I migranti a bordo della Ocean Viking, che opera per conto di Msf e di Sos Mediterranée (foto LaPresse)

Evviva l'immigrazione senza emozione

Claudio Cerasa

Cambiare le regole, non violarle. Gli accordi sui rimpatri, le carte in Europa, l’idea di una terza via tra il modello Salvini e quello Saviano. Cinque paletti per capire se la discontinuità del governo sul tema dei migranti sarà un successo o sarà un flop

Chi ha avuto la fortuna di dialogare in questi giorni con Luciana Lamorgese, il nuovo ministro dell’Interno, le avrà sentito probabilmente pronunciare un’espressione affascinante che ci può aiutare a capire meglio in che modo nei prossimi mesi potrebbe prendere forma una discontinuità con il passato sui temi legati alle politiche migratorie: “Dobbiamo occuparci di immigrazione rinunciando all’emozione”. Rinunciare all’emozione, quando si discute di immigrazione, significa tentare di districarsi tra due forme diverse ma simmetriche di estremismo, da una parte l’estremismo del “respingiamoli tutti” e dall’altra parte l’estremismo dell’“accogliamoli tutti”, da una parte il modello Matteo Salvini e dall’altra il modello Roberto Saviano, e per provare a capire se nei prossimi mesi l’Italia riuscirà a imporre in Europa, sull’immigrazione, un’agenda politica alternativa alle due forme di estremismo che hanno animato negli ultimi mesi il dibattito pubblico del nostro paese, può essere utile fissare alcuni paletti sul terreno di gioco per comprendere a che condizioni può avere successo la discontinuità promessa dal nuovo governo sui temi legati alle politiche migratorie.

 

 

Fino a qualche mese fa, come sappiamo, l’esecutivo guidato, almeno politicamente, da Matteo Salvini aveva scelto deliberatamente di non interessarsi al tema del governo dell’immigrazione e aveva scelto di puntare tutto sul tema utopistico del “fermare” i migranti. Guidato dall’idea di “fermare l’immigrazione”, Salvini ha così scelto di disertare sistematicamente i vertici europei dedicati al tema dell’immigrazione, ha scelto di avallare il ritiro delle navi della missione europea Sophia dal Mediterraneo, ha scelto di puntare tutto sulla guerra alle ong, ha scelto di rendere più difficile la vita ai richiedenti asilo in Italia (trasformando molti di loro in irregolari), ha scelto di smantellare l’impianto di gestione delle politiche di integrazione coordinato dai comuni italiani attraverso il sistema dello Sprar e ha fatto di tutto affinché il suo messaggio fosse percepito così: gli immigrati in Italia non sono i benvenuti, occuparsi di come integrarli non ci interessa, occuparsi di come redistribuirli non ce ne frega niente, occuparci di rispettare i trattati internazionali non è una nostra priorità e per questo, vedrete, faremo di tutto per disincentivarli a venire a casa nostra. L’approccio uguale e contrario al metodo Salvini, ed è questa la partita che può giocare il nuovo ministro tanto in Italia quanto in Europa, prevede una serie di passaggi non scontati che è bene mettere in fila per provare a misurare la portata della sfida. Il primo passaggio riguarda l’Africa, il secondo passaggio riguarda il Mediterraneo, il terzo passaggio riguarda l’Italia, il quarto passaggio riguarda l’Europa, il quinto passaggio riguarda le regole. Sul fronte africano, oltre alla necessità di dedicare alla Libia tempo non inferiore rispetto a quello dedicato dal precedente ministro ai talk-show, il ministro dell’Interno oggi ha di fronte a sé una doppia sfida. Da un lato, provare a fare quello che riuscì a fare Marco Minniti ai tempi della sua esperienza al Viminale: negoziare con le tribù libiche, rafforzare quanto più possibile la Guardia costiera libica dandole la possibilità di fare quello che a nessun altro oggi è concesso di fare, cioè intercettare i barconi nel mare di competenza della Libia e riportarli a terra prima che questi arrivino in acque internazionali, e implementare con l’aiuto dell’Unione europea l’attività di Unhcr e Oim al confine sud della Libia per rimpatriare prima ancora di farli salpare tutti coloro che non hanno i requisiti per ottenere il diritto d’asilo. Dall’altro lato, il ministro dell’Interno, per provare progressivamente a disinnescare l’immigrazione irregolare dalla Libia, avrà il dovere di rafforzare i corridoi umanitari (che in parte grazie a Sant’Egidio e alla Cei funzionano), di modificare il decreto flussi come fece Roberto Maroni ai tempi della sua esperienza al Viminale (e in quella esperienza tra i collaboratori di Maroni c’era anche Lamorgese) e di migliorare il sistema dei rimpatri attraverso nuovi accordi, aggiungendo a quelli già in essere con Nigeria, Tunisia, Marocco ed Egitto anche accordi con altri paesi come Algeria, Capo Verde, Ghana e Senegal (alcuni di questi accordi sono stati anticipati ieri dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, insieme ad Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia del nord, Montenegro, Serbia e Ucraina: verranno rifiutate, ha detto Di Maio, le richieste che arriveranno dai migranti provenienti dai paesi ritenuti sicuri a meno che il richiedente non riesca a dimostrare che la sua situazione è tale che un ritorno in patria gli potrebbe arrecare gravi danni, ma nelle parole del ministro c’è qualcosa che non torna e che spieghiamo più avanti).

