Jean-Claude Juncker accoglie il neo-nominato presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

L'estate indaffarata dell'Ue

Paola Peduzzi e Micol Flammini

C’è una Commissione da fare e un primato da conquistare (color rosa), poi si lavora parecchio in Grecia, Austria e Belgio. I deputati a scuola, la musica con i cuori e la legge del pollo inglese

L’estate europea sarà piena di corteggiamenti, di proposte e di rifiuti, chi con il cuore in mano chi con un piano d’azione efficace (i più fortunati con entrambi), tutti attenti a collocarsi nel posto giusto, ché sta per aprirsi il quinquennio di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ed è necessario prendere le misure nuove all’Europa che verrà. Prima di cominciare questo gioco delle coppie su scala continentale – un gioco che si fa al chiuso, nei palazzi – abbiamo fatto un giro all’aperto, in piazza.

 

In Bulgaria ci sono proteste contro la nomina di Ivan Geshev a procuratore generale: ancora questa settimana molte persone si sono ritrovate davanti al palazzo di Giustizia di Sofia chiedendo di dare al paese un’alternativa al regno di Geshev, “il cowboy”. Il gruppo Justice for all chiede che venga proposto un altro nome, a settembre l’estate non sarà più una scusa e ci si conterà, quindi dice ai bulgari: fatevi vedere, fatevi sentire. In Romania la piazza urla “incompetenti”, ce l’ha soprattutto con le forze di polizia e con il ministero dell’Interno: una ragazzina ha telefonato tre volte dicendo di essere stata rapita, la polizia è intervenuta diciannove ore dopo, della quindicenne non c’era più traccia, restavano le sue ultime parole: “Lui sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando”. In Repubblica ceca si protesta contro la corruzione, in Georgia contro le ingerenze russe, in Russia (in tantissimi) contro Vladimir Putin, recitando la Costituzione. Ogni piazza ha le sue ragioni e le sue ombre, ma se non fossimo sempre storditi dagli urlatori con i loro slogan triti, questa voglia di diritti e di rispetto dei diritti la chiameremmo effervescenza democratica, e la sentiremmo addosso come l’estate.

 

I corteggiamenti di palazzo hanno una destinataria quasi unica: Ursula von der Leyen, che continua il suo tour nelle capitali europee con il taccuino in mano. C’è chi dice che per la presidente della Commissione europea ci sia già la colonna dei buoni (che l’hanno voluta e votata) e quella dei cattivi (gli altri) e premi e punizioni andranno di conseguenza. Ma per ora la von der Leyen è alle prese con un problema più pratico: mantenere la sua prima promessa, che è quella di una Commissione paritaria, tanti uomini tante donne (sin da quando era ministro per la Famiglia in Germania, la von der Leyen si è battuta per le quote rosa, anche contro il volere del suo capo, Angela Merkel). Al momento l’equilibrio è precario. Su diciannove candidature pervenute, ci sono otto nomi di donna: uno è quello della stessa von der Leyen, altri tre più che candidature sono delle conferme: la danese Margrethe Vestager, la bulgara Mariya Gabriel e la ceca Vera Jourová. Poi ci sono l’estone Kadri Simon, la finlandese Jutta Urpilainen, la maltese Helena Dalli e la cipriota Stella Kyriakides (è la prima volta che Estonia, Finlandia e Malta propongono una donna).

 

Datemi nomi di donne, dice la von der Leyen. Chi ha già fatto le sue proposte, chi ancora aspetta e la regola che non si può violare

Il corteggiamento è appena iniziato e mancano ancora molti paesi all’appello, ma ogni volta la von der Leyen ripete che “i gruppi di lavoro misti sono quelli di maggior successo” e per favore, indicatemi un nome di donna. Così, affacciandosi di volta in volta nei vari palazzi di governo delle capitali europee – domani la presidente arriva a Roma – la von der Leyen cova una duplice speranza: la prima è speriamo che sia femmina, la seconda è il primato sulla Commissione uscente. Anche Jean-Claude Juncker voleva una Commissione paritaria, ma si è accontentato di otto donne su ventotto.

