Il nuovo premier Boris Johnson davanti al portone di Downing Street (Foto LaPresse)

Il “Boris day” tra promesse, vendette e mattanza

Paola Peduzzi e Micol Flammini

 Il ventilatore della regina Elisabetta e i due fratelli polacchi (no, non quelli)

Il “Boris day” è infine arrivato ed è stato celebrato nello stesso giorno in cui Robert Mueller, il procuratore del Russiagate americano, testimoniava davanti al Congresso, e in cui Giuseppe Conte, premier italiano, è andato in Parlamento a riferire sul Russiagate, versione salviniana. Coincidenze? Non troppo, visto che la foto di Boris Johnson è sbucata ieri al Congresso: in quell’occasione era in compagnia di Joseph Mifsud, il professore maltese al centro dello scandalo del Russiagate di cui si sono perse le tracce (le ultime lasciate erano a Roma). Inoltre il primo consigliere che Johnson ha voluto accanto a sé, prima della mattanza di ministri che è stato il rimpasto, è Dominic Cummings, l’architetto della campagna del Vote Leave che è stato accusato di ostruzionismo nei confronti del Parlamento perché si è rifiutato di testimoniare nell’inchiesta sui fondi stranieri (leggi: russi) arrivati alla campagna per la Brexit. Tutto si tiene, in questo occidente capovolto.

 

Novantanove giorni. Johnson, nel suo primo discorso davanti alla porta di Downing Street, ha detto che ci sarà “un nuovo accordo con l’Ue”, ci sarà entro il 31 ottobre, e finalmente darà la possibilità al Regno Unito di dare seguito a quello che vuole il popolo – la Brexit – senza tentennamenti e soprattutto senza punizioni: il paese uscirà più forte e più libero, “restaureremo la democrazia”, ha detto il neopremier. L’Ue non ha potuto che accogliere Johnson con tutto il gelo di cui è capace: benarrivato, ricordati che un accordo ce l’abbiamo già con il tuo governo, si tratta solo di metterlo in pratica. I pragmatici dicono che, nelle relazioni internazionali, non ti puoi scegliere gli interlocutori, semmai li puoi portare alla ragionevolezza. La riapertura del negoziato è stata esclusa, ma qualcuno – soprattutto la Germania di Angela Merkel – resta possibilista, forse anche per disinnescare la minaccia più pericolosa, quella del no deal. Mancano novantanove giorni, anzi sono già novantotto, ma Johnson ha già fatto il suo calcolo politico: vuole la Brexit, e se qualcosa dovesse andare storto – è un film che abbiamo già visto – lui è pronto alle elezioni, convinto com’è di battere il Labour. Cummings può rivelarsi molto utile, mentre ha portato alla vittoria la Brexit è riuscito a scovare, individuare, profilare e infine mobilitare quella nicchia di elettori indecisi e pigri che, in una situazione di pareggio, hanno fatto pendere il risultato verso il divorzio.

 

L’elogio dell’ex. La May è andata ai Comuni ieri per l’ultima volta, ha salutato, non ha fatto commenti su Johnson – è contenta soltanto che ci sia un premier conservatore – e ha detto a Jeremy Corbyn, leader del Labour, che sarebbe il caso che anche lui si dimettesse, il fallimento sulla Brexit è collettivo. Poi la May è andata a Downing Street, ha pranzato in terrazza con il marito Philip, ed è tornata a casa sua. I saluti più calorosi sono arrivati dalla Merkel e dal presidente francese, Emmanuel Macron: l’abbraccio finale a chi ci aveva provato, con la ragionevolezza.

  

La vendetta. I rimpasti non sono mai delicati: quello di Johnson è stato brutale. Tutti fuori, soltanto l’attuale ministro per la Brexit si è salvato: Stephen Barclay. Il suo predecessore, Dominic Raab, andrà agli Esteri: si era dimesso perché la May era troppo soft sulla Brexit. I brexitari (versione libertaria) sono tutti riuniti: Priti Patel all’Interno, Sajid Javid è cancelliere dello Scacchiere (il primo non bianco della storia inglese: anche quando era sindaco di Londra, Johnson era stato molto multiculti), Michael Gove, che nel 2016 lo tradì, è vicepremier di fatto. L’eccezione è al ministero della Difesa: il neoministro Ben Wallace è contrario alla Brexit.

 

Il ventilatore della Regina. Elisabetta II ha ricevuto Johnson per dargli l’incarico da premier, con la borsetta al braccio, com’è tradizione (anche se agli inglesi questa cosa non va giù). Semmai la novità era vicina al camino: un ventilatore della Dyson (a Londra ci sono più di 30 gradi), in funzione. I commentatori si sono divisi: “costa tantissimo” di qui, “la regina è per la Brexit” di là, ché Mr Dyson è uno come Boris Johnson, dice che la Brexit è una manna, ma intanto sposta tutte le sue attività a Singapore, si sa mai.

 

La Polonia dei fratelli. La politica può essere un fatto di famiglia in Polonia. A fondare il partito di governo, il PiS, questa costola un po’ riottosa del movimento Solidarnosc, sono stati i due fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynski. C’è un’altra coppia di fratelli un po’ chiacchierata, Jacek e Jaroslaw Kurski. Si occupano di giornalismo e di politica ma dai lati opposti delle barricate. Il primo è a capo dell’emittente Tvp, la televisione statale in mano al PiS da cui partono le campagne nazionaliste ed euroscettiche, la propaganda e le invettive contro vari politici di opposizione, anche contro il sindaco di Danzica Pawel Adamowicz, accoltellato al cuore sul palco di un evento di beneficenza. Jaroslaw è il fratello più giovane, è tra le firme più importanti della Gazeta Wyborcza, il quotidiano punto di riferimento dell’opposizione, e spesso sulle sue colonne è Jaroslaw a lanciare appelli e iniziative contro il PiS, come “Il libro nero” pubblicato dal giornale lo scorso anno per raccontare come il partito di governo stava rovinando la nazione. Racconta un amico di famiglia che quando erano giovani erano l’opposto di come sono ora, “avevano le stanze una di fronte all’altra”, Jaroslaw era pieno di foto in bianco e nero, patriottiche e si definiva un conservatore, Jacek era uno spirito libero. Poi tutto è cambiato i ruoli si sono invertiti e tra i due volano parole non lusinghiere: “Non tutti i Kurski sono da buttare”, ha detto Jaroslaw che ha definito il fratello “il bull terrier di Kaczynski”.

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