Il caso Ilva della nostra politica estera si chiama Tripoli

Daniele Raineri

Quanti video di esplosioni avranno i soldati italiani sui telefonini? La consegna del silenzio dei nostri militari e il sostegno di Mosca e Dubai alla campagna di Haftar

Novecento chilometri a sud di Taranto c’è quello che per la politica estera italiana è l’equivalente del caso Ilva, nel senso che tutti sanno che c’è una crisi in corso, tutti sanno che le conseguenze saranno orrende e tutti aspettano che la crisi si risolva da sola per un miracolo inaspettato di quelli che non succedono mai. È l’assedio di Tripoli, dove il governo sponsorizzato a parole vaghe dall’Italia tiene testa in modo sempre più debole alle milizie del settantacinquenne generale Haftar aiutate da mercenari della Russia e da aerei degli Emirati Arabi Uniti. Quella costa libica è la piattaforma di sosta dei migranti verso l’Italia ed è l’allaccio di risorse energetiche importanti per il nostro paese. È anche una fascia di territorio che dovremmo a tutti i costi tenere sgombra da terroristi. Dovrebbe essere fra le priorità del governo. Invece è come se avessimo deciso che saranno altri a occuparsene. E gli altri si sono fatti avanti.

 

Emirati e Russia hanno capito che la campagna di Haftar per prendere Tripoli è un conflitto di livello così basso che con pochissimo impegno si possono ottenere risultati enormi. Mosca ha mandato i suoi mercenari, così può negare un impegno diretto. Prima duecento secondo il New York Times. Poi trecento secondo il Washington Post. Ora sono millequattrocento, secondo Bloomberg News. Hanno un’efficienza micidiale negli scontri che sono sparatorie strada per strada tra bande di trenta-quaranta miliziani. Invece che tirare raffiche speranzose come i libici, i cecchini russi si piazzano in buone posizioni e poi con calma aprono vuoti fra i nemici. Manovrano anche l’artiglieria, con molta più precisione di prima. Gli Emirati hanno mandato in Libia non più di cinque-sei droni di fabbricazione cinese da due milioni di dollari l’uno – un Predator americano costa il doppio – che però secondo i comandanti libici di Tripoli sono responsabili per due terzi dei circa millecento morti del bilancio (ma le Nazioni Unite ammettono che i morti potrebbero essere il doppio). I combattenti che difendono Tripoli hanno imparato a non fumare più vicino alla prima linea perché i sensori dei droni vedrebbero tutte le fonti di calore.

  

I trecento soldati italiani della missione Misiat chiusi dentro all’ospedale militare di Misurata devono avere ricevuto ordini strettissimi di non condividere quello che vedono e che sentono con frequenza sempre maggiore. Per paradosso, rispettano con disciplina la consegna del silenzio mentre a Roma invece hanno subito passato alla stampa nomi, età e residenza degli incursori feriti in Iraq (che è una violazione delle regole).

  

L’ospedale militare è dentro all’aeroporto di Misurata, che è una città libica alleata con Tripoli e quindi più o meno una volta alla settimana è il bersaglio dei bombardamenti fatti con jet e droni dai governi arabi che appoggiano il generale Haftar. Le bombe non prendono di mira gli italiani, ma colpiscono le piste e i magazzini che a volte non sono a più di cinquecento metri di distanza. Non si tratta di bombardamenti minori: a volte distruggono carichi di armi appena atterrati dalla Turchia quando sono ancora nella stiva di un aereo da trasporto (a questo punto si sarà capito che l’embargo che proibisce in via ufficiale di portare armi in Libia è una barzelletta).

    

È facile immaginare che ormai tutti i soldati italiani abbiano sui loro telefonini molti video delle esplosioni, ma che abbiano ricevuto l’ordine di non condividerli con nessuno per non mettere in difficoltà il governo di Roma. Gli abitanti di Misurata invece filmano e mettono i video sui social, come ieri notte quando un “jet straniero” ha fatto saltare un deposito di mezzi blindati nel centro della città. In teoria per mettere fine al conflitto arriverà una conferenza in Germania, ma la data continua a scivolare in avanti perché per ora le speranze di accordo sono poche.

  

 

 

A inizio dicembre il ministro italiano degli Esteri, Luigi Di Maio, vedrà a Roma Med 2019 (la conferenza annuale sul dialogo nel Mediterraneo) il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che assieme a Putin in questi anni è diventato la faccia della politica decisionista della Russia dall’Ucraina alla Siria. La differenza di preparazione e caratura diplomatica fra i due è ampia.

    

In realtà tutti gli attori in campo – e sono numerosissimi dall’Italia alla Francia alla Russia al Qatar alla Turchia per finire con i libici – aspettano un segnale dal presidente americano, Donald Trump, per sapere come si muoverà l’America. Da Trump, attenzione, e non da una qualsiasi altra voce del governo americano. Venerdì il dipartimento di stato ha chiesto a Haftar di fermare l’assalto delle sue milizie (che lui fa chiamare “Esercito nazionale libico”) contro Tripoli e la risposta del generale è stata far raddoppiare gli sforzi e i bombardamenti. Del resto il dipartimento di stato aveva chiesto la stessa cosa l’8 aprile scorso e in sette mesi non è cambiato nulla. Ormai tutto il mondo ha capito che non conta cosa dice il governo americano nelle sue varie forme, dal dipartimento di stato al Pentagono, conta soltanto quello che dice Trump – come di recente hanno constatato sulla loro pelle i curdi siriani. Dentro al Consiglio di sicurezza nazionale americano a partire da luglio c’è stata una riorganizzazione e il nuovo capo della sezione Nordafrica è Victoria Coates e se si vanno a vedere le sue posizioni passate tira una brutta aria per Tripoli. Ma non importa, deciderà Trump (se deciderà), che per ora ha fatto trapelare soltanto un po’ di simpatia per Haftar.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)