 

Per quanto riguarda il fronte Mediterraneo, l’Italia dovrà occuparsi di riportare in mare le navi della missione Sophia e dovrà fare quello di cui si dovrebbe discutere già a partire dal 10 ottobre, della prossima riunione dei ministri dell’Interno dell’Europa: trasformare Frontex nella vera guardia di frontiera dell’Europa schierata sui nostri confini per rendere ancora più plastico e autoevidente il tema dei temi: l’immigrazione non è un problema con cui devono fare i conti i paesi che ricevono immigrati, l’immigrazione è un problema con cui devono fare i conti tutti i paesi europei, perché lasciare un paese in balìa del vento migratorio significa creare le condizioni per avere una miccia in Europa capace di far saltare le fondamenta politiche e istituzionali del nostro continente. Per quanto riguarda l’Italia, ed è quello che il ministro Lamorgese a quanto pare ha intenzione di fare, almeno stando a quanto risulta al Foglio, il tema cruciale tornerà a essere non tanto in che modo combattere tutti coloro che in un modo o in un altro sono arrivati nel nostro paese ma quanto provare a integrarli trasformando l’immigrazione in un buon business per il nostro paese e rivedendo così alcuni dei capisaldi dei decreti Salvini. Uno in particolare: ridare ossigeno agli Sprar e non fare di ogni richiedente asilo un irregolare da cacciare e da lasciare pericolosamente in mezzo alla strada (lo yemenita che due settimane fa ha accoltellato alla stazione di Milano un militare, rivelano alcune fonti del Viminale, è uno dei richiedenti asilo che per effetto del decreto Salvini è finito nel limbo non controllato dell’irregolarità). Il quarto e il quinto punto sono infine particolarmente intrecciati e da questo punto di vista l’evoluzione degli equilibri in Europa rispetto al dossier dell’immigrazione non è così differente rispetto a quanto sta accadendo sui dossier economici: cambiare le regole è molto difficile e forse in questa fase è persino impossibile (vale per il trattato di Dublino e vale per il Fiscal compact) ma se i più importanti paesi europei riuscissero a costruire una collaborazione finalizzata a rendere quelle regole più flessibili e più adatte ai tempi che corrono, l’Europa avrebbe maggiori leve per declinare al più presto nuove forme di solidarietà. Sul fronte economico lo schema è quello che abbiamo cominciato a vedere in queste settimane: rendere più elastico il Fiscal compact sulla base di un accordo politico tra stati membri intenzionati non a violare le regole (magari rimettendo in discussione anche la moneta unica) ma intenzionati semplicemente a cambiarle. Lo stesso schema potrebbe valere sull’immigrazione se il mini accordo di Malta siglato lo scorso 23 settembre tra i ministri dell’Interno di Malta, della Germania, della Francia, della Finlandia (che ha la presidenza di turno dell’Ue) e il commissario europeo per gli Affari interni (Dimitris Avramopoulos) riuscirà davvero a rafforzarsi. L’accordo prevede la rotazione volontaria dei porti di sbarco per i migranti e la ricollocazione in altri paesi dei richiedenti asilo secondo percentuali ancora da definirsi a seconda del numero di arrivi, con l’introduzione di sanzioni per tutti coloro che sceglieranno di sottrarsi al sistema della ricollocazione. Un paese che vìola i trattati internazionali giocando ora con il diritto del mare e ora con la moneta unica è un paese che sceglie di rinunciare all’idea di avere alleati con cui difendere la propria sovranità. Un paese che sceglie di rispettare i trattati internazionali senza giocare più con il diritto del mare e con la moneta unica è un paese che sceglie di affrontare partite cruciali per il suo futuro con un po’ meno di demagogia e con un po’ più di pragmatismo. Senza Europa, l’Italia non ha futuro. E senza emozioni, e rinunciando ai due opposti estremismi, l’immigrazione forse può finalmente cominciare a essere non usata ma semplicemente governata. Chissà.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.