 

Grandi progetti ad Atene. Non tutti i Parlamenti si svuotano come il nostro, anzi, ce n’è uno molto indaffarato: quello greco. Kyriakos Mitsotakis è stato eletto il 7 luglio, mettendo fine all’èra Tsipras. Già ha reimpostato le regole di stile, il vestito blu e la cravatta, un segnale per dire ai greci e all’Europa che tutto sarà diverso, non soltanto l’abito. Saranno tante le cose da discutere, come un nuovo piano di investimenti. Mitsotakis vuole dare allo stato uno spirito imprenditoriale e ha annunciato la riduzione dell’imposta sulla proprietà al 22 per cento a partire da agosto. Poi verrà abolita la brigata antifrode che non sarà più un elemento a sé ma verrà assorbita dal ministero delle Finanze. Infine c’è la questione del complesso Hellinikon, che il nuovo premier ha promesso di rilanciare in una settimana e qualcosa si sta muovendo, visto che il governo ha nominato viceministro dell’Ambiente un ex consigliere per lo sviluppo del gruppo Lamda, il maggiore azionista del complesso. Appena insediato Mitsotakis ha prestato giuramento sulla Bibbia, anche questo un modo per prendere le distanze dalla vecchia Grecia e subito ci ha tenuto a rassicurare i più tradizionalisti, promettendo di non rispettare il piano di Syriza di togliere ai sacerdoti lo status di dipendenti pubblici. Il premier ha promesso molto e i greci gli hanno creduto, su pensioni e stipendi e anche su come affrontare l’immigrazione – già è stato eliminato il ministero dell’Immigrazione creato da Tsipras e integrato nel ministero per la Protezione dei cittadini – dovrà fare in fretta e agosto, si sa, è il mese perfetto per portarsi avanti coi lavori.

 

Comeback kid. Il Wunderkind austriaco, Sebastian Kurz, prepara il suo ritorno in vista delle elezioni del 29 settembre. Finora è stato molto quieto, doveva far digerire il collasso prematuro del suo governo, dopo che i compagni di coalizione dell’estrema destra, l’Fpö, erano finiti nello scandalo dell’Ibizagate – il vicecancelliere Heinz-Christian Strache ripreso in un video girato a Ibiza mentre promette grandi affari con dei russi – trascinando giù tutto l’esecutivo. Ora però mancano sessanta giorni esatti al voto e il tempo delle scuse è finito. Consapevole degli equilibri dell’elettorato austriaco, il quasi trentatreenne Kurz ha smesso di escludere una seconda alleanza con l’Fpö, anche se ha posto una condizione: “Se dovessi guidare ancora l’esecutivo e dovessi farlo con l’Fpö, dal mio punto di vista Herbert Kickl non può essere nominato ministro”. Kickl era il ministro dell’Interno nel governo Kurz, gli aveva dato parecchi problemi, dalle liste di proscrizione dei media considerati non amici alla gestione dei servizi segreti che aveva allarmato le agenzie d’intelligence di tutto il continente: quando Kurz, in mezzo allo scandalo di Strache, ha annunciato il licenziamento di Kickl, tutti i ministri dell’Fpö si sono dimessi, consegnando il cancelliere alla fiducia del Parlamento che non è arrivata. Come ultimo atto da ministro, Kickl ha fatto l’ennesimo dispetto: ha abbassato – contro il volere di Kurz – il pagamento orario dei richiedenti asilo. Lo scontro non si è riassorbito, ma ora l’ex cancelliere, dopo queste settimane di silenzio, non vuole più parlare del passato: ha lanciato uno spot elettorale ed è partito per i comizi in campagna e in montagna. Conta su una virtù che lo caratterizza da sempre: la pazienza. Laddove molti leader sono divorati dalla fretta, lui ha sempre coltivato l’arte di saper aspettare: ora, in quest’estate di abboccamenti e di molte cose da sistemare, vuole sposarla con tutta l’ambizione possibile.

 

Un governo per cinque. Anche il Belgio ha un gran da fare a mettere tutti d’accordo tanto che per rispettare il risultato delle elezioni parlamentari del 26 maggio ci vorrà una coalizione di cinque partiti e formarla non sarà semplice. Il re Philippe, capo dello stato, ha dato tempo fino a settembre, ha mandato i suoi emissari che sono tornati indietro con un nulla di fatto. Come fare a mettere d’accordo i nazionalisti delle Fiandre e la sinistra della Vallonia? Vista la confusione e vista la tendenza belga ai governi ballerini, la Nuova alleanza fiamminga, N-VA, che rispetto al 2014 ha perso 8 seggi, vuole cercare di tornare al potere per imporre una riforma delle istituzioni: un progetto di un sistema di tipo federale che riduca al minimo lo stato centrale. Ma per attuare questo programma sarebbe necessario innanzitutto formare un governo che abbia una maggioranza dei due terzi nella Camera dei deputati e in ogni caso i partiti di lingua francese hanno già detto che di avviare una nuova riforma delle istituzioni non se ne parla. Il partito dei Verdi, gli Ecolo, ha fatto sapere che non si siederà mai al tavolo con dei nazionalisti. Il re ha chiesto di trattare, ha invitato i partiti a parlarsi tra di loro e spera che alcune scadenze possano aiutare ad accelerare il processo: il bilancio da approvare; l’obbligo di designare il nome di un candidato per la Commissione Ue e la necessità di trovare un sostituto al primo ministro uscente Charles Michel che a dicembre dovrà prendere il posto di Donald Tusk al Consiglio europeo.

