(foto LaPresse)

Come cambiare l'Italia

Franco Debenedetti

La riforma della giustizia è imprescindibile, ma è la più difficile. Meglio cominciare dalla scuola

Chiuso il “casino”, tornati silenziosi saloni e giardini, può essere interessante mettere a confronto le conclusioni tratte dall’interno con i suggerimenti che in corso d’opera venivano elargiti all’esterno. In generale vale per gli uni e le altre quello che veniva in mente leggendo, sul Foglio del 17 giugno, “Cambiare l’Italia si può” di Guglielmo Barone, Marco Percoco e Carlo Stagnaro: un titolo da fantascienza, un contenuto o ragionevolmente plausibile (per lo più) o molto rigoroso per evitare di “trasformare gli aiuti europei in clamorosi boomerang”. Ed è proprio su questo che conviene ragionare.

 

È chiaro che tutti i piani economici del paese debbano fare i conti con il funzionamento della pubblica amministrazione, ma è anche un fatto incontrovertibile che questa è la causa principale dei mali che dovrebbe curare. Ragion per cui il problema è come, non diciamo cambiare l’Italia, ma almeno “convincere gli altri Stati e anche i mercati e gli operatori economici” che essa non ambisce semplicemente a mettere le mani su un nuovo tesoretto, ma intende perseguire una crescita sostenuta e inclusiva.

È sicuramente vero che, come scrivono gli autori, migliorare la performance del sistema giudiziario è imprescindibile, ma è anche vero che questa è, di tutte, la riforma più difficile. Infatti la magistratura, come parte della Pubblica Amministrazione, ne condivide i difetti, e come organo di rilevanza istituzionale gode di autonomia di governo. E poiché è da anni che ci si prova a migliorarne il funzionamento, bisognerebbe spiegare “agli altri Stati e ai mercati” (e anche a noi) perché questa volta sarebbe diverso. Quello che è accaduto proprio in questi giorni con Luca Palamara ne è sconcertante conferma.

Meglio cimentarsi con cose più semplici, e magari che non riguardino la pubblica amministrazione: ad esempio raccontandoci il vero in tema di produttività. Essa è una media di aziende più produttive e di altre meno, il suo valore aumenta se crescono le prime e diminuiscono le seconde: ha invece un effetto negativo quello che si fa per mantenere in vita aziende non produttive. È un rapporto, e se il numeratore decresce o non cresce abbastanza, deve diminuire il denominatore, cioè il lavoro, provvedendo in altro modo a sostenere i lavoratori in esubero. Sappiamo di avere tantissime mini (e magari micro) imprese, in numero percentualmente pari alla Germania, ma ad essa molto inferiori quanto a produttività: anziché dare loro aiuti, anche a fondo perduto, a pioggia, non era possibile subordinarli a qualche forma di aggregazione, o finalizzarli a superare un digital divide che il più delle volte è culturale?

Investimenti certo: quelli infrastrutturali hanno effetto positivo sull’economia già mentre vengono eseguiti, prima di averlo quando saranno completati. Sappiamo che, nel suo complesso, dalla delibera all’inizio dell’esecuzione passano anni. Per riformare il sistema non abbiamo tempo: ma possibile che non si riesca a individuare un insieme, cospicuo ma numerabile, di opere che per la loro specificità possano essere scelte immediatamente e assegnate con una procedura totalmente diversa? Non c’è solo l’esempio del ponte Morandi: ma come pensiamo che sia stata costruita l’Autostrada del Sole? Dobbiamo ricordare come l’Eni di Enrico Mattei superava le resistenze dei comuni per costruire la rete di distribuzione del gas? E le case di Amintore Fanfani? E l’alta velocità (anche se il suo artefice, Lorenzo Necci, ne fu ripagato con anni di galera senza essere mai stato condannato).

C’è un progetto, che ha le caratteristiche da un lato per rientrare in questo “fast track” infrastrutturale, dall’altro per incidere su una delle cause della nostra produttività stagnante. Un grande piano per la scuola: metterle tutte in sicurezza come infrastrutture e dotarle dei mezzi digitali a cui si è fatto ricorso in modalità fai da te durante il lockdown. Non sono un esperto di procedure di assegnazione, ma penso al coinvolgimento di regioni e forse di comuni. E se, con le dovute cautele, ne risultasse una preferenza per aziende locali, potrebbe perfino servire. Con questo piano lo Stato segnalerebbe che è determinato a usare l’educazione come mezzo per attaccare il problema della diseguaglianza; se comunicato in modo adeguato, iniziato rapidamente, controllato in tempi di avanzamento, coinvolgendo le amministrazioni locali, darebbe allo Stato le credenziali per stringere un patto con gli insegnanti: un patto nuovo per cui la scuola, svoltando a 180° rispetto a quanto proclamato anche in tempi anche recenti (ricordate Fioramonti?), misura il merito, degli studenti e degli insegnanti, e lo premia, ciascuno come si conviene. E che da loro ci si aspetta che questo insegnino ai ragazzi, impegnarsi per fare bene (meglio) il proprio lavoro. Nella speranza, questa sì un po’ fantascientifica, che lo imparino pure i genitori.

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