Marco Minniti (foto LaPresse)

Minniti ci spiega perché gli interessi nazionali italiani passano dalla Libia

Annalisa Chirico

“I nazionalpopulisti hanno brandito l’immigrazione come un’arma per sfasciare l’Europa. E’ l’ora della svolta”

Roma. Persino Matteo Salvini adesso sostiene che non vuole l’uscita dall’euro ma la modifica del Patto di stabilità. Si è convertito alla linea Mattarella, insomma. “Nel caso del capo leghista, la definirei la ragionevolezza dello stare all’opposizione, a testimonianza che certe sconfitte sono educative. Per il resto, sulla necessità di rivedere i vincoli europei esiste ormai un’ampia condivisione”. La voce è quella di Marco Minniti, l’uomo che da ministro dell’Interno si appuntò al petto la medaglia del meno 78 per cento di sbarchi in un anno. Il New York Times lo ha incoronato il “Lord of spies”, l’“ex comunista dalla testa dura”. Quando lo incontriamo nel suo ufficio di deputato semplice, Minniti tiene gli occhi puntati sullo schermo del computer sul quale scorrono, in un rullo incessante, le agenzie di stampa. L’informazione è tutto. “Ho il cellulare fuori uso da ieri ma non mi manca per niente”, dice lui che è notoriamente allergico ai controlli. La prossima settimana voterà per la prima volta a favore del taglio dei parlamentari (“Sono un uomo di partito”), ma quello di cui gli preme parlare ha a che fare con l’Europa, con l’Africa e con il suo pallino, la sicurezza. “I nazionalpopulisti hanno brandito l’immigrazione come un’arma impropria per sfasciare l’Unione europea. Nei quattordici mesi al governo non hanno fatto leva sull’euro perché, non appena accennavano all’Italexit, lo spread imponeva di pagare dazio. Così hanno preferito drammatizzare la vicenda degli sbarchi in quanto fenomeno ugualmente implosivo ma capace nel contempo di far guadagnare consenso senza la temuta impennata dello spread”. 

 

“L’Europa non si rende conto che ogni euro destinato all’Africa non è carità ma un investimento per il futuro europeo”

Propaganda o meno, con Salvini al Viminale il calo degli sbarchi è proseguito. Adesso invece gli arrivi tornano a crescere: triplicati nel solo mese di settembre. “La riduzione degli arrivi era cominciata prima. Nel maggio 2018, al momento del passaggio dal governo Gentiloni al Conte uno, gli arrivi nel Mediterraneo centrale erano già diminuiti del 78 per cento, quelli dalla Libia dell’85. Tutto questo lo si è realizzato senza chiudere un porto e senza dismettere l’attività di ricerca e salvataggio in mare. All’epoca era presente un dispositivo, coordinato dalla Guardia costiera italiana, che coinvolgeva anche la Guardia costiera libica e le ong firmatarie di un codice di comportamento”. Il “Codice Minniti”. Su un punto però lei concorda con il suo successore: meno partenze significa meno morti in mare. “Non mi sembra una nuova e clamorosa intuizione. Va notato però che nei mesi del governo gialloverde sono aumentati gli arrivi più propriamente illegali, quelli più esposti sul terreno della sicurezza. Stando alle statistiche, il dieci per cento degli sbarchi avviene con navi militari e ong. Il 90 per cento dei migranti invece approda sul territorio italiano attraverso l’azione degli scafisti. Le chiamiamo barche fantasma ma il senso è che sfuggono a qualunque tipo di controllo, e in un periodo in cui i foreign fighter di ritorno da Siria e Iraq si insediano nel sud della Libia, dove si combatte una guerra civile, seppure a bassa intensità, è chiaro che si pone un rischio di infiltrazioni terroristiche, di minacce reali alla nostra sicurezza. Per questa ragione andrebbe subito riattivata la missione Sophia nel Mediterraneo centrale. In questi mesi abbiamo vissuto un gigantesco paradosso: una missione fondamentale per la lotta contro i trafficanti è stata riconfermata ma senza navi in mare. Siamo all’elogio del bizantinismo”. A parte il calo degli sbarchi, la crociata di Salvini ha ottenuto un secondo effetto: la Lega ha raddoppiato i voti. “La sensazione che io ho avuto è che la tragica battaglia navale che si è finto di combattere per mesi contro le ong serviva per coprire gli arrivi illegali, quelli più esposti al controllo diretto dei trafficanti di esseri umani. Con l’obiettivo di disseminare rabbia e paura, benzina del nazionalpopulismo”.

