Annegret Kramp-Karrenbauer, Ursula von der Leyen e Angela Merkel (Foto LaPresse)

L'Ue riparte da qui

Paola Peduzzi e Micol Flammini

I cento voti europeisti perduti, il fallimento delle strategie basate sulla ripicca e il capolavoro della Merkel

Ci avete fatto una testa così con quei tremolii spaventevoli della cancelliera tedesca, simbolo di un declino inarrestabile, visibile e quindi definitivo. Invece ieri per il suo sessantacinquesimo compleanno, la Merkel si è regalata un capolavoro. La Commissione europea sarà guidata da una conservatrice tedesca che la Merkel ha di fatto creato (e governato): c’è stata anche una fase in cui Ursula von der Leyen ha pensato di poter spodestare la cancelliera, ma presto ha capito che non era il caso. Molto meglio collaborare con la Merkel, ormai anche i nemici più agguerriti l’hanno capito, figurarsi se non lo sa la von der Leyen. Per di più la presidenza della Commissione europea doveva andare allo Spitzenkandidat Manfred Weber, che è un conservatore bavarese per il quale la Merkel non si è mai spesa granché, per molte ragioni, non ultima quella della lealtà.

 

Quanto è costata questa scelta alla Merkel? Poco. L’Spd, compagna di coalizione, ha votato contro la von der Leyen minacciando una grande crisi nel governo a Berlino, ma poi non ha avuto nemmeno il tempo di mettere in pratica qualche strategia, perché nel giro di dodici ore la Merkel ha sostituito la von der Leyen al ministero della Difesa con Annegret Kramp-Karrenbauer, cioè la sua delfina, cioè una della Cdu (anche se non è parlamentare). Ci pensate? Da oggi la Akk avrà ancora più visibilità e questa esperienza di governo potrà rafforzare la sua posizione sia dentro la Cdu che non la ama molto sia in vista del dopo Merkel. La Difesa non è un ministero facile quindi la sfida è complicata, e questo fa parte del capolavoro della Merkel: io ti offro l’opportunità, ora sta a te, intanto continui a lavorare sotto di me, perché qui comunque comando io. E l’Spd? I giornali tedeschi dicono che gli elettori si ricorderanno del fatto che i socialdemocratici hanno votato come gli eurodeputati dell’AfD, senza ottenere nulla dalla loro intransigenza. Quindi: Alles Gute zum Geburtstag, Frau Merkel, che capolavoro, e che sisterhood.

 

   

Cento, cento, cento. Ieri l’Europa ha fatto un po’ di conti, per capire dove sono andati a finire quei cento voti che erano mancati durante la nomina di David Sassoli alla presidenza del Parlamento europeo e che sono mancati anche alla conferma della von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Cento voti che non soltanto hanno spento qualche sorriso – anche il nostro, che però è tornato presto, fiducioso – ma che rappresentano anche un posizionamento e una volontà politica che in quest’Europa a caccia di identità, rilancio, riscatto ha un significato rilevante. Gli elettori che hanno scelto, il 26 maggio scorso, di votare per partiti che fanno parte dei popolari, dei socialisti, dei liberali e dei verdi europei volevano principalmente dare un voto europeista. Contro i nazionalisti, i sovranisti, gli opportunisti, contro chi conta sull’indebolimento europeo come occasione per difendere i propri interessi, e le proprie leadership.

Von der Leyen con David Sassoli dopo aver ottenuto la fiducia del Parlamento europeo (Foto LaPresse)


  

La corsa elettorale era stata molto chiara: europeisti di qui, sovranisti di là, non ci si poteva sbagliare, e gli elettori europeisti non hanno infatti sbagliato, e sono risultati maggioranza. Poi cento eurodeputati hanno deciso, quando si doveva votare la von der Leyen, di schierarsi nello stesso campo dei sovranisti e dei nazionalisti. Di questi cento, cinquanta si erano dichiarati già contrari in anticipo e apertamente, gli altri cinquanta invece sono stati una sorpresa dell’ultimo momento. Chi si è messo di traverso perché questa nuova Europa ha spezzato il meccanismo dello Spitzenkandidat – meccanismo di cui agli elettori non importa nulla – chi (i socialisti) non ha perdonato il boicottaggio del socialista Frans Timmermans (boicottaggio dei paesi dell’est e dell’Italia, cioè dell’ala sovranista): le motivazioni in realtà sbiadiscono di fronte al fatto che, alla prima occasione di dare un mandato solido a una leadership europeista, cento europeisti si sono trovati a condividere la gioia effimera di una spallata non riuscita con Marine Le Pen.

 

Una menzione speciale: i Verdi. L’onda verde è stata entusiasmante alle elezioni, ma poi i Verdi non sono stati molto considerati – anzi: per niente – quando è iniziato il gioco delle sedie. Con i “vincitori morali” va sempre così: molti abbracci e complimenti, ma poi non esisti più. Non è stata affatto accogliente, l’Europa, con gli ospiti verdi, però questo egoismo non giustifica il fatto che i Verdi alla prima conta, dopo che la von der Leyen ha messo nel suo programma delle ambizioni molte iniziative ambientaliste vincolanti (un Green Deal pure, à l’americana), abbiano votato contro. Che resistenza può avere una convivenza basata sulla ripicca?

