Angela Merkel riceve il presidente della Lituania Gitanas Nauseda (foto LaPresse)

Se la recessione arriva a Berlino toccherà rimediare alla Bce

Alberto Brambilla

Calo del pil tedesco nel secondo trimestre e prospettive fosche per l’Eurozona. Senza stimoli fiscali suppliranno quelli monetari

Roma. Il calo del pil tedesco nel secondo trimestre e il forte calo della produzione industriale della zona euro a giugno sono ulteriori prove della gravità del rallentamento dell’economia europea. Uno scenario globale in peggioramento e cupi sondaggi aziendali suggeriscono che la situazione non migliorerà entro la fine dell’anno.

 

La contrazione dello 0,1 per cento del pil tedesco nel secondo trimestre ha seguito la contrazione della produzione industriale del 5,2 per cento circa a giugno rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, il calo peggiore da un decennio. Ciò è in parte dovuto a un altro collasso della produzione di automobili. I problemi del settore Auto, che fatica maledettamente a convertire sia impianti sia catene di fornitura per creare un’industria dell’auto elettrica, sembrano diventati da “temporanei” a permanenti. “I dati del settore industriale possono essere definiti semplicemente come devastanti. Non sono una sorpresa perché derivano dalle esportazioni in calo”, aveva detto il capo economista di Ing per la Germania Carsten Brzeski. L’industria tedesca è infatti più dipendente dalle esportazioni rispetto ad altri paesi e da mesi gli ordini sono in rallentamento. Le indagini sulle intenzioni delle imprese del settore manifatturiero a luglio peggiorano. L’indice Zew, un sondaggio tra analisti e investitori, è passato da meno 24,5 punti a meno 44,1, mentre gli osservatori si aspettavano una contrazione molto più contenuta. L’indice Ifo Business Expectations prevede una contrazione del pil tedesco nei prossimi mesi. Gli analisti si chiedono se la Germania entrerà in recessione, dopo averla evitata alla fine dell’anno scorso, nel caso in cui il pil dovesse contrarsi anche nel prossimo trimestre. Una recessione si verifica con due trimestri consecutivi di crescita negativa. Il governo di Angela Merkel prevede una crescita dello 0,5 per cento appena a fine anno.

 

Gli osservatori identificano le cause in fattori psicologici o in fattori esterni. Marcel Fratzscher, presidente dell’Istituto tedesco di ricerca economica (Diw), ha detto che “non c’è motivo di farsi prendere dal panico”. “Il mercato del lavoro è ancora solido, le aziende sono molto competitive e c’è un surplus commerciale abbondante”. Per Fratzscher la minaccia è il morale degli attori economici: quando si teme una recessione, le persone consumano meno e le aziende riducono gli investimenti e si genera una crisi autoindotta. Altri identificano cause esterne come la guerra commerciale dagli Stati Uniti che è motivo principale dell’ansia tedesca e i possibili dazi sull’automobile. Il presidente americano Donald Trump non ha ancora ritirato la minaccia di imporre dazi all’importazione di automobili europee negli Stati Uniti, il principale mercato per la Germania. Altro rischio esterno è l’incertezza sulla Brexit e la possibilità di un’uscita senza accordo con l’Unione europea che colpirebbe ulteriormente le esportazioni. Il rischio di recessione e la necessità storica di investimenti pubblici in infrastrutture non sembrano però sufficienti convincere il governo a produrre uno stimolo fiscale benché ce ne sia possibilità. Lo scorso anno il governo ha registrato un avanzo dell’1,7 per cento del pil e il debito dovrebbe scendere al 55 per cento entro il 2021, sotto i limiti dei trattati. Prima della caduta del pil la cancelliera Merkel aveva detto che l’economia stava entrando in una “fase difficile”, aggiungendo che “risponderemo a seconda della situazione”. Il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, aveva detto che non sarà necessario affrontare la situazione con nuova spesa pubblica.

 

Nell’Eurozona la produzione industriale ha registrato il calo peggiore mensile da tre anni, meno 1,6 per cento a giugno. La condizione generale e l’inerzia tedesca lascerebbero alla Banca centrale europea, guidata da Christine Lagarde dopo l’uscita di Mario Draghi a novembre, la responsabilità di intervenire con nuovi stimoli monetari.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.