 

 

Gli sbarchi triplicati a settembre però confermano che il messaggio che un governo manda, l’approccio più o meno accondiscendente, incide sul comportamento dei trafficanti. “Non esiste una stima affidabile degli arrivi su barchini e gommoni fantasma. Quel che è certo è che le migrazioni non possono essere cancellate. Per quattordici mesi abbiamo vissuto in una sorta di bolla speculativa su una questione cruciale che attraversa il pianeta. Adesso possiamo fare un bilancio: non esiste una drammatica invasione e, nel contempo, non si possono affrontare questioni di carattere strutturale con politiche emergenziali. Una democrazia ha il dovere di governare i flussi migratori conciliando i princìpi di sicurezza e umanità che non sono contrapposti l’uno all’altro. Il precedente governo ha cercato invece di mettere le due parole in contrapposizione facendo passare il seguente messaggio: io ti do più sicurezza e tu rinunci, in cambio, a un pezzo della tua umanità. La democrazia che lascia i cittadini soli di fronte a questo aut aut sta perdendo se stessa”.

 

Lei ripete spesso che oggi l’Africa è lo specchio dell’Europa. “La partita vera dell’immigrazione non si gioca nel continente europeo né in Italia ma in Africa. L’unico paese davvero impegnato in Africa è la Cina. L’Europa che ha destinato sei miliardi di euro alla Turchia di Erdogan per sigillare la rotta balcanica non si rende conto che ogni euro destinato all’Africa non è carità ma un investimento per il futuro europeo. I flussi migratori non si risolvono con le barriere: i muri, prima o poi, vengono travolti o aggirati. Questo è il cuore della questione, persino più importante delle redistribuzioni”. In proposito, c’è la bozza dell’accordo di Malta, limitato a cinque paesi e al dieci per cento di arrivi via ong e navi militari. Un po’ poco per esultare? “E’ un primo passo che segna tuttavia un cambio di approccio con una comune assunzione di responsabilità. Cade il tabù della rotazione dei porti. Al momento si tratta di un principio volontario. Siamo di fronte a una rottura di linguaggio, e in diplomazia anche i linguaggi contano. Per la prima volta viene codificato, senza distinzioni di sorta, il principio di ricollocazione che coinvolge i due paesi di approdo, Italia e Malta, insieme a Francia, Germania e Finlandia (presidente di turno del Consiglio dell’Ue). Adesso questo schema va esteso attraverso una cooperazione rafforzata tra un nucleo di paesi il più ampio possibile. L’obiettivo di legislatura europea punta al superamento della camicia di Nesso del regolamento di Dublino”.

 

“L’obiettivo di legislatura europea punta al superamento della camicia di Nesso del regolamento di Dublino”