 

Illiberali, missione compiuta. Qualche giorno fa, Viktor Orbán è andato al suo consueto appuntamento di mezz’estate in Transilvania in visita alla comunità ungherese, come fa da trent’anni a questa parte. Il suo discorso, che è come lo Stato dell’Unione ma in versione familiare e senza cravatta, è stata la celebrazione da parte del premier ungherese di una missione compiuta: siamo illiberali, ne siamo orgogliosi, gli altri ci odiano, ma noi sapremo combatterli. Lo abbiamo già fatto: “Abbiamo evitato che la guerriglia ideologica prendesse il sopravvento in Europa”, ha detto (e il suo capo della comunicazione, Zoltán Kovács, ha fatto un refuso nel livetweeting: ha scritto gorilla invece che guerriglia, ed è diventato un tormentone: non suonava male, bisogna dirlo, quel gorilla), e lo abbiamo fatto “bloccando i candidati di George Soros ovunque.

Il nostro Parlamento è già svuotato, quello di Atene invece è in gran fermento. E a Kiev il presidente manda a scuola i deputati

Ovunque”, ha proseguito Orbán, celebrando il fatto che è stata nominata alla presidenza della Commissione “una madre di sette figli”, che evidentemente per l’Ungheria in collasso demografico è oltre che una garanzia un sogno. Ma la battaglia è ancora tutta da fare, perché l’Europa e l’occidente vanno aggiustati, soprattutto per quel che riguarda l’immigrazione e l’economia. Le formule le conosciamo già, ma nella seconda parte del suo discorso Orbán ha voluto dare una forma filosofica al suo progetto di “trasformazione della nazione”, ha detto che l’idea che la democrazia possa solo essere liberale è stata imposta dai liberali stessi – “che sono persone non senza talento”, bontà sua – appiccicando a chi la pensa diversamente l’etichetta di “illiberali”. “Tutto quello di cui abbiamo bisogno è trovare un’espressione che dia un significato positivo alla parola ‘illiberale’ che suona tanto negativa”, ha detto il premier ungherese, ribadendo che la difesa dei confini e la difesa della cristianità sono il carburante di ogni forma di democrazia. Ci odiano perché abbiamo un’altra idea di mondo, ha concluso Orbán, felice di poter tornare sulla guerriglia ideologica che lui sta domando – l’illiberalismo è una missione compiuta, ha detto ritornando a Budapest – e sul classico vittimismo di chi vuole prendere dai liberali soltanto quel che conviene: i fondi europei essenzialmente. Che dipendono anche dalla permanenza nella principale famiglia politica europea, quella della madre dei sette figli.

 

La Ze Academy. Una maggioranza così il Parlamento ucraino non l’aveva mai vista. 254 deputati, tutti del partito di Volodymyr Zelensky che, dopo aver vinto le elezioni presidenziali in aprile, ha stravinto alle politiche. Ma nella Rada, il Parlamento ucraino, è entrato un po’ di tutto e sulla preparazioni dei deputati di Sluha Naradu (Servitore del popolo) ci sono molti dubbi. Mandiamoli a scuola, ha pensato Zelensky, e all’inizio di questa settimana tutti i deputati sono andati a Truskavets, a Rixos Prykarpattya, un ex sanatorio sovietico, a lezioni di economia e politica governativa. Le conoscenze dei deputati sono state affidate a Timofei Milonov, presidente della School of Economics di Kiev e vicedirettore della Banca nazionale ucraina, che su Facebook nei giorni scorsi aveva raccontato il suo piano di sottoporre i parlamentari a cinque sessioni di tredici ore “intense, dure, complete”, per spiegare tutto, dalle infrastrutture alla sicurezza, dall’economia alla difesa. La sessione è iniziata con un sondaggio per valutare le capacità e le conoscenze dei deputati, un’autovalutazione come hanno detto i giornalisti presenti. Oliver Carroll dell’Independent, non potendo assistere alle lezioni (i deputati dovevano sentirsi liberi e quindi lontani dagli sguardi dei giornalisti), ha intervistato i deputati all’uscita. E tutti concordano su un punto: “Ciò che la gente non capisce è che stiamo facendo la storia ucraina”.

