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“In Libia abbiamo perso un anno inseguendo le ossessioni di Salvini”

Marina Sereni

La politica estera richiede “coraggio e umiltà, risorse intellettuali e spessore morale”. Più responsabilità e meno Papeete. Ci scrive il viceministro degli Affari Esteri Marina Sereni

Al direttore - L’avvicinarsi del rinnovo del Memorandum con le autorità libiche ha prodotto un dibattito acceso nell’opinione pubblica e anche all’interno delle forze di governo. Il Pd ha proposto di modificare i contenuti del Memorandum, con particolare attenzione all’attività della guardia costiera e ai centri di detenzione dei migranti, e in questa direzione il ministro Di Maio si è pronunciato positivamente ieri in Parlamento. Il risultato raggiunto, con la decisione di convocare la riunione della Commissione congiunta italo-libica, premia innanzitutto i nostri sforzi e pone le basi per garantire un più forte coinvolgimento delle Nazioni Unite, della comunità internazionale e delle organizzazioni della società civile per migliorare l’assistenza ai migranti e le condizioni nei centri. Personalmente, apprezzo moltissimo il coraggio e l’impegno di tutti coloro che si sono battuti assieme a noi per migliorare la situazione dei migranti in Libia. Ma la politica richiede compromessi e, spesso, obbliga a sporcarsi le mani per raggiungere un risultato che forse non sarà ideale, ma permetterà comunque di salvare più vite umane e di ridurre le sofferenze di molte più persone. E per me questo è un risultato molto più importante rispetto alla testimonianza “dura e pura” di un impegno che alla fine rischia di cambiare poco o niente sul terreno. Non dobbiamo farci illusioni, e soprattutto non possiamo ingannare i cittadini italiani. Le soluzioni facili non esistono né in un senso né nell’altro. La realtà è che la tragedia libica – del popolo libico e dei migranti – è un evento di enorme complessità, in cui non esiste quick fix. Una tragedia che è stata presa in ostaggio nell’ultimo anno e mezzo da un ministro dell’Interno e da una forza di governo (e ora di opposizione) a soli fini di creazione del consenso. E in cui l’ossessione antimigranti e antieuropea – di un ministro che non si è quasi mai recato né in Libia né a Bruxelles – si sono tradotti in un vuoto di pensiero e azione che, come tutti i vuoti, è stato purtroppo riempito dal caos del conflitto e ha leso in maniera gravissima gli interessi del nostro paese.

 

Il dibattito politico italiano sulla Libia è stato così monopolizzato da un equivoco di fondo, che nasce dalla lettura della situazione solo attraverso il prisma italo-italiano della crisi migratoria. La crisi libica è molto di più e la sua complessità richiede una risposta a 360 gradi (“olistica” nel senso più proprio del termine). E’ innanzitutto una crisi interna e internazionale, in cui il collasso di un sistema dittatoriale (ma basato su una rete consolidata di interessi e scambi) e l’inesistenza del tessuto istituzionale possono essere affrontati solo attraverso un progetto complessivo di ricostruzione della società, delle istituzioni e della economia libica che prima del 2011 riusciva a garantire lavoro a più di 2,5 milioni di stranieri.

 

Il contributo che può dare l’Italia a questo processo è fondamentale, e richiede da parte nostra capacità di visione e senso di responsabilità: rifiutando inutili protagonismi; rafforzando l’ownership collettiva, multilaterale e europea, della crisi; contenendo l’assertività degli attori regionali e il loro coinvolgimento nelle dinamiche intra-libiche; e cercando il più possibile, nei limiti dell’attuale situazione, l’apporto costruttivo degli Stati Uniti, che restano in potenza l’attore chiave nel Mediterraneo e Medio oriente.

 

Il sostegno all’azione del rappresentante speciale delle Nazioni Unite Salamé e all’organizzazione della Conferenza internazionale di Berlino in programma entro l’autunno e, auspicabilmente il prima possibile, della conferenza intra-libica, sono il prossimo passo nell’attuazione di questa visione. Negli ultimi anni moltissimo è cambiato, e continua a cambiare, in Libia. L’Italia resta però, anche per la continuità della nostra presenza sul terreno, il paese occidentale con la conoscenza più profonda e capillare della Libia e delle sue dinamiche. Questo patrimonio di conoscenza riguarda due temi fondamentali per la costruzione della Libia del futuro: l’inclusività del processo politico, la creazione dello stato di diritto, le riforme economico-finanziarie e del settore della sicurezza.

 

Il conflitto militare in corso tra le forze del generale Haftar e il governo del presidente Serraj ha posto in secondo piano una questione-chiave: la condivisione del processo politico da parte di tutto il popolo libico e delle sue espressioni regionali, tribali, cittadine e della società civile. Identificare queste espressioni e garantire che ognuna di esse possa far sentire la propria voce è una condizione fondamentale per la costruzione della Libia del futuro. E nello stesso senso la ricostituzione del tessuto istituzionale libico e l’avvio delle riforme non possono partire dal nulla e richiedono la messa a sistema di tutti coloro che meglio conoscono la Libia e la sua complessità. L’Italia ha buttato più di un anno in Libia inseguendo le ossessioni securitarie e elettorali di un ministro degli Interni palesemente inadeguato. Non possiamo permetterci di sprecare altro tempo. La politica estera richiede coraggio e umiltà, risorse intellettuali e spessore morale, capacità di analisi e comprensione dei problemi. Richiede un senso dell’identità nazionale e dei valori e interessi del nostro paese lontani anni luce da quelli del ministro deejay che fa ballare in costume da bagno l’inno di Mameli. E richiede infine fatica e sudore, certamente non quello delle estati al Papeete.

 

Marina Sereni, viceministro degli Affari Esteri

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