Nel 2050 gli africani saliranno a 2,5 miliardi, per metà sotto i 25 anni. La demografia è un destino. “L’andamento demografico è preoccupante non solo per le dimensioni della crescita africana ma anche perché la popolazione europea, nel contempo, invecchia e fa meno figli. C’è poi il profilo della sicurezza cui ho già accennato. C’è l’esigenza di pensare al confine subsahariano come al confine meridionale dell’Europa. Lì si gioca la partita del contrasto al traffico di esseri umani e al terrorismo. Aggiungo poi che l’Africa è cruciale perché possiede le principali materie prime alla base dello sviluppo tecnologico mondiale. L’Africa va liberata dalle classi dirigenti che si sono impossessate delle risorse di un popolo contro il popolo stesso. Su questo l’Europa deve fare molto di più”. Lei ha parlato di una strategia articolata su quattro pilastri. “Occorre contrastare l’illegalità per colpire i trafficanti di esseri umani e, nel contempo, creare canali di legalità per arrivare in Europa. Chi scappa dalla guerra viene portato qui dagli stati in cooperazione con le organizzazioni umanitarie, non dagli scafisti. I corridoi umanitari, attraverso canali internazionalmente riconosciuti, sono la soluzione. Noi lo abbiamo fatto con la Siria, la Somalia, l’Etiopia, l’Italia è stato il primo paese al mondo a trasferire 300 madri con bambini dalla Libia. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha eseguito in pochi mesi, tra il 2017 e il 2018, più di 25 mila rimpatri volontari assistiti dalla Libia: queste persone tornano in patria su voli charter delle Nazioni Unite con un budget per potersi rifare una vita, i fondi a disposizione provengono dall’Italia e dall’Unione europea. In Libia si era messo in campo un modello: chi ha diritto arriva da noi legalmente; chi non ha diritto torna indietro attraverso una procedura gestita dalle NU insieme con l’Unione africana. Quel modello andava difeso, invece dall’insediamento del governo gialloverde ha cominciato a rallentarsi fino a fermarsi”. La Libia è un paese spaccato in tribù: per dialogare con loro servono interlocutori riconosciuti, lei era tra questi. Forse si poteva instaurare una collaborazione maggiore in un’ottica nazionale? “In questi paesi i rapporti personali contano. L’Italia ha una difficoltà di fondo ad agire come sistema paese. In questi mesi il governo ha accettato una diminuzione del nostro tradizionale ruolo in Libia, un paese che è l’espressione icastica di come un interesse nazionale possa giocarsi fuori dai confini nazionali. Oggi gran parte degli interessi nazionali italiani si determina in Libia, dai flussi migratori alle questioni energetiche alla lotta al terrorismo. Se non fossi in modalità responsabile, starei quasi per dire che l’Italia, dopo averla di fatto dimenticata, deve tornare in Libia”. Tornando alla strategia: il terzo pilastro? “Il rapporto con le ong va ricostituito, e non in nome di astratti valori morali ma perché serve alla causa della sicurezza. Io ho ritenuto e ritengo sbagliato intervenire su princìpi umanitari attraverso leggi o per decreti”. Il premier Conte aveva annunciato un intervento sui due decreti sicurezza nel primo Consiglio dei ministri. Non pervenuto. “Quei decreti vanno cambiati perché cancellano dal vocabolario del nostro paese la parola integrazione, il che mette a repentaglio la sicurezza. Gli attentatori in Europa, da Charlie Hebdo in poi, non provengono dal territorio dell’Isis ma sono nati e cresciuti nelle nostre capitali”. Certi paladini dell’accoglienza indiscriminata si spingono a chiedere il superamento della distinzione tra migranti economici e rifugiati. “Non corriamo troppo, si tratta di una norma codificata da tutte le convenzioni internazionali. L’accoglienza trova un limite nella capacità di integrazione di un paese. Io penso che bisogna rimettere al centro l’Africa settentrionale che è un’autentica polveriera. In Algeria si assiste a una drammatica crisi per la successione al presidente Bouteflika. In Tunisia otto milioni di cittadini sono chiamati a scegliere al ballottaggio tra due candidati di cui uno è in galera. In Egitto sono riprese le tensioni di piazza. Noi abbiamo bisogno che nel Mediterraneo e in nord Africa l’Europa abbia una visione comune e parli con una voce sola”. In questi giorni l’Italia, per una partita di aiuti illegali ad Airbus da cui non abbiamo tratto vantaggio, fronteggia il rischio di dazi del 25 per cento sulle nostre eccellenze gastronomiche. Si stimano perdite fino a un miliardo per il made in Italy. “La questione dei dazi commerciali dimostra in modo evidente che una Internazionale dei nazionalpopulisti è una contraddizione in termini. Non può esistere un principio di solidarietà tra paesi che partono dalla sacralità dei propri confini. Gli slogan America first e Prima gli italiani non si tengono insieme. Con un piccolo particolare: il primo è lo slogan della principale potenza economica, militare e politica a livello globale”. L’Europa delle piccole patrie rischia di renderci ancora più deboli al cospetto delle grandi potenze? “E’ una questione di taglia, di dimensione. L’unico modo per reggere la competizione globale in un mondo in cui si confrontano quattro macroaree – Stati Uniti, Russia, Cina e le altre potenze asiatiche – è far parte di una realtà che, come taglia, sia in grado di misurarsi con i diversi protagonisti. Anche il paese europeo più forte, da solo, non può vincere la sfida dei nuovi equilibri mondiali”. Equilibri che non hanno a che fare solo con l’economia ma anche con la democrazia. “Si prevede che entro vent’anni possano entrare a far parte del G5 quattro grandi paesi asiatici: Cina, India , Giappone e forse Indonesia, insieme agli Stati Uniti e senza alcun paese europeo. Se si considerano i regimi politici di queste potenze, è evidente che oggi Europa e Stati Uniti sono i portabandiera della democrazia nel mondo. Se l’Europa, come soggetto politico, viene meno, si lascia campo libero ai nazionalpopulismi e si riducono gli spazi democratici per l’intero pianeta”.