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Perché in Libia i soldi di Putin fanno molta più gola degli aiuti europei

Luca Gambardella

Dal 2016 Mosca ha speso più di 10 miliardi di dinari libici. Sono cifre nemmeno paragonabili a quelle che, per esempio, ha investito finora l’Italia

Roma. L’Italia intende rimettere sul tavolo una vecchia proposta per gestire il flusso dei migranti che arrivano dalla Libia: quella di creare centri di identificazione e smistamento direttamente nel paese nordafricano togliendoli però alla gestione libica e affidandola all’Ue. In questo modo si limiterebbero i casi di abusi e torture già denunciate dall’Onu e dalle ong e perpetrate dai carcerieri libici ai danni dei migranti. Secondo le stime del governo italiano, il piano prevede un esborso di 9 miliardi di euro. L’idea rischia però di trovare ostacoli, sia perché gli altri stati europei sono più preoccupati dagli arrivi lungo la rotta balcanica che da quelli dal Mediterraneo, sia perché Tripoli non vuole che l’Ue operi in Libia. “Siamo assolutamente contrari”, aveva detto nel luglio 2018 il premier libico Fayez al Serraj. Il motivo è semplice: in Libia la gestione delle partenze e delle operazioni di salvataggio dei migranti, così come quella dei centri di detenzione, sono appannaggio di alcune milizie che sostengono lo stesso Serraj.

 

In Libia i soldi degli europei valgono meno rispetto a quelli dei russi. Basta guardare a cosa accade a est. Dal 2016 i russi stampano banconote che, tramite la banca centrale parallela della Cirenaica, arrivano direttamente nelle casse di Khalifa Haftar, alleato di Mosca. Tra febbraio e giugno, Reuters ha quantificato questo afflusso di liquidità in 4,5 miliardi di dinari libici, l’equivalente di 3,22 miliardi di dollari. Il grosso della somma serve a convincere le tribù a unirsi all’Esercito nazionale libico di Haftar. Dal 2016, Mosca ha speso più di 10 miliardi di dinari libici. Sono cifre nemmeno paragonabili a quelle che, per esempio, ha investito finora l’Italia. Per sostenere la cosiddetta “Guardia costiera” libica, Roma ha speso 150 milioni di euro. Anche sommando gli 800 milioni di euro in mezzi marittimi e terrestri richiesti da Tripoli due anni fa e gli altri 280 promessi da Roma entro il 2020, non si arriva a un decimo rispetto a quanto investe Mosca per i suoi alleati in Cirenaica.

 

Ma nonostante i soldi russi, anche Haftar ha i suoi problemi. Da Mosca arrivano notizie di malumori tra le lobby che finora hanno sostenuto Haftar, innervosite dalla lentezza della sua offensiva militare. Così, al summit Russia-Africa che si è tenuto la settimana scorsa a Sochi, i russi hanno invitato Serraj e non l’alleato Haftar. La mossa ha fatto infuriare alcune lobby che finora hanno investito parecchio al fianco del leader della Cirenaica. Tra queste c’è la Wagner, una società di contractor guidata da Yevgeny Prigozhin, uomo vicino a Vladimir Putin. Prigozhin è anche proprietario di Riafan News, un canale di informazione pro Cremlino, e finanziatore di una ong, la Fondazione per la protezione dei valori nazionali, che lavora per avvicinare i paesi africani alla Russia e sottrarli “all’interferenza degli Stati Uniti”, recita il suo sito. Entrambi hanno lanciato una campagna mediatica contro la visita di Serraj, accusandolo di avere portato in Russia una delegazione farcita di terroristi. Il riferimento è a Shabaan Hadia, sottosegretario nel governo di Tripoli, chiamato a Sochi per intervenire a un panel sulla sicurezza. Prima di arrivare al governo, Hadia (alias Abu Obeida al Zawi) ha combattuto in una milizia vicina ad al Qaida. La vicenda di Hadia è molto simile a quella di Abd al Rahman al Milad, alias “Bija”, capo della “Guardia costiera” libica, sanzionato dall’Onu ma accolto in Italia nel 2017 come interlocutore accreditato per la gestione dei migranti. Sia Hadia sia Bija sono di Zawia, entrambi combattono nella brigata Saraya al Farouq.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.