 

Un pollo per svoltare l’estate. Boris Johnson, neopremier britannico, non vuole fare nessun tour europeo: finché non si rimette mano alle carte del divorzio, lui starà a Londra. Gli europei sono molto offesi – Michel Barnier, caponegoziatore della Brexit per l’Ue, è da molti mesi anche distratto: prima sperava addirittura di diventare presidente della Commissione, ora il suo

Kurz prepara il suo ritorno a Vienna e non esclude un’altra alleanza con l’Fpö. Ma oggi conta sulla sua virtù: la pazienza

nome circola tra i commissari che la Francia deve ancora indicare alla von der Leyen, ma non essendo femmina teme di non avere troppe chance – ma anche gli inglesi non sono particolarmente tranquilli: Johnson non è un tipo rassicurante nemmeno per i suoi collaboratori e fan. Ma poiché è estate e la Brexit è un affare autunnale, poiché le lacrime per questo divorzio sembrano finite, da giorni i giornali e le tv inglesi sono piene di polli. Anzi di un pollo: il celebre Mirror Chicken, che è un po’ come il Gabibbo ma non denuncia nessuno. La tradizione del Mirror Chicken è nata nel 1997, il quotidiano Mirror prese un suo giornalista, gli mise addosso un costume da pollo giallo e rosso e lo mandò a rompere le scatole ai politici, nella fattispecie ai laburisti che erano andati al potere dopo molti anni con Tony Blair (in realtà lo scontro più chiacchierato avvenne con un conservatore). Negli anni ha avuto più o meno popolarità, ma in questi giorni è tornato di moda perché tra i collaboratori più stretti di Johnson ce n’è uno, Lee Cain, che era stato infilato nel costume da pollo dal suo direttore ed era andato a caccia del politico del momento, l’ex cancelliere George Osborne (che dice oggi di non essere mai stato “catturato”). Tom McTogue, che oggi scrive sull’Atlantic ma ha lavorato in molti giornali britannici, si è costituito: anche io sono stato messo nel costume da pollo, dove fa un caldo tremendo tra l’altro, ed è andato a caccia di politici: l’apice della sua carriera da Mirror Chicken l’ha raggiunto quando ha chiesto a Kenneth Clarke, veterano dei Tory, se poteva prenderlo in braccio e farsi fare una foto (“No, you bloody can’t”). Ma la storia del pollo è servita a McTogue per raccontare la cultura irriverente e partigiana dei giornali britannici – esplicita, giocosa, incomprensibile agli stranieri – e ancor più un tratto culturale imprescindibile: il divieto di essere troppo seri. Oggi questo divieto suona quasi come una condanna nel Regno Unito che si perde nelle fantasie e nelle battute fini a se stesse, ma è un’altra di quelle cose belle che abbiamo smesso di comprendere quando parliamo degli inglesi. Passerà anche questa nostalgia, ne siamo certe.

 

Tutta Visegrád balla. L’estate è stagione di festival, c’è chi la passa danzando e chi per rincorrere la musica si sposta a est. E’ bizzarro, ma i tradizionalisti di Visegrád hanno tra i migliori Festival musicali di ogni estate, l’Ungheria ha lo Sziget e la Polonia il Pol’and’Rock. Ai partiti di governo queste kermesse estive non piacciono, troppa disinibizione, tanti turisti, tanta opposizione. Soprattutto i polacchi hanno fatto del festival che inizia oggi un’oasi da cui tener lontana la retorica nazionalista del PiS, il partito che governa la nazione dal 2015, in cui parlare di democrazia, di diritti e in cui ballare. Per questo il PiS ha cercato di contrastare l’evento, che è organizzato da Jerzy Owsiak, creatore di Wielka Orkiestra Swiątecznej Pomocy (La grande orchestra della beneficenza di Natale), che ogni anno riempie le città polacche di cuoricini rossi. L’evento è gratuito, ci saranno anche workshop e conferenze e alcuni media hanno cercato di generare il panico, parlando dell’alta possibilità che in quei giorni a Kostrzyn, città in cui si svolge il festival, vengano commessi crimini sessuali. Gli avventori sono molti, nonostante l’isteria, i polacchi hanno voglia di ballare e di ascoltare musica, di sentire l’estate, lontani dal PiS.

 

Anche noi andiamo a sentire l’estate, ci ritroviamo il 5 settembre, con i cuori rossi.