro insieme nell’Ue, il modo fondamentalmente sano di utilizzarlo è di convertirlo in prestiti per coloro che ne hanno davvero bisogno, alle migliori condizioni possibili”, hanno scritto sul Financial Times i quattro frugali. Gli investimenti con i soldi europei devono essere accompagnati “da riforme” e “principi economici sani” che “permettano che i prestiti siano ripagati”. Secondo i frugali, distribuire le risorse “sulla base delle statistiche pre crisi semplicemente non ha senso”. Infine, la durata del Recovery fund deve essere limitata “alla fine del 2022”. I quattro paesi chiedono anche di limitare il bilancio 2021-2027 dell’Ue, dando priorità ad alcune spese: “Il denaro dovrebbe essere usato con attenzione e solo dove sappiamo che farà davvero la differenza”.

  

Il prossimo appuntamento

Michel ha chiesto ai leader “senso di responsabilità e determinazione per uscire da questa sfida enorme uniti e forti”, perché vorrebbe arrivare a un accordo prima della pausa estiva. Nei corridoi fisici e virtuali – Zoom è diventato uno degli strumenti fondamentali per far funzionare la macchina comunitaria – si vocifera di un possibile nuovo vertice su Recovery fund e bilancio 2021-27 il 9 luglio, oppure il 19 luglio, oppure il 9 e 19 di luglio, o forse a ridosso di agosto. Il ministro olandese delle Finanze, Wobke Hoekstra, ha detto che sarà difficile trovare un accordo prima dell’autunno. Il suo collega tedesco, Olaf Scholz, ha parlato di settembre. “Un fondo per la ripresa deve essere per la ripresa, non quando tutto sarà finito”, dicono al Foglio fonti francesi. Ogni settimana di ritardo rischia di ritardare la partenza del Recovery fund ben oltre il primo gennaio 2021. Ma quando si tratta di soldi, i capi di stato e di governo si trasformano tutti in 27 piccoli Thatcher.

“I want my money back” - 2020

Ognuno ha del denaro da chiedere indietro. La Francia sull’agricoltura. I quattro paesi frugali con gli sconti al contributo nazionale al bilancio. I paesi dell’est sulla coesione. A peggiorare le cose c’è la Brexit, che priva l’Ue di un grande contributore netto. Solo l’Italia, a causa della caduta del suo pil anche prima della crisi del coronavirus, ci guadagna. Tutti gli altri ci rimettono. Ma chi pagherà il conto più salato di tutti è la Germania.

 

Il valore aggiunto

La cassaforte non è costituita dai fondi strutturali, dalla Pac o dal Recovery fund, ma dai benefici del mercato interno

Secondo i calcoli del ministero delle Finanze di Berlino, il contributo tedesco al bilancio Ue per il periodo 2021-2027 passerà da 31 miliardi a 44 miliardi l’anno: più 42 per cento. E questo, senza contare il rimborso del debito europeo fatto con il Recovery fund, che inizierà solo a partire dal 2028. Per la Germania l’Ue è un investimento politico, ma anche e soprattutto economico, così come per gli altri 26 stati membri. David Carretta si è immerso nei dati, ed è venuto fuori con questa sintesi. La cassaforte non è costituita dai fondi strutturali, dalla politica agricola comune o dal Recovery fund. Il valore aggiunto è dato dai benefici del mercato interno. Se il contributo nazionale tedesco sale a 42 miliardi, il beneficio che trae la Germania dal mercato interno è pari a 208,02 miliardi, secondo le stime della Commissione europea: il 5,22 per cento del pil. Ai quattro paesi frugali va ancora meglio. Il mercato interno vale il 9,46 per cento del pil per i Paesi Bassi (84,02 miliardi), il 7,86 per cento del pil per l’Austria (35,61 miliardi), il 6,21 per cento del pil per la Danimarca (22,04 miliardi), il 5,31 per cento del pil per la Svezia (29,39 miliardi). Questo lo riconoscono anche i premier dei paesi frugali nell’articolo sul Financial Times: “I lavoratori di Volvo in Svezia e Philips in Olanda dipendono dallo sviluppo economico in Grecia e Slovacchia. Più forti sono le economie italiana e spagnole, meglio sarà per Danimarca e Austria”. Per l’Italia il rendiconto del mercato interno è meno positivo, ma comunque straordinariamente in attivo: per 3,97 miliardi l’anno versati al bilancio dell’Ue (in media tra il 2014 e il 2018), il beneficio del mercato interno è pari a 81,63 miliardi (il 4,33 per cento del pil).

