Manfred Weber (foto LaPresse)

Le parole di Weber che in Italia non sono capite

Alessandro Barbano

“Estremisti e nazionalisti sono miei nemici”, dice il leader dei popolari europei. Che a due mesi dalle elezioni indica un percorso che è insieme un riferimento ideologico di grande valore

Nel clima “impolitico” che segna il dibattito pubblico in Italia può accadere che un’intervista dal significato quasi storico, come quella rilasciata alla Repubblica dal leader dei popolari europei, Manfred Weber, passi inosservata. E invece si tratta del sasso più grosso lanciato nello stagno della politica continentale negli ultimi mesi. Sia per il ruolo e la statura del politico bavarese, che è il candidato del Ppe favorito nella corsa alla guida della Commissione europea, che s’insedierà dopo le elezioni del 23-26 maggio. Sia perché segna una sterzata europeista che fino a qualche settimana fa non era scontata.

 

Che cosa dice il nuovo delfino di Angela Merkel? Dice senza mezzi termini che dopo il voto europeo i popolari non faranno mai accordi con Matteo Salvini, né con Marine Le Pen, né ancora con Jaroslaw Kaczynski, né tantomeno con tutte le altre formazioni di destra e sinistra radicale sparse nelle periferie del Vecchio Continente, perché – spiega espressamente Weber – “tutti gli estremisti e i nazionalisti sono miei nemici”. Compreso il ribelle magiaro Viktor Orbán, che pure finora ha trovato protezione nella multiforme casa dei popolari, ma che, dopo aver rifiutato ogni compromesso sulla difesa dello stato di diritto in Ungheria, “non è più – secondo Weber – parte del Ppe”.

 

La svolta è destinata ad avere riflessi rispetto alle alleanze che i popolari, ancora accreditati dai sondaggi come il prossimo partito di maggioranza relativa, andranno a perseguire dopo il voto. Vuol dire che il nuovo assetto geopolitico dell’Europa nascerà da un compromesso del Ppe con i socialisti, i verdi e i liberali. Weber lo dice “senza se e senza ma” e indica, a due mesi dalle elezioni, un percorso che è insieme un riferimento ideologico di grande valore.

 

Lo spitzenkandidat popolare rende visibile l’oceano che da sempre esiste tra la tradizione cristiana e liberale, che egli rappresenta, e la destra nazionalista del populismo europeo. Ciò è tanto più rilevante quanto più Weber appartiene a quella Csu bavarese che da sempre incarna, nella geografia politica dei cristiano-democratici tedeschi, l’ala più conservatrice e incline ad occhieggiare alla xenofobia della destra reazionaria. Il leader dimostra invece che è possibile conciliare la rigida difesa delle frontiere con la solidarietà che si deve a ogni immigrato “in quanto essere umano”. Allo stesso modo richiama l’Europa a una responsabilità finanziaria, che impone la riduzione del debito e il rispetto dei vincoli di bilancio, ma che non rinuncia a riforme e investimenti in favore del lavoro e dei giovani. E, da ultimo, riabilita la funzione e l’estetica del compromesso come sostanza dell’europeismo, contro ogni tentazione della democrazia diretta o del leaderismo populista che offenda la delega.

 

Proiettate sull’Italia, le sue parole dimostrano che è possibile un racconto “altro” della democrazia, rispetto a quello che il populismo fa e c’induce, per contagio, a fare. Che è possibile, cioè, sottrarci a quella polarizzazione che incombe sul futuro come una dittatura dell’immaginario civile. E che sembra volerci condannare a scegliere tra l’egemonia di Salvini sul centrodestra e la competizione a sinistra tra ciò che resta dei Cinque stelle e ciò che torna a essere un Pd pentito del suo riformismo liberale.

 

C’è un’altra chance per la democrazia italiana, che si fa fatica a vedere, e che invece le parole di Weber rendono più intellegibile e concreta di quel racconto per estremi che il populismo vuol imporre al Paese. Ciò significa, per fare solo un esempio, che c’è una terza possibilità tra il giustizialismo stalinista dei Cinque stelle e quello securitario della Lega. Tra la prescrizione interrotta dopo il giudizio di primo grado, che condanna gli indagati a una eterna persecuzione di Stato, e la legittima difesa che elimina la proporzione tra attacco e protezione, e appalta ai privati la tutela dell’ordine pubblico.

 

Ma perché questa alternativa diventi concreta occorre un coraggio che in Italia ancora non si vede. Né a sinistra, dove sotto l’ombrello di un’ammucchiata europeista si rinuncia a riscrivere le coordinate del riformismo. Né a destra, dove pure le parole di Weber sembrano dirette. E dove coloro che si considerano gli eredi della tradizione liberale avrebbero molti motivi per smarcarsi da Salvini e per cercare alleanze nel grande spazio che la polarizzazione populista lascia scoperto al centro, piuttosto che invocare, con la subalternità propria dei genitori delegittimati, il ritorno a casa di un figlio né prodigo, né pentito.

 

C’è una cosa che Weber non dice, ma che implicitamente considera e che si ricava dal suo ragionamento. Il leader dei popolari sa che la sua agibilità politica è dentro un sistema proporzionale, che esalta la democrazia nella creatività del compromesso. La politica italiana finge invece di ignorare che questo schema risponde anche alle regole vigenti del sistema elettorale nazionale e alla frammentazione del suo quadro politico. Così accade che a sinistra vecchi leader, come Walter Veltroni, ancora su Repubblica, invochino un improbabile bipolarismo contro le ragioni del realismo, illudendosi che un risicato sorpasso del Pd sui Cinque stelle possa offrire al paese una credibile e coesa alternativa di sinistra. Ma accade anche che a destra Berlusconi insista nel ruolo di aspirante alleato di un centrodestra di governo che non c’è, e che, qualora ci fosse, lo condannerebbe a un’irrilevanza maggiore di quanto non dica la sua ormai modesta cifra elettorale. Per questo le parole di Weber suonano forti in Europa e sono ignorate in Italia. Dove molti leader struzzi vagano in una permanente vigilia elettorale con la testa sotto la sabbia.

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