Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Priorità sballate

Governo immobile sulla guerra in Libia, altro che dossier immigrazione

Francesco Maselli

Fonti diplomatiche spiegano che non abbiamo idea di cosa fare a Tripoli e stiamo sposando la linea della Francia

Roma. Il dossier immigrazione è al centro del dibattito quando si parla dei rapporti Italia-Libia. Mercoledì il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha riferito alla Camera sul memorandum di intesa con lo stato nordafricano, che verrà rinnovato per i prossimi tre anni. Questa attenzione, tuttavia, unita alle condizioni terribili in cui versano i profughi imprigionati nei campi libici, che giustamente preoccupano e indignano, rischia di distrarre dal problema più generale, e cioè lo stallo della situazione politica libica.

 

Lo scorso aprile il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica, ha lanciato un’offensiva contro il governo di Fayez al Serraj, a Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto dall’Italia. Da quel momento la Libia è nuovamente entrata in una fase di instabilità: le milizie del generale, sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita premono su Tripoli e bombardano senza sosta le postazioni del governo di Serraj. Tutto ciò mette direttamente in pericolo il personale italiano, sia quello diplomatico che quello militare, presente a Misurata e costantemente sotto tiro.

 

La verità, ci spiega la nostra fonte diplomatica, è che il governo italiano ha da tempo smesso di avere una strategia su cosa fare in Libia: “I governi Renzi e Gentiloni avevano una visione globale. Questo ci ha portato anche a prendere dei rischi: il rocambolesco arrivo di Serraj a Tripoli organizzato con la nostra complicità e la riapertura dell’ambasciata nel gennaio del 2017 non erano affatto iniziative scontate. Poi però il problema immigrazione è diventato sempre più rilevante, fino a essere quasi un’ossessione”.

 

La nostra credibilità è diminuita anche perché abbiamo sposato la linea francese, riducendo la complessità del mosaico libico a un accordo bilaterale tra Serraj e Haftar, il contrario di quanto sempre sostenuto. In più non è chiaro come intendiamo avvalerci della nostra presenza sul terreno dal punto di vista politico: lasciare l’ambasciata aperta a Tripoli è rischioso e costoso, così come mantenere il contingente militare a Misurata.

 

Il contingente italiano conta 300 militari, dispiegati per proteggere l’ospedale della missione Ippocrate nella città-stato libica, ed è continuamente sfiorato dai bombardamenti. Il motivo, ci spiega una nostra fonte, è che “il generale vede come fumo negli occhi la presenza italiana al fianco di quella che lui considera la sola roccaforte in grado di tenergli testa”. Non può attaccarci direttamente, ma si adopera affinché noi abbandoniamo la città. Di fronte a questo però l’Italia fa poco: non c’è alcuna iniziativa concreta, di concerto con i partner europei, per esercitare pressione su Haftar e sugli stati che lo sostengono.

 

Tutto è ridotto alla speranza che la prossima conferenza di pace, che sarà organizzata dalla Germania, possa costituire una spinta per arrivare a un cessate il fuoco. Ma non è scontato che le potenze che appoggiano il generale decidano di convincerlo a fermarsi. Gli Emirati Arabi consideravano Haftar come l’unico leader in grado di unificare il paese e tenerlo sotto controllo. Ma forse, ci spiega un altro diplomatico italiano, stanno cambiando atteggiamento: “Sta emergendo un distinguo tra Haftar e il Lna, cioè le sue milizie. In passato il sostegno emiratino non faceva differenze tra le due entità, ma ora che l’offensiva è in fase di stallo stanno modificando il loro atteggiamento. Non possono abbandonarlo, ma si sono resi conto che la sua leadership non è in condizione di stabilizzare alcunché: sperano che emerga un nuovo leader”. Anche qui appunto, siamo nell’ambito della speranza. Per l’Egitto la questione è ancora diversa: Il Cairo considera la Libia un problema di sicurezza nazionale, e sostiene Haftar per evitare che a Tripoli si affermi un governo vicino all’islam politico. 

 

Nonostante le dichiarazioni di facciata, le ostilità non cessano. E la verità è che l’Italia non ha la forza per guidare di nuovo il processo di pace.