 

L’effetto collaterale del macronismo. Emmanuel Macron può vantarsi di essere il grande elettore che ha magistralmente portato alla nomina della von der Leyen (incassando “en passant” la francese Christine Lagarde alla testa della Bce). Ma la conferma sofferta della von der Leyen è anche una sua responsabilità. Il presidente francese si era dato come obiettivo di “rifondare” la politica europea, cioè destrutturare il sistema attuale fondato su popolari, socialisti e liberali. L’opera di rifondazione è appena iniziata: la vecchia Alleanza dei liberali e democratici si è trasformata in Renew Europe, ma il Ppe e i S&D sono ancora in piedi. E gli scossoni hanno già provocato caos: più che ristrutturati, i tre grandi gruppi appaiono in preda all’anarchia. Macron può ancora ottenere qualche vantaggio dalle macerie. Un francese potrebbe prendere il posto di Martin Selmayr, uomo forte della Commissione Juncker negli ultimi cinque anni, come segretario generale dell’istituzione. Il Consiglio europeo ha inflitto una lezione all’Europarlamento, affermando la propria supremazia politica. Ma prima o poi Macron dovrà assumersi la responsabilità di ricostruire qualcosa, altrimenti l’Ue rimarrà paralizzata.

 

Ehi, è merito nostro, dicono i polacchi. Martedì a Strasburgo ognuno seguiva il suo ritmo, ma chi, tra tutti, un passo avanti e due indietro, poi di nuovo avanti si è lasciato andare a un valzer dal ritmo incerto, sono stati i quaranta eurodeputati polacchi del PiS che ci hanno pensato e ripensato decine e centinaia di volte, fino a intestarsi la vittoria della von der Leyen. Quando a inizio luglio i capi di stato e di governo avevano trovato un nome che sembrava mettere tutti d’accordo, quello sconosciuto ai più della von der Leyen, il primo ministro ungherese Viktor Orbán aveva lasciato intendere che va bene Macron e la sua idea di Europa, ma il nome della candidata lo aveva tirato fuori lui. Ai polacchi, che si sono mossi in sintonia con Orbán durante le trattative, quel nome così antirusso andava benissimo, ma di certo non potevano rivendicare di essere stati loro a tirare fuori dalle nottate insonni il nome che metteva tutti, o quasi, d’accordo.

 

Il partito di governo polacco, un po’ affaticato nel tentativo di mostrarsi euroscettico ma collaborativo, ha insistito con le promesse e i ricatti sottintesi, per due volte ha proposto il nome di Beata Szydlo alla Commissione affari sociali, due volte l’ex premier è stata bocciata. Sul suo nome sembrava reggersi il voto a favore o contro la von der Leyen, ma alla fine i polacchi hanno deciso di lasciar perdere la Szydlo – qualche cronaca racconta si sia offesa con i colleghi per il tradimento – e di votare comunque per l’ex ministro della Difesa. Quando martedì in serata i 383 voti sono suonati troppo pochi per poter cantare liberamente vittoria, il PiS ha rilasciato un comunicato per sottolineare che se non fosse stato per loro, la Commissione europea sarebbe senza un presidente e la von der Leyen senza un impiego, visto che aveva già deciso di dimettersi comunque da ministro della Difesa. Altro che Beata Szydlo, il PiS corteggia l’Ue, quella che conta e che decide perché spera in cariche importanti o almeno in un qualche trattamento di favore per quanto riguarda l’articolo 7 per la violazione dello stato di diritto.

 

I prossimi passi di Ursula. La von der Leyen ha iniziato subito a lavorare con la sua squadra di transizione per formare la sua Commissione. I contorni gerarchici e di genere sono già conosciuti: Frans Timmermans e Margrethe Vestager saranno vicepresidenti esecutivi (con uno status superiore a quello di tutti gli altri) di un governo che sarà totalmente paritario (von der Leyen chiederà ai governi di inviare i nomi di un uomo e di una donna). Poi ci saranno le trattative su nomi da associare a portafogli. I governi dovranno inviare candidati “compatibili con il programma presentato da von der Leyen”, spiega al Foglio una fonte europea. Guai in vista per i governi di Italia, Polonia e Ungheria? Cinque anni fa, Viktor Orbán ottenne più del 50 per cento alle elezioni europee, ma il suo commissario Tibor Navracsics ottenne un portafoglio di “serie C” (Sport e Cultura). Ma per la von der Leyen il compito più importante riguarderà il programma e la capacità di realizzare almeno una parte di quanto promesso nel suo discorso di martedì. Quel che deve evitare sono ulteriori concessioni agli uni e agli altri per tentare di elemosinare altri appoggi in vista della fiducia dell’intera Commissione in ottobre. I gruppi politici che dovrebbero formare la maggioranza europeista sono nel caos, senza “whip” che frustino in modo efficace i deputati semplici per rimetterli in riga. Se i colonnelli popolari, socialisti e liberali non sono in grado di tenere compatte le truppe, tocca al generale compiere un atto di autorità. Sarebbe anche il modo più efficace per la von der Leyen di uscire rafforzata da quei 9 voti di maggioranza che rischiano di comprometterne tutto il mandato.

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