   

Le giravolte di Visegrád

La retorica antieuropea si ammorbidisce alquanto quando si guardano i saldi netti. Vale anche per l’Italia

La logica del rendiconto è quella che ha fatto fare una giravolta sul Recovery fund a Viktor Orbán. Il premier di Budapest aveva prima sbraitato contro la proposta della Commissione perché fare debito per le generazioni future va contro la morale ungherese. Poi, sotto la pressione della Polonia e dopo aver fatto i conti per il suo stesso paese, Orbán si è quietato. Per il gruppo di Visegrád il beneficio del mercato interno è insostituibile: per la Repubblica ceca vale l’11,50 per cento del pil (27,62 miliardi), per la Slovacchia l’11,35 per cento del pil (13,22 miliardi), per l’Ungheria il 10,83 per cento del pil (17,87 miliardi), per la Polonia il 7,10 per cento del pil (43,83 miliardi). L’altra manna è data dai fondi del bilancio comunitario. Tra il 2014 e il 2018, l’Ungheria è il principale beneficiario dell’Ue in termini relativi con un saldo netto positivo di 4,02 del pil (4,64 miliardi). La Polonia è il principale beneficiario dell’Ue in termini assoluti con 10,65 miliardi (il 2,40 per cento del pil). La Slovacchia riceve dall’Ue 1,82 miliardi in più di quelli che versa al bilancio comunitario (2,20 per cento del pil), la Repubblica ceca 3,51 miliardi (2,08 per cento del pil). E altri miliardi arriveranno grazie al Recovery fund: 63,8 per la Polonia, 19,2 per la Repubblica ceca, 15,1 per l’Ungheria e 12,8 per la Slovacchia. Quanto basta per ammorbidire, diciamo, la retorica sovranista e anti europea di Visegrád.

 

Il lato oscuro dell’Ue

La prof. ungherese Petö ci spiega il rischio che corre il progetto europeo quando si accontenta “del minimo liberale”

Andrea Petö è una docente della Central european University ed è un’osservatrice molto attenta dei movimenti illiberali e dei loro effetti sulla società. “La pandemia ha reso più visibili le differenze già esistenti – dice Petö – L’Ue ha la capacità di inventare un nome in codice per tutto e questo le ha evitato di parlare di problemi reali come le disuguaglianze. Questa strategia deve cambiare”. Il coronavirus ha dato un nuovo impulso, ma le divergenze restano e sembra quasi che esista un filo rosso che collega la mancanza di solidarietà in Europa, fondamentale per curare le divergenze, e il populismo che secondo Andrea Petö è nato da una cultura dell’insicurezza “che si è rafforzata nel 2008 con la tripla crisi – economica, della sicurezza e dei migranti – che ha aperto una stagione in cui le risposte populiste hanno iniziato a sembrare normali e venivano sostenute anche dai politici normali”. I quattro di Visegrád che in questi anni hanno mostrato poca solidarietà nei confronti degli altri paesi e dell’Ue, pur avendo ottenuto molto negli anni da Bruxelles. Soprattutto Ungheria e Polonia. “Budapest e gli altri paesi della ‘nuova Europa’ sono stati incorporati in una comunità commerciale e finanziaria. La trasformazione in questi paesi ha privilegiato l’attenzione per le misure economiche e per quelle civili, creando una situazione paradossale in cui le forze illiberali sono fiorite nel mezzo di una rivoluzione liberale incompiuta”. Bruxelles ha chiuso un occhio su quello che la docente ungherese chiama “il lascito oscuro dell’Europa”, si è accontentata “del minimo liberale”. Tra i paesi di Visegrád c’è chi ha fatto fatica a sentirsi europeo, questo è uscito fuori con ogni crisi e si ripropone adesso, e questo senso dell’europeismo a metà si è innestato su un sistema democratico fragile.

 

A proposito di Duda

Ieri sera c’è stato il primo dibattito in tv tra i candidati alla presidenza della Polonia prima delle elezioni del 28 giugno. A ospitarlo era il canale TvP, acronimo che starebbe per TvPolska ma che i polacchi chiamano ormai TvPiS, è l’emittente più seguita e in questi anni è criticata per la sua propaganda anti europea, per le notizie false sui politici dell’opposizione e per un certo linguaggio che ha aumentato l’odio e le divisioni. Magdalena Adamowicz, moglie di Pawel, il sindaco di Danzica accoltellato al cuore lo scorso anno, ha scritto un messaggio su Twitter diretto al candidato del PiS: “Prima del ‘dibattito’ voglio rivolgere ad Andrzej Duda due parole: Pawel Adamowicz”. Durante la serata i padroni di casa, il PiS, hanno avuto un trattamento di favore, tuttavia l’attuale presidente e di nuovo candidato fa fatica e anche il suo partito inizia a essere stanco delle sue gaffe, della sua incapacità di difendersi da solo dagli attacchi degli avversari e anche della sua impreparazione. Duda non è un leader, è uno specchio della volontà di Jaroslaw Kaczynski, leader del PiS, un esecutore finora molto protetto dal “suo supervisore”, come lo chiama Donald Tusk, ma non brilla certo per la sua capacità di iniziativa e finché, in piena crisi sanitaria, non c’era nessuna campagna elettorale, Duda girava per ospedali e rilasciava dichiarazioni per raccontare quanto il suo partito stesse gestendo bene la pandemia. Adesso che c’è una campagna elettorale e che gli altri candidati sono agguerritissimi, fa fatica a difendersi dalle accuse, soprattutto due: dov’è il piano per il rilancio economico? Dove sono le mascherine promesse? Duda non sa rispondere, parla spesso a sproposito, non sa lottare – e i suoi sfidanti sono dei grandissimi lottatori – e non potendo beneficiare del suggerimento continuo di Kaczynski, distrae parlando a sproposito. Oltre agli attacchi alla comunità Lgbt, ha promesso di sostituire le foreste con del calcestruzzo, per fare un esempio. Dell’Ue non parla più, non l’attacca e non la loda, ha imparato che per i polacchi, anche per i più conservatori, l’europeismo non è un bancomat. Adesso però il principale partito di opposizione (Ko) ha un nuovo candidato, Rafal Trzaskowski, il sindaco di Varsavia, che da giorni percorre in lungo e in largo la Polonia con il motto “un presidente forte. Una Polonia per tutti”. Trzaskowski ha trasformato questa elezione in una lotta per la libertà, la democrazia e l’Europa. L’altro candidato che piace è Szymon Holownia, ex giornalista, indipendente, che nei sondaggi va molto bene. Duda è in vantaggio, ma sarà probabile un secondo turno e il PiS si è accorto che ci sono dei rischi. Duda ha anche provato ad attrarre il voto dei giovani esibendosi sui social in canzoncine rap, ma il risultato è stato disastroso. Adesso punta tutto su un colpo di scena. Ieri Politico raccontava che il presidente polacco spera di essere ricevuto alla Casa Bianca e di ottenere da Donald Trump la promessa di più truppe sul territorio. La stampa polacca conferma che la visita potrebbe avvenire il 24 giugno, quattro giorni prima del voto.

 

L’Ungheria senza emergenza

Il Parlamento di Budapest ha votato la fine dello stato di emergenza in Ungheria. I poteri speciali e pieni dovranno essere riconsegnati al Parlamento, ma non è un ritorno alla normalità, è un limbo, perché, hanno detto i deputati, rimane il pericolo di una seconda ondata, quindi il premier Viktor Orbán potrà continuare a governare per decreto. Lo stato d’allerta rimmarrà alto, hanno detto, e Vera Jourová, vicepresidente della Commissione, ha fatto sapere che questo sarà il momento della verità, e che si aspetta che le cose tornino alla vecchia normalità. Parlare di vecchia normalità ha suscitato diverse polemiche tra gli oppositori di Orbán che si sono chiesti a quale periodo si riferisse la Jourová, forse non ricorda che il premier ama parlare di democrazia illiberale, hanno detto.

  

Aspettando un accordo europeo, perché arriverà, ci siamo messi su Re-open Eu, l’app della Commissione che dà tutte le informazioni utili, dai ristoranti alle spiagge alle quarantene, per spostarsi dentro l’Unione europea. A seconda della propensione al rischio, si possono fare molte scelte diverse. Però tutto dipende dalla certezza delle informazioni: ci siamo tormentati sui dati da fornire per le app di tracciamento del virus, ma ora l’unica cosa che importa è che siano i governi a non tradirci, ché le informazioni sulla riapertura sono loro a fornirle. Ci